Ilide Carmignani non ha certo bisogno di presentazioni per chi ama la letteratura in lingua spagnola e in particolare gli autori latinoamericani, ma ai più distratti vogliamo ricordare che ha «prestato la sua voce» a scrittori come Jorge Luis Borges, Luis Cernuda, Carlos Fuentes, Almudena Grandes, Gabriel García Márquez, Mayra Montero, Pablo Neruda, Octavio Paz, Arturo Pérez-Reverte, Luis Sepúlveda e Roberto Bolaño. (Le Edizioni Sur pubblicheranno la sua traduzione di Los Pichiciegos di Rodolfo Fogwill, con il titolo Scene da una battaglia sotterranea.) All’attività di traduttrice unisce l’insegnamento (Corso di laurea specialistica in traduzione letteraria dell’Università di Pisa), e ha tenuto corsi e seminari di traduzione letteraria in Italia e all’estero.
Dal 2000 è consulente per la traduzione letteraria alla Fiera del Libro di Torino, dove cura l’attività di conferenze e seminari nella sezione «L’autore invisibile». Dal 2003, insieme a Stefano Arduini, organizza il convegno annuale «Giornate della traduzione letteraria» presso l’Università di Urbino.
È autrice del libro Gli autori invisibili. Incontri sulla traduzione letteraria (Besa 2008).
Pubblichiamo un suo pregnante intervento uscito sul numero 130 della rivista «Lo straniero» lo scorso aprile ringraziando lei e la testata.
di Ilide Carmignani
Riflettere sul rapporto scrittore-traduttore significa da un lato entrare nel vivo della realtà socioculturale in cui il traduttore opera, una realtà che condiziona fortemente le sue relazioni e le sue scelte, e dall’altro penetrare i suoi atteggiamenti psicologici, le sue fatiche e gratificazioni. Che genere di rapporto lega il traduttore e lo scrittore? Sicuramente un vincolo di mutua dipendenza: se il traduttore senza lo scrittore non esiste, lo scrittore senza il traduttore esiste soltanto nei ristretti confini della sua lingua. “Solo la traduzione può liberare tutta la bellezza racchiusa in un testo letterario straniero” recita orgogliosamente il claim del British Centre for Literary Translation, coniato dall’ex direttore Peter Bush, traduttore inglese di Juan Goytisolo. “La letteratura non è un’arte universale come la pittura, o meglio lo è solo grazie alla traduzione. La letteratura è piuttosto come la musica” spiega Bush, “ha bisogno di un interprete per dar voce a note che altrimenti resterebbero mute”, chiuse non solo in un certo spazio, aggiungiamo noi, ma anche in un certo tempo, perché come scriveva ormai trent’anni fa Folena in Volgarizzare e tradurre, traduzione è uguale a tradizione, anche senza arrivare necessariamente al Decameron in italiano moderno di Aldo Busi.
“La traduzione è il sistema circolatorio delle letterature del mondo” esemplificava con una bella metafora Susan Sontag nel suo libricino Tradurre letteratura (Archinto 2004), e costituisce, oggi più che mai, un passaggio obbligato per lo scrittore che da un lato ambisca a far parte di quella sorta di Weltliteratur vagheggiata a suo tempo da Goethe, e dall’altro desideri raggiungere tutti i suoi potenziali lettori, o che più prosaicamente voglia riscuotere i diritti delle edizioni straniere. La globalizzazione – pensiamo a fenomeni fino a poco tempo fa sconosciuti come l’uscita di un libro in lingua originale e traduzione in quindici o venti paesi contemporaneamente, Harry Potter docet – ha fatto sì che senza traduzioni uno scrittore si senta culturalmente isolato, quasi invisibile, defraudato della stragrande maggioranza del suo pubblico, costretto forse a sottrarre tempo alla scrittura per dedicarsi con fatica ad attività più remunerative, ad esempio la traduzione.
