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Qualcosa di bello da fare. Catherine Lacey intervista Renata Adler

Catherine Lacey BIGSUR, Interviste

 

Renata Adler, nata a Milano nel 1937 ma cresciuta negli Stati Uniti, è autrice di due romanzi e svariate raccolte di saggi; di recente la sua opera – spesso accostata a quella di una maestra della non-fiction come Joan Didion – ha conosciuto una meritata riscoperta sulla scena letteraria americana (e anche in Italia è stato ristampato, da Mondadori, il suo romanzo Mai ci eravamo annoiati). A intervistarla è qui Catherine Lacey, il cui romanzo Nessuno scompare davvero, uscito per SUR nel febbraio 2016, è stato segnalato dalla critica statunitense fra i migliori esordi del 2015.
L’intervista è uscita originariamente su Vice, e viene qui riprodotta per gentile concessione di Catherine Lacey.

 di: Catherine Lacey 
Traduzione di Laura Bortoluzzi

Di’ a un appassionato di libri che stai per intervistare Renata Adler e puoi aspettarti una gamma di reazioni che va dall’invidia alla diffidenza, fino a una sorta di timore reverenziale. Molti conoscono Adler per i suoi due romanzi, Speedboat [tradotto in italiano nel 1983 con il titolo di Fuoribordo, e poi di nuovo nel 2014 con il titolo di Mai ci eravamo annoiati, n.d.t.], e Pitch Dark, usciti rispettivamente nel 1976 e nel 1983, ed entrambi ripubblicati dalla New York Review of Books nel 2013 con il plauso generale della critica. (Li ho letti entrambi la settimana dopo aver terminato il mio primo libro ed è stato come incontrare un parente sconosciuto, una sensazione inspiegabile confermata quando ho letto una recensione che inseriva il mio romanzo nella tradizione di Renata Adler). Ma prima che i suoi romanzi acquistassero visibilità, Adler era meglio nota per la causticità delle recensioni e dei saggi scritti per il New Yorker e il New York Times, sebbene abbia smesso i panni di critica cinematografica del quotidiano dopo un anno, e lo abbia in seguito criticato per una serie di colpe editoriali nell’introduzione del libro Canaries in the Mineshaft, del 2001.

Il suo nuovo libro, After the Tall Timber, è un’imponente raccolta dei grandi successi della sua pluridecennale produzione di non-fiction, compreso il suo pezzo più discusso, quello in cui demolì la raccolta di recensioni cinematografiche di Pauline Kael, When the Lights Go Down. (Un giudizio deliziosamente tranchant e spesso citato definisce il libro «articolo dopo articolo, riga dopo riga, tutto e senza alcuna eccezione, completamente inutile»). La polemica derivava principalmente dal fatto che all’epoca Kael e Adler scrivevano entrambe per il New Yorker e aveva meno a che fare con l’effettiva sostanza del pezzo. Fedele allo stile di Adler, l’articolo era spietato e non temeva di essere controverso, ma supportava anche ogni punto con citazioni tratte dal libro e ampi ragionamenti sul ruolo del critico in generale. Ciò nonostante, Adler si fece la fama di critica temibile, come se si divertisse a stroncare libri a destra e a manca. Nel 1999, dopo un lungo periodo di silenzio, pubblicò un memoir intitolato Gone: The Last Days of The New Yorker e i critici di tutta la città per poco non scoppiarono di rabbia vedendo che qualcuno si era permesso di criticare la loro amata rivista alla vigilia del suo settantacinquesimo compleanno.

Parliamo di una donna che a 26 anni ha seguito per il New Yorker la marcia di protesta da Selma a Montgomery, che ha fatto l’inviata in Biafra, in Vietnam e nel Mississippi durante le manifestazioni del Black Power, che scriveva i discorsi del presidente della commissione incaricata di tenere le udienze nel processo di impeachment contro Nixon, che si è iscritta alla facoltà di legge di Yale quando aveva già raggiunto quello che probabilmente è stato l’apice della sua carriera, che si è fatta le ossa in un’epoca in cui le reporter di sesso femminile – per non parlare di quelle intrepide e senza peli sulla lingua – erano ancora relativamente rare, eppure in tanti la ricordano solo per aver espresso un’opinione di tonificante onestà su una rivista intellettuale e sulle recensioni cinematografiche di un’altra donna.

