Pubblichiamo un testo di Mario Vargas Llosa in ricordo dello scrittore cileno José Donoso.
«Henry James è una merda»
di Mario Vargas Llosa
traduzione di Dajana Morelli
Era il più letterario di tutti gli scrittori che ho conosciuto, non solo perché aveva letto molto e sapeva tutto quello che c’era da sapere su vita, morte e miracoli dell’ambiente letterario, ma perché aveva plasmato la sua vita così come si plasmano le finzioni, con l’eleganza, i gesti, le insolenze, le stramberie, l’umorismo e l’arbitrarietà che i personaggi del romanzo inglese, il suo preferito, sono soliti sfoggiare.
Ci siamo conosciuti nel 1968, quando viveva sulle alture maiorchine di Pollensa, in una tenuta italiana dalla quale contemplava la rigida routine dei monaci certosini, suoi vicini, e il nostro primo incontro fu preceduto da una teatralità che non dimenticherò mai. Arrivai a Maiorca con mia moglie, mia madre e i miei due figli piccoli, e Donoso invitò tutti a pranzo, tramite María del Pilar, la sua meravigliosa moglie, la giardiniera delle sue nevrosi. Accettai, contento. Il giorno dopo María del Pilar mi richiamò per spiegarmi che, dopo averci pensato bene, Pepe riteneva che fosse meglio escludere mia madre dall’invito perché la sua presenza avrebbe potuto turbare il nostro primo contatto. Accettai, incuriosito. Alla vigilia del lieto giorno, una nuova chiamata di Pilar: Pepe aveva consultato lo specchietto e forse sarebbe stato meglio annullare il pranzo. Di quale specchietto stava parlando? Di quello che Pepe consultava le sere in cui sentiva che le Parche lo circondavano, quello che scrutava ostinatamente in attesa del suo ultimo respiro. Risposi a María del Pilar che, pranzo o non pranzo, io sarei comunque andato a Pollensa a conoscere di persona quel pazzo furioso.
Andai e lui sedusse tutta la famiglia con la sua brillantezza, le sue storie e, soprattutto, con le sue ossessioni, che mostrava al mondo con l’orgoglio e la magnificenza con cui altri mostrano le proprie collezioni di quadri o di francobolli. Durante quelle vacanze siamo diventati molto amici e non abbiamo mai smesso di esserlo, anche se credo che non siamo mai stati d’accordo sui nostri gusti e disgusti letterari, e negli anni successivi sono riuscito, più volte, a farlo uscire dai gangheri ribadendo che elogiava Clarissa Middlemarch e altre porcherie simili, solo perché i suoi professori di Princeton lo avevano obbligato a leggerle. Impallidiva e gli occhi gli si iniettavano di sangue, ma non mi strozzava perché tali intemperanze sono inammissibili nei buoni romanzi.
In quel periodo stava scrivendo il suo romanzo più ambizioso, L’osceno uccello della notte e, affiancato eroicamente da María del Pilar, riviveva e soffriva nella propria carne le manie, i traumi, i deliri e le eccentricità dei suoi personaggi.
Una notte, a casa di Bob Flakoll e Claribel Alegría, ipnotizzò una decina di commensali, me incluso, mentre riferiva, no, piuttosto interpretava, cantava, mimava come un profeta biblico o uno stregone in trance storie vere o presunte della sua famiglia (…)
Tutto è sempre stato letteratura in José Donoso, ma della migliore, senza che questo significhi mera posa, superficiale o frivola rappresentazione. Costruiva i suoi personaggi con lo scrupolo e la delicatezza con cui l’artista più raffinato dipinge o scolpisce, e poi si transustanziava in loro ricreandoli nei più minimi dettagli e impersonandoli fino alle estreme conseguenze. Per questo, non deve stupire che il personaggio più ammaliante che ha inventato sia quel commovente vecchio travestito di Il luogo senza confini che, nel miserabile mondo di camionisti e spacconi semianalfabeti in cui vive, si traveste da spagnola e balla il flamenco, anche se così facendo, gli fugge via la vita. Nonostante abbia scritto storie più impegnative e più complesse, questo è il più riuscito tra i suoi racconti, in cui si simula con maggior perfezione quel mondo capovolto, nevrotico, dalla ricca immaginazione letteraria, nemico mortale del naturalismo e del realismo tipici della letteratura latinoamericana, fatto a immagine e somiglianza delle pulsioni e dei fantasmi più segreti del suo creatore, che li lascia ai suoi lettori.