Il passaggio in un’altra lingua, tuttavia, anche senza essere visto nella tragica luce di Thomas Bernhard per cui il testo tradotto è come “un cadavere, sfigurato da un autobus fino a renderlo irriconoscibile”, resta comunque un momento spinoso per lo scrittore. Anni fa, alle “Jornadas en torno a la traducción literaria” organizzate a Tarazona dalla Casa del Traductor di Spagna, il convegno si aprì con una conferenza di Julio Llamazares, noto in Italia per Pioggia gialla (Einaudi 1993), Trás-os-Montes. Un viaggio portoghese (Feltrinelli Traveller 1999), Memoria della neve (Amos Edizioni 2003) e Luna da lupi (Passigli 2007). Uno scrittore raffinato, attento a ogni eco di ogni aggettivo. Dopo alcune riflessioni molto interessanti e divertenti sulle esperienze passate, Llamazares finì per confessare che metteva i suoi testi nelle mani del traduttore con la stessa paura con cui avrebbe messo il suo corpo, in caso di bisogno, nelle mani di un chirurgo, perché “il chirurgo taglia la carne del corpo, ma il traduttore taglia la carne dell’anima”. Un atteggiamento timoroso e diffidente, del tutto comprensibile, che può cedere il passo a un’enorme gratitudine o a un’ira funesta, raramente all’indifferenza. Primo Levi, a questo proposito, scrive: “Vale la pena di dire una parola anche sulla condizione dello scrittore che si trova ad essere tradotto. Essere tradotti non è un lavoro né feriale né festivo, anzi, non è un lavoro per niente, è una semi-passività simile a quella del paziente sul lettino del chirurgo o sul divano dello psicoanalista, ricca tuttavia di emozioni violente e contrastanti. L’autore che trova davanti a sé una sua pagina tradotta in una lingua che conosce, si sente volta a volta, o a un tempo, lusingato, tradito, nobilitato, radiografato, castrato, piallato, stuprato, adornato, ucciso. È raro che resti indifferente nei confronti del traduttore, conosciuto o sconosciuto, che ha cacciato naso e dita nelle sue viscere: gli manderebbe volentieri, volta a volta o a un tempo, il suo cuore debitamente imballato, un assegno, una corona di lauro, o i padrini” (Tradurre ed essere tradotti, in L’altrui mestiere, Einaudi 1985). Forse è proprio il timore di vedersi sfidare a duello che fa circolare fra i traduttori l’adagio: “Il miglior scrittore è quello morto”. Scherzi a parte, il traduttore non è certo ignaro delle responsabilità connesse al proprio mestiere.
Solitamente tradurre è per la stragrande maggioranza dei traduttori, non solo un lavoro – un lavoro scelto, fortemento voluto – ma una vera passione, a cui è molto difficile rinunciare malgrado non porti né grandi denari né grandi riconoscimenti. È un profondo e duplice piacere: piacere della lettura e piacere della scrittura. Per chi ami queste due attività, non vi è lavoro che le combini meglio, che le colleghi più intimamente. Il traduttore ha il privilegio di veder diventare la sua lettura materia di lettura altrui, il privilegio di trasformare l’atto creativo del leggere in un nuovo testo, unico e originale, opera d’ingegno protetta a tutti gli effetti dal diritto d’autore. I traduttori però non avvertono solo piaceri e privilegi: la responsabilità professionale di dare voce italiana a uno scrittore appare assai gravosa per molti motivi, non solo intrinseci alle difficoltà del lavoro di mediazione, ma anche estrinseci e squisitamente pratici. L’editoria, per motivi ben comprensibili sia culturali sia di mercato, rivolge il suo interesse soprattutto alla produzione letteraria contemporanea, la cui diffusione è regolata dalla legislazione internazionale del diritto d’autore a cui si alludeva un attimo fa. Ieri fino a cinquant’anni e oggi fino a settanta dalla morte dello scrittore, i diritti dell’opera sono di regola ceduti in esclusiva a un solo editore per paese, in modo da consentirne lo sfruttamento economico pieno e senza intralci. Diretta conseguenza di questo limite è che la versione del traduttore prescelto dalla casa editrice acquirente sarà per lungo tempo, in certi casi per sempre, la sola presente nelle librerie e nelle biblioteche, in altre parole sarà l’unica attraverso cui si potrà accedere al testo. E tutto ciò che sfuggirà all’interpretazione di quel traduttore, sarà assolutamente negato ai lettori, agli studiosi e alla cultura italiana in genere. Tuttavia una cattiva traduzione, oltre a danneggiare il lettore, che crede di leggere una certa opera e ha invece davanti una pallida imitazione, oltre a danneggiare la cultura del nostro paese, che riceve un messaggio immiserito, oltre a danneggiare la nostra lingua, l’italiano, abbrutendola e privandola di stimoli vitali, danneggerà in primo luogo lo scrittore, umiliando irreparabilmente il suo lavoro, limitandone la diffusione e l’influenza, allontanando i potenziali lettori, portando pagine culturali e critica a ignorare il testo, spingendo l’editoria a non intraprendere traduzioni di altre opere dello stesso autore.