Che una vita piena di lavori così importanti sia stata, per alcuni, eclissata da una manciata di critiche al giornalismo dominante, è disgustoso. Attaccate il suo lavoro come volete, ma mettete le cose in prospettiva. Questa donna non ha dato alle fiamme l’intera New York.

Io e Renata Adler ci siamo incontrate in un chiassoso caffè dell’Upper West Side in un limpido mattino quasi primaverile. Un attimo prima di lasciarci da sole, l’addetto stampa ci ha preso da parte una alla volta per raccomandarci di «essere gentili». E lo siamo state.

 

Catherine Lacey: Quando ti è venuta voglia di cominciare a pubblicare saggi ed essere una vera voce critica?

Renata Adler: È successo quasi per caso. È stata una serie di coincidenze. La prima volta che sono entrata al New Yorker, non è stato come scrittrice.

CL: Qual era la tua mansione?

RA: Una di quelle cose poco chiare per cui una volta assumevano la gente.

CL: Credo che non lo facciano più. Eri l’assistente di qualcuno o ti occupavi di fact-checking?

RA: No, no. Mi dissero: «È un vero peccato che l’unico lavoro rimasto adatto a te sia come fact-checker». Avevano solo fact-checker uomini, ma da quel momento in poi hanno avuto anche delle donne. È stata una prima volta. Una prima volta davvero importante nella storia del New Yorker.

Ma il mio era uno di quegli strani lavori non del tutto chiari. Qualcuno mi diceva: «Prendi questi elenchi di libri, vedi un po’ se c’è qualcosa che ci interessa…»

CL: Qualche consiglio da dare a questa generazione di giovani saggisti e giornalisti che si sta facendo strada in un’epoca in cui siamo chiamati a «likare» e «condividere» ogni cosa e in cui le reazioni negative possono arrivare molto in fretta?

RA: È buffo che tu me lo chieda perché in realtà ho conosciuto dei giovani scrittori davvero bravi. Proprio in gamba. E sono tanti. Ma poi ce ne sono altri che per tutta la vita sono stati presi in giro dal sistema scolastico. Non hanno mai letto niente. Quando insegnavo alla Boston University, mi ricordo che a inizio d’anno chiedevo ai miei studenti: «C’è qualcosa che avete letto tutti?»

CL: Questo tipo di conoscenza sembra scarseggiare molto rispetto a un tempo.

RA: Esatto. Mancano le basi. E così ti trovi a leggere saggi assurdi. Quindi non immaginavo che ci fossero giovani davvero bravi a scrivere. Dall’altro lato, però, in rete si trovano un sacco di articoli su chi va in questo momento e chi no. È un’epoca molto strana a livello di giudizi. Ma in un certo senso non è tanto male perché c’è più caos. Non c’è più quell’abitudine a coalizzarsi che c’era una volta. O meglio, sono sicura che c’è ancora…

CL: Sì, ma cambia più rapidamente e il rischio è quello di perdersi. C’è sempre un nemico e magari dimentichiamo chi avremmo dovuto odiare l’anno scorso.

RA: Esatto. Per me quella che era, ed è ancora, credo, la prova del nove per capire se uno è un buon critico è vedere se cita dalla sua fonte oppure no. È così che si fa. Una volta ho avuto questa recensione: «Scrive talmente male che mi fa digrignare i denti». E poi la giornalista citava alcune mie frasi. Allora ho pensato: «Aspetta un attimo. Meglio di così non so scrivere. Se lei pensa che faccia schifo, ok [Risate]». Ma è stata corretta.