Tra i molti personaggi che Pepe Donoso ha incarnato, molti dei quali ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare, scelgo ora l’aristocratico, tipo Tommaso di Lampedusa, che fu negli anni che visse tra le montagne di Teruel, nel paesino di Calaceite, dove ricostruì una splendida casa di pietra e dove le birichinate dei miei figli e di sua figlia Pilar gli suggerirono la storia del romanzo Casa di Campagna. Il paese era pieno di vecchine vestite a lutto, cosa che finì per affascinarlo, visto che la vecchiaia era stata, insieme alle malattie, una delle sue vocazioni più precoci – quando descriveva i suoi mali e i suoi sintomi raggiungeva livelli di ispirazione ai limiti della genialità che nemmeno i suoi racconti di vecchi e vecchie arteriosclerotici superavano – e aveva un solo medico, ipocondriaco come lui che, ogni volta che Pepe gli faceva un resoconto delle sue malattie, lo fermava di colpo, e si lamentava: “A me fanno male la testa, la schiena, lo stomaco, i muscoli più che a lei”. Andavano perfettamente d’accordo, ovviamente.
La prima volta che passai qualche giorno con lui a Calaceite, mi informò che si era già comprato una tomba nel cimitero del posto, perché quel paesaggio dall’asprezza rugosa e di monti lunari era il più adatto alle sue povere ossa. La seconda volta, scoprii che possedeva le chiavi della chiesa e delle sagrestie di tutta la regione, sulle quali esercitava una specie di potestà feudale, perché nessuno poteva visitarle né andarvi a pregare senza il suo permesso. E, la terza, che, oltre alla funzione di pastore supremo e di supersagrestano della regione, svolgeva anche il ruolo di giudice: seduto all’entrata di casa sua e stretto in sandali di corda e tuta da apicoltore, risolveva i conflitti locali che i vicini sottoponevano alla sua considerazione. Rappresentava meravigliosamente quel ruolo e persino il suo aspetto fisico, la chioma grigia e la barba incolta, lo sguardo profondo, l’atteggiamento paterno, l’espressione bonaria, i vestiti sbiaditi, facevano di lui un patriarca atemporale, un signore con diritto di vita e di morte come quelli dei tempi andati.
Il periodo in cui lo vidi di più fu quello di Barcellona, tra il 1970 e il 1974, quando, per una serie di circostanze, la bella città mediterranea si trasformò nella capitale della letteratura latinoamericana, o quasi. Lui descrive una di quelle riunioni – a casa di Luis Goytisolo – nella sua Storia personale del boom, dove elogia quegli anni esaltanti, in cui la letteratura ci sembrava così importante e così capace di cambiare la vita delle persone, e nei quali miracolosamente sembrava abolito l’abisso che separa scrittori e lettori spagnoli e ispanoamericani, e nei quali anche l’amicizia ci sembrava indistruttibile, con una nostalgia che trapela tra le righe della sua prosa attenta a mantenere una circospezione inglese. È una sera che ricordo molto bene, perché l’ho vissuta e perché l’ho rivissuta leggendo il suo libro, e potrei persino aggiungere una postilla di qualcosa che lui cancellò, quella storia che era solito raccontare quando si lasciava andare ed era in confidenza – e la raccontava in un modo tale che era impossibile non crederci – di quando era un pastore nelle solitudini magellaniche, e castrava montoni alla maniera primitiva, ovvero a morsi (“Così, così, ah, ah!”) e poi sputava i bocconi a venti metri di distanza. Qualche volta l’ho sentito vantarsi di aver tolto, lui solo con i suoi denti, la virilità ad almeno un migliaio di indifesi montoni della remota regione di Magellano.
Le ultime due volte che l’ho visto, nel 1995 e nel 1996, a Santiago del Cile, seppi che, quella volta, non c’era di mezzo la letteratura, o meglio, che quella era letteratura realista, puro documentario. Era dimagrito moltissimo e poteva a malapena parlare. La prima volta, nella clinica dove era appena stato operato, mi parlò del Marocco e capii che mi aveva confuso con Juan Goytisolo, del quale poco tempo prima aveva letto un libro che vagava nella sua memoria. Quando mi congedai da lui la seconda volta, stava sdraiato sul letto e respirava a fatica. “Henry James è una merda, Pepe.” Lui mi strinse la mano per obbligarmi ad abbassare la testa fino all’altezza del suo orecchio: “Flaubert di più”.
Questo estratto appartiene al Diccionario del amante de América Latina di Mario Vargas Llosa, che la casa editrice Paidós ha appena pubblicato in Argentina.
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