Non si creda che questo rischio, concreto per la vasta maggioranza degli scrittori pubblicati dall’editoria, che come dicevamo predilige testi contemporanei, sotto diritti, e non lavora tanto sul catalogo quanto sulle novità, non sia comunque presente anche nel caso dei classici, che scontano con insufficienti ritraduzioni il loro angusto mercato. Laura Bocci, traduttrice di classici tedeschi, racconta con umorismo nel suo Di seconda mano (Rizzoli 2004) le difficoltà incontrate nel far accettare le sue proposte a un editore, perché un editore “a volte malgré lui – deve pensare soprattutto a quanto costeranno traduzione, carta, stampa, distribuzione e giacenze. E il macero? Anche quello ha i suoi costi. / ‘Lei si deve rendere conto una volta per tutte che io devo pescare per forza nelle vecchie traduzioni! Una traduzione nuova di più di ottanta pagine, il marketing non me la passerà mai!’ / ‘Ma sono traduzioni di cinquant’anni fa, quando per la maggior parte degli autori non esistevano neanche le edizioni critiche. E poi, in questo modo, finite per ripubblicare sempre gli stessi titoli!’ E allora? Que viva el marketing! Requiem” conclude Bocci. È vero che un classico, un autore entrato da tempo nel canone della letteratura, ha già ben salda sulla testa la sua corona di lauro e soprattutto, essendo morto da oltre settant’anni, avrà trovato pace anche riguardo alle cattive traduzioni.
A questa sorta di involontario protagonismo del traduttore si unisce però, quasi come contrappasso, un’esclusione forzata. Qualunque studioso di letteratura, dallo specialista di fama internazionale al laureando più inesperto, può decidere di dedicare il suo lavoro allo scrittore e alle opere a lui più congeniali e pubblicarne i risultati. Il traduttore dovrà invece limitarsi a tradurre quegli autori che il destino, seguendo strade spesso bizzarre, gli concede. Immaginiamo per un momento che nel nostro paese sia permesso a un solo critico di lavorare su un certo capolavoro letterario: quale responsabilità per il critico, quale limite per gli altri. In che misura questo condizioni i traduttori è stato palese, ad esempio, quando nel breve lasso di tempo fra i cinquant’anni previsti dalla prima regolamentazione e i settanta della seconda alcuni grandi scrittori sono usciti brevemente fuori diritti e molti traduttori si sono affrettati a mettersi al lavoro su testi che da tempo aspiravano invano a tradurre. Un esempio fra tutti, la nuova versione dell’Ulysses a cui aveva messo mano Ottavio Fatica per Giulio Einaudi. Con queste considerazioni non intendiamo certo propugnare l’abolizione del copyright, ma solo mettere in risalto i profondi condizionamenti che esercita sul percorso professionale del traduttore, costretto in genere a “fidanzamenti combinati” dai suoi editori con questo o quello scrittore.