CL: C’è un punto nell’introduzione di After the Tall Timber in cui affermi che uno scrittore deve costruirsi un rapporto fruttuoso con il potere giornalistico se vuole avere una carriera soddisfacente sul piano finanziario ed emotivo. La pensavi così all’inizio della tua carriera?

RA: No, ma è così che ha cominciato a funzionare. Se mi guardo indietro, non lo so. Cosa pensavo?

CL: Sono rimasta molto colpita da questa raccolta, riconsiderando tutta la tua produzione di non-fiction, e notando come gli articoli di solito più noti o quelli che suscitano maggior irritazione sono i pezzi relativamente minori in cui ti sei lanciata in un’aperta critica contro vari rappresentanti del potere giornalistico – mi riferisco agli articoli su Pauline Kael o il New Yorker o il New York Times. Li definisco minori solo se paragonati a quelli sul movimento per i diritti civili o ai reportage dal Vietnam e dal Biafra, o ancora al tuo lavoro sul Watergate o al fatto che ti sei iscritta alla facoltà di legge di Yale quando la tua carriera andava a gonfie vele. Trovo fastidioso che tutto questo sia stato eclissato da cose di così poco conto.

RA: È molto strano. E buffo. Cioè, volevo scrivere un pezzo da mettere in apertura al libro. Ci ho lavorato sodo e poi ho pensato: «No, non è finito, non è finito, non è finito». Ci ho pensato così tanto che ho bucato la consegna. E poi mi sono detta: «Va bene così».

CL: Quindi non hai scritto nessun articolo nuovo per questo libro?

RA: Sì, ma non l’ho finito in tempo. Tutto qui.

CL: Hai intenzione di pubblicarlo altrove?

RA: Non lo so, perché è stato scritto per questo libro e non riesco a immaginare cos’altro ci si potrebbe fare. In un certo senso, si scrive sempre per approfondire una situazione specifica. Ma cosa c’entra questo con quello che mi stavi chiedendo?

CL: Be’, ero curiosa di sapere che spiegazione ti sei data per le reazioni negative suscitate da alcuni dei tuoi saggi relativamente minori e dalle tue critiche al giornalismo, per il fatto che la gente l’ha presa come se avessi dato alle fiamme l’intera New York.

RA: Il punto è, credo, che uno non ne è pienamente consapevole. Ho scritto l’articolo su Pauline Kael per vari motivi. Non c’era un intento vessatorio. Lei era un nome. Una potenza.

Quindi non mi è mai passato per la testa che potesse essere un gesto di prevaricazione. Negli anni ci ho ripensato molto e mi sono chiesta: Come si fa a restare a galla quando ci crolla il mondo addosso? E com’è che in queste situazioni c’è sempre qualcuno che ci resta vicino, facendo sì che quasi non ce ne accorgiamo? A me sembra che in un certo senso non ci accorgiamo di quanto veniamo isolati.

CL: Tu credi di essertene accorta?

RA: No. Cioè, in un certo senso sì. Ma poi ci sono state anche le reazioni del tipo: «Grazie a Dio, alla fine qualcuno ha detto qualcosa». Quindi non riuscivo davvero a piangermi addosso per tutta quella storia. La cosa buffa è che mi hanno appena chiesto: «Come ti sei sentita quando ti hanno licenziata per l’articolo su Pauline Kael?» Ma io il New Yorker l’ho lasciato vent’anni dopo, e non ha avuto niente a che vedere con quell’articolo. Comunque sia, non c’è stata una gran differenza fra lasciare il New Yorker e farne parte.

CL: Perché eri una semplice redattrice?

RA: Facevo parte della redazione, ma non ero assunta. Insegnavo e quindi avevo una polizza assicurativa molto migliore, ma non grazie a loro.

CL: Questi sono gli aspetti concreti che la gente dimentica quando sceglie di scrivere per mestiere, la necessità di fare scelte strategiche e intrattenere rapporti con una testata potente.

RA: Perché [se no] non mangi.