Forse proprio per superare tali limitazioni e lavorare su testi più congeniali, al traduttore capita di farsi promotore di proposte, di presentare agli editori opere inedite a suo avviso meritorie di pubblicazione. Del resto, che vi ambisca o meno, il traduttore col tempo si trasforma spesso in consulente, quando non si fa revisore o redattore, evoluzione abbastanza naturale vista la terziarizzazione di gran parte del lavoro di editing. Fin dall’inizio della collaborazione, soprattutto nel caso di case editrici indipendenti e di lingue e ambiti letterari meno noti, diventa facilmente la figura di riferimento cui vengono affidati compiti di vario genere e soprattutto letture di libri e manoscritti. Il traduttore sviluppa così competenze assai particolari: attraverso la stesura delle schede di lettura apprende a valutare un testo in rapporto al suo valore intrinseco, sì, ma anche all’aderenza a una certa linea editoriale e alla capacità di ricezione del nostro paese, competenze che, combinate con quelle da specialista, gli torneranno poi assai utili nella sua attività di scouting personale. Ben sapendo che i “successi annunciati” passano attraverso i consueti canali di compravendita dei diritti, il traduttore indagherà fra le pieghe di quella vasta tipologia di scrittori che, ora in quanto “difficili”, ora in quanto esordienti, ora in quanto di nicchia, stentano a trovare una collocazione sul mercato. Là dove i canali tradizionali hanno in qualche modo rinunciato o fallito, si insinua così il singolo, tenace traduttore, trasformandosi nel naturale alleato dello scrittore che, grato dell’aiuto, sosterrà come può il lavoro della sua “testa di ponte”.
Traduttore e scrittore, tuttavia, hanno molto in comune anche al di fuori del campo editoriale, in quella che potremmo definire la natura stessa del loro lavoro. In passato, quando il concetto di autorialità – e di proprietà intellettuale – era ben più vago, scrittura e traduzione hanno avuto confini assai sfumati, tanto è vero che molti studiosi evitano ormai una definizione univoca e preferiscono affermare in modo tanto cauto quanto tautologico che è traduzione ciò che in un determinato periodo storico si intende per traduzione. Ma ancora oggi, quando non si individua sufficiente autorevolezza nel testo originale, come ad esempio nel caso di certa letteratura di genere o per ragazzi, resta molto difficile tracciare una linea netta fra traduzione e riscrittura: il libro può subire tagli o addirittura ampliamenti, lo stile può essere profondamente modificato, una scena completamente riformulata, i riferimenti culturali possono essere eliminati o sostituiti con altri appartenenti alla lingua di arrivo… Non è mancato neppure chi ha visto, non la scrittura nella traduzione, ma la traduzione nella scrittura: Octavio Paz sosteneva che tutti i testi, facendo parte di un sistema letterario originato da altri sistemi e a questo connesso, sono traduzioni di traduzioni di traduzioni, da qui il continuo dialogo delle letterature comparate. “Ogni testo è unico” scriveva Paz “e, nel contempo, è la traduzione di un altro testo. Nessun testo è completamente originale, poiché lo stesso linguaggio, nella sua essenza, è già una traduzione, innanzitutto del mondo non verbale, e, inoltre, perché ogni segno e ogni frase sono la traduzione di un altro segno e di un’altra frase. E questo ragionamento può essere invertito: tutti i testi sono originali perché ogni traduzione è diversa. Ogni traduzione è fino a un certo punto, un’invenzione, per cui costituisce un testo unico” (Traduzione: letteratura e letteralità, traduzione di V. Scorpioni, in S. Neergard, Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani 1995). Paz illustrava poi la differenza fra scrittura e traduzione evidenziandone gli ambiti: se la letteratura è una funzione specializzata del linguaggio, la traduzione è una funzione specializzata della letteratura. Una sorta di genere letterario a parte, a cui ci si può dedicare senza per questo essere o sentirsi “scrittori mancati”, semplicemente per una specifica vocazione legata al proprio carattere. Renata Colorni, traduttrice, direttrice editoriale dei Meridiani e per lungo tempo responsabile della narrativa italiana Mondadori, mette così a confronto i temperamenti di traduttore e scrittore: “Il traduttore è una bestia un po’ particolare. Così come io l’ho fatto e come lo intendo, è una persona molto disposta all’ascolto, a restare nell’ombra, dotata di grande umiltà e devozione, forse di masochismo, ma anche di un’enorme curiosità. Ora che il mio lavoro, del tutto diverso, mi porta a incontrare molti scrittori, a conoscerne a fondo la psicologia, credo di poter dire che in generale, ma esistono naturalmente vistose e luminose eccezioni, si tratta di persone pochissimo curiose. Lo scrittore è in genere una persona molto concentrata sul proprio ego, sul proprio modo di esprimersi, sul proprio mondo. Grande o piccolo non importa, è sempre ferocemente attaccato a una sua espressività e spesso ha poco interesse per la voce degli altri. Anche il modo in cui legge è fagocitante, cannibalico, legge per trarne qualcosa. […] L’atteggiamento del traduttore è [invece] quello di uno che non si appaga di sé, e che si appaga solo nel momento in cui si appoggia sulle spalle di un gigante. […] Il traduttore è un artista camaleontico e libertino” (I. Carmignani, Gli autori invisibili, Besa 2008).
Ma passiamo alla vita quotidiana di queste due figure: nel suo studio, il traduttore legge e poi scrive. Lo scrittore fa il contrario. Forse entrambi preferirebbero ogni tanto sfuggire alla condanna di questa sequenza: poter leggere il testo prima di scriverlo, poterlo scrivere prima di leggerlo. E ancora, sia lo scrittore sia il traduttore sono sempre soli, anche se di una diversa solitudine. Racconta Paul Auster (L’invenzione della solitudine, traduzione di M. Bocchiola, Einaudi 1997): “Per gran parte della sua vita da adulto ha sbarcato il lunario traducendo libri di altri scrittori. Siede alla scrivania, legge il libro in francese, poi prende la penna e riscrive lo stesso libro in inglese. Si tratta e nel contempo non si tratta dello stesso libro, e la stranezza di quell’attività non ha mai cessato di stupirlo. Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire, chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non molti anni, della solitudine di un individuo, sicché ad ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine. Un uomo solo è seduto in una stanza e scrive. Che parli di isolamento o di compagnia, di amicizia, il libro è necessariamente generato da una solitudine. A. siede nella sua stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine di quell’uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile, perché quando si apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due. A. si immagina come uno spettro dell’altro individuo, che a un tempo è e non è presente, e il cui libro è a un tempo identico e differente da quello che lui sta traducendo”.
C’è un gioco di specchi fra traduttore e scrittore e una sorta di coazione a ripetere nel tradurre. Scrive a questo proposito George Steiner (Dopo Babele, traduzione di R. Bianchi e C. Béguin, Garzanti 1994) commentando le erculee fatiche di Pierre Menard (J.L. Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, in Finzioni): “Ripetere un libro già esistente in una lingua straniera è il ‘compito misterioso’ del traduttore, il suo lavoro. Non è possibile ma deve essere fatto. La ‘ripetizione’, come sosteneva Kierkegaard, è un concetto a tal punto enigmatico da mettere in dubbio la causalità e il flusso temporale. Produrre un testo verbalmente identico all’originale (fare di una traduzione una trascrizione perfetta) è difficile al di là dell’immaginazione umana. Quando il traduttore, negatore del tempo e ricostruttore di Babele, sfiora il successo, passa in quello stato di specchi che viene descritto in Borges e io”. Insomma, anche il traduttore può dire con Borges: “Non so chi dei due scriva questa pagina” (Borges e io in L’artefice). Per illuminare le sottili sfumature del rapporto traduttore-scrittore si è ricorsi anche a un mito classico molto suggestivo, che si ritrova ad esempio nell’Anfitrione di Plauto. Il mito racconta che Giove un giorno si innamorò di una bella donna e per farla sua, per possederla, assunse l’aspetto del marito. Nello stesso modo il traduttore per far sua, per possedere l’opera letteraria, deve trasformarsi nel sosia dello scrittore, del legittimo proprietario. è evidente che il rapporto traduttore-opera-scrittore è un triangolo amoroso e che vi è un tradimento. Ma è un tradimento molto particolare perché il traduttore non è più se stesso, ma solo un doppio, il doppio dello scrittore. Si potrebbe dire che la traduzione nasce da un’irresistibile pulsione amorosa, talmente forte che pur di soddisfarla l’amante accetta di annullarsi, di scomparire nella figura del suo rivale. Il traduttore è un sosia, un doppio, uno spettro dello scrittore, un suo riflesso nello specchio del tempo. È la stessa attività di traduzione che lo obbliga in qualche modo a mettere da parte sé stesso, a tacere, a disporsi all’ascolto dell’altro, a fingere un’immagine dello scrittore per identificarsi con lui. La coazione a ripetere del tradurre passa necessariamente da questa immedesimazione. Il traduttore deve appropriarsi della personalità dell’autore e percorrere fedelmente a ritroso il cammino della creazione letteraria, tentando, secondo una metafora ormai comune, di mettere i piedi nelle orme dello scrittore, ma in senso opposto, invadendo il testo da fuori, incorporandolo, interpretandolo e riscrivendolo nella propria lingua.