CL: Esatto, e allora diventa doppiamente importante conservare lo spirito critico verso l’autorità. Non vogliamo ritrovarci nella situazione in cui gli scrittori sono prigionieri del loro posto di lavoro e devono comportarsi come vuole un superiore. È importante essere liberi di creare un dibattito, anche con voci discordanti.

RA: È buffo perché dopo un po’ non ci sono più le basi per una discussione. Adesso è molto difficile. Ecco perché ho tribolato tanto su quell’articolo che non è riuscito a trovare posto nel libro. È strano che il giornalismo di oggi si concentri tanto sulle situazioni personali. Una delle cose su cui si concentrano i giornalisti è sul modo in cui vengono trattati. Forse da tutto questo verrà fuori un giornalista eccezionale, forse no.

CL: Però non ti sembra di vederne adesso?

RA: No. E a te?

CL: Secondo me la gente non legge bene. Legge in fretta. Legge per pochi minuti.

RA: Ho cominciato a guardare un po’ di televisione. Ho scoperto cose che prima non conoscevo, come le serie. Ho cominciato a guardare West Wing, grazie a mio figlio, ed è molto bello. Incredibilmente bello, trovo. E ci sono un sacco di serie da guardare perché sono già finite.

CL: Le serie potrebbero finire col prendere il posto del romanzo. Ne sto scrivendo uno proprio adesso, quindi non ne leggo altri. In compenso sto guardando House of Cards.

RA: Sì, lo guardo anch’io, ed è proprio ben fatto.

Lo trovo molto interessante perché procede quasi allo stesso ritmo della vita vera, forse solo un po’ più lento. Di fatto, sono curiosa di vedere cosa succederà nella serie quel giorno tanto quanto sono curiosa di sapere cosa mi succederà quel giorno nella vita reale. Il sogno di chi ama le storie è che continuino in eterno. Ma mi chiedo quanta parte occupino nella vita delle persone. [Guardare una serie tv] non equivale a vivere la vita reale, e di certo non la vita pubblica. Cioè, quanto alla vita pubblica secondo me c’è poco da fare. Ci sono dei candidati terribili, dal mio punto di vista, e non possiamo farci niente…

CL: Così la vita pubblica la appaltiamo a West Wing e House of Cards.

RA: Be’, con House of Cards io però ho chiuso. Con House of Cards ho chiuso.

CL: Io ho appena cominciato la terza stagione.

RA: Sì, be’, io ho imbrogliato. Ho saltato delle puntate e sono andata avanti. È terribile. Quei personaggi non puoi farli diventare buoni da un giorno all’altro.

CL: Diventano brave persone?

RA: Sì! Tutto a un tratto ti confondono. Tutto diventa arbitrario. E allora penso: «Perché prima non sembrava tutto arbitrario?» Ora ci sono altri sceneggiatori. Sono tutti diversi.

CL: Come si fa a dimenticare che [Frank Underwood, il personaggio principale di House of Cards] ha fatto tutte quelle cose orribili?

RA: Esatto, e adesso di colpo è diventato una vittima. Può darsi che nella vita reale la gente sia a volte buona e a volte cattiva. Ma in generale chi è buono è buono e chi non lo è non lo è. E poi ci sono quelli che sono semplicemente ciò che sono.

CL: Questa frase sembra uscita da un tuo libro: «Certe persone sono semplicemente ciò che sono».

RA: [Risate]

CL: Si può cominciare un romanzo da una semplice frase.

RA: Sì.

 CL: Credo che Pitch Dark si possa condensare in quell’unica frase: «Ho buttato via la cosa più importante?» Mentre lo leggevo ho avuto la sensazione che andasse a parare proprio lì. E poi ho letto un’intervista in cui tiravi fuori quella frase…

RA: Ce n’erano un altro paio, tipo: «Tu sei, tu eri, la cosa più vicina a una storia vera che mi sia mai capitata nella vita». In realtà esitavo a guardare al mio passato, perché c’è una parte di Mai ci eravamo annoiati che parla di una certa situazione accademica e ho pensato: «Be’, non ci crederà nessuno, sembra del tutto assurdo». Ma quella situazione esisteva, ed era assolutamente vera, letteralmente, parola per parola.

E poi c’è un altro punto in cui, sono serissima, è successa una cosa troppo divertente. C’è un lungo monologo sull’uso dei sinonimi a seconda del contesto. In quel brano, alcune parole le ho scelte per il ritmo e altre per la cadenza. Sto studiando con attenzione la traduzione tedesca perché quelle parole non sono arbitrarie. Ho scoperto che volevano tradurre letteralmente le parole inglesi, sostituendole con i corrispettivi tedeschi.

Ma io dicevo una cosa che aveva un ritmo tipo gran figlio di puttana, e loro scrivevano una cosa che suonava tipo rondine. [Risate] Era una scelta del tutto arbitraria. Un tempo in Giappone traducevano praticamente tutto quello che usciva in America. Quindi una volta mi ha scritto il mio traduttore o traduttrice giapponese, dicendo: «Mi resta solo qualche dubbio da chiarire». E poi ho scoperto che non aveva capito assolutamente niente. Lì però mi sono detta: «Lascia perdere». Non posso stare dietro al giapponese.

CL: Non si può stare dietro a nessuno, in realtà. Credi che il tuo DNA di scrittrice sia stato in un certo senso influenzato dal fatto che la tua famiglia è stata costretta a trasferirsi per l’avvento del nazismo prima che nascessi?

RA: È buffo che tu l’abbia tirato in ballo, perché credo che il fatto di essere un rifugiato, nello specifico, influisca su un sacco di altre cose. Io non sono nata in Germania. Non ho vissuto quell’esperienza. Ma i miei sì, erano davvero dei rifugiati. E quindi mi è capitato di riflettere sulla condizione del rifugiato, in tutti i sensi.

CL: Una rifugiata prenatale.

RA: Rifugiata prenatale e a tutti gli effetti rifugiata postnatale. Ho pensato che probabilmente l’essere un bambino, un rifugiato e un antropologo hanno qualcosa in comune.

CL: Un senso di curiosità.

RA: Ma anche un totale spaesamento. Devi interpretare la situazione. Sei sempre il nuovo arrivato a scuola. Solo che allora non me ne rendevo conto. Adesso sì perché la lingua ti influenza in modo diverso, o almeno credo, forse mi sbaglio. Ne parlavo con [il regista] Mike Nichols perché anche lui era un rifugiato. Tu immagini un pubblico quando scrivi? Immagini una persona in particolare?

CL: No.

RA: Di tanto in tanto penso: «Che cosa direbbe Mike?»

CL: Quando sei bloccato dicono di far finta di scrivere una lettera a una persona ben precisa.

RA: Ah, è un buon consiglio. Un’idea fantastica. Ma io la intendevo più in termini di critica. Come uno mi dicesse: «Ho capito cosa vuoi fare. Sei sicura di volerlo fare davvero?» Ma comunque, tornando a Mike e al suo atteggiamento verso la lingua, ricordo che secondo lui la scrittura era una questione di freschezza, e chiedeva: «Perché non la annusiamo, per sentire se è fresca?» Una battuta che mi fa molto ridere.

CL: Ora salterò di palo in frasca: hai visto Selma?

RA: No.

CL: C’è un motivo per cui non l’hai visto?

RA: Sì, credo sia davvero fondamentale non travisare il ruolo di Lyndon Johnson. Voglio dire, quello che è riuscito a fare Johnson è una cosa straordinaria. È strano, l’ho capito solo dopo, ma credo che prima di allora non ci sia mai stata una collaborazione fra governo e rivoluzione, un caso in cui il governo ha voluto, ha richiesto la disobbedienza civile. Perché si verifichi questa condizione, servono casi e conseguenze particolari. In quel momento la gente si è radunata, gente di vario tipo, non solo i difensori dei diritti civili, e ha detto: «Governo, non ci stai proteggendo». E il governo ha risposto: «Non possiamo». Così la gente si è dovuta