Per far questo non è sufficiente ricostruire l’ambito letterario dello scrittore a partire dalla sua opera omnia, né conoscerne il contesto storico, sociale, culturale. Non basta analizzarne saussurianamente la parole sullo sfondo della langue, il modo personalissimo – ora istintivo ora consapevole – con cui costruisce il suo stile all’interno dello stile di un’epoca. Il traduttore è costretto a compiere una sorta di viaggio nell’interiorità dello scrittore, alla ricerca delle connotazioni più riposte, degli echi più spenti della sua voce, in un lavoro che non a caso viene accostato alla psicoanalisi, da Levi, come abbiamo visto, ma anche da altri come Daniel Pennac: “Il traduttore è lo psicoanalista dell’autore” (Le Giornate della traduzione letteraria, Centro per il Libro, Jacobelli 2010). Claudio Magris indirettamente conferma: “Ricordo che una volta il traduttore olandese, Anton Maakman, mi ha chiesto: ma lei cosa intende con l’espressione ‘incertezza della sera’? Allora gli ho scritto una paginetta, un breve saggio, per cercare di far sì che potesse ripercorrere il vissuto che aveva condotto a quella formulazione, che è poi l’ideale utopico di ogni traduzione; insomma, per tradurre un colore che cala una sera su un’ansa di un fiume, bisognerebbe in qualche modo sapere cosa è stato quel vissuto, in quella sera” (Gli autori invisibili, Besa 2008). In questo lavoro di analisi, l’ammirazione non sempre aiuta, come comunemente si crede; non sempre l’autore più amato è quello meglio tradotto. Un buon traduttore, come ogni buon interprete, deve essere implacabile; i critici letterari, che lo sanno bene, si sono creati per definizione una fama di perfidia.
Tanta intimità con lo scrittore a volte pesa, si fa claustrofobica, specie quando l’altro non affascina più e resta solo la passione per il mestiere, l’interesse intellettuale per la pratica traduttiva in sé. Forse per questo fra i traduttori corre il detto: come non c’è nessun grand’uomo per il suo maggiordomo, non c’è nessun grande scrittore per il suo traduttore. Resta comunque un forte legame di empatia, una pietas che impedisce anche al traduttore più esasperato di puntare pubblicamente il dito sui limiti dello scrittore e della sua scrittura, come fa invece il critico, anche se questi limiti si ripercuotono doppiamente su di lui, sia durante il lavoro, che è tanto più arduo quanto maggiori sono le pecche dell’originale, sia in seguito, nel mancato riconoscimento del suo sforzo, tranne fortunatamente da parte dell’editore.
Il fatto che, come dicevamo, non sempre il rapporto sia elettivo complica ulteriormente la relazione. È come un fidanzamento combinato: forse tra i due ci sarà solo un incontro colmo di imbarazzi, sgradevole, fugace, o forse un matrimonio felice. Guimarâes Rosa, che era entusiasta del suo traduttore italiano Edoardo Bizzarri, parlava di “convivenza”, mentre Valéry Larbaud diceva che la traduzione “c’est tout un roman d’amour”. Paco Taibo II, con il consueto senso dell’umorismo, precisa: “Con i miei traduttori tutto, eccetto il sesso”. Tradurre più di un romanzo dello stesso autore è in effetti “come rinnovare l’incontro” scrive Susanna Basso, “ritrovare certi gesti cari, o certi difetti irritanti; accorgersi di qualcosa che non si era registrato fino in fondo la prima volta e che invece non può sfuggire la seconda. Nei romanzi di McEwan ho per esempio riscoperto un oggetto in volo (un pallone, una lattina) che sempre disegnava una ‘traiettoria alta e tesa’ nel cielo della storia raccontata. Si tratta di piccolissime firme di uno stile, come vedere una persona appoggiare in modo speciale la tazza sul piattino, come osservare qualcuno infilarsi gli occhiali con un gesto tanto automatico quanto particolare” (Gli autori invisibili, Besa 2008). Riconoscerli è un ulteriore privilegio del traduttore, per la lentezza che impone il lavoro, la necessaria concentrazione su ogni parola, su ogni combinazione di parole. Naturalmente un traduttore che segue un autore in tutti i suoi libri è un archivio vivente di quello scrittore e può offrire ai lettori un grado di coerenza interpretativa e stilistica impossibile da ottenere in altro modo. Gli editori lo sanno, e di solito proteggono questi legami.
Spesso, traduttore e scrittore entrano in contatto per discutere dubbi e persino scelte di traduzione. I vantaggi per il traduttore sono evidenti, ma il confronto può essere fertile per entrambi, e non solo perché in qualche modo “soci” nell’impresa dell’edizione straniera. Scriveva Italo Calvino: “Tradurre è il vero modo di leggere un testo: credo sia già stato detto molte volte; posso aggiungere che per un autore il riflettere sulla traduzione di un proprio testo, il discutere col traduttore, è il vero modo di leggere se stesso, di capire bene cosa ha scritto e perché” (I. Calvino, Tradurre è il vero modo di leggere un testo, in Saggi, vol. III, Meridiani Mondadori 1995). E qualche volta può persino accadere di scoprire che l’originale è infedele alla traduzione: “Una delle cose più belle che possa succedere a chi viene tradotto” sostiene Claudio Magris “è accorgersi che il traduttore ha ragione rispetto a lui”.
Può capitare che un giorno traduttore e scrittore s’incontrino di persona, magari durante il giro di presentazione di un nuovo libro. Per un traduttore conoscere in carne e ossa il fantasma di carta con cui ha dialogato ogni giorno, tutto il giorno, per mesi, talvolta per anni, è un grande evento, una rivelazione. Davanti allo scrittore ha mille curiosità da placare, a ogni livello, anche il più banale, prima fra tutte la curiosità di sentire il linguaggio parlato, ossia più istintivo, più immediato dell’autore, per confrontarlo con il linguaggio scritto, meditato, l’unico che il traduttore conosce e che è materia prima del suo lavoro; del resto lo stesso, in misura diversa, si suppone accada anche a studiosi e lettori. Durante questo primo incontro, il traduttore si sente sempre un po’ impacciato: l’intimità unilaterale squilibra il rapporto, anche se, rotto il ghiaccio, può consentire in breve la nascita di una vera familiarità. L’altro motivo d’impaccio nasce dalla consapevolezza delle proprie responsabilità. Il traduttore teme sempre di essersi lasciato sfuggire qualcosa, del resto gli si chiede “di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere, di avere lo sguardo d’aquila dell’uno e la maniacale pignoleria dell’altro” (Fruttero & Lucentini, I ferri del mestiere, Einaudi 2003), oppure ha paura di non aver privilegiato nella traduzione dell’opera l’aspetto che l’autore preferiva – forse l’aderenza all’originale per salvaguardare la forma metrica, forse la forma metrica per salvaguadare l’aderenza all’originale – pur sapendo bene che le varie versioni di un testo si escludono e si completano a vicenda, come del resto accade con i saggi critici. La traduzione ha, infatti, come tutte le altre forme d’interpretazione, questa caratteristica di laboratorio aperto, di indagine accanita, di cammino verso l’opera, di continuo movimento di differenziazione, cui si può chiedere tutto, tranne l’unicità rotonda, autonoma e autosufficiente, del testo originale. Inoltre, l’autore della versione italiana resta sempre e comunque il traduttore, onori e oneri, e come ogni scrittore scrive per un determinato lettore e editore, così ogni traduttore traduce per qualcuno nello spazio e nel tempo. Le sue scelte non sono mai casuali: bisogna esaminare la cultura di partenza e di arrivo, le loro relazioni, il committente, il pubblico ideale, come ben sa chi ha frequentato i Translation Studies. Anche questi condizionamenti, in fondo, sono uno dei tanti aspetti che scrittore e traduttore hanno in comune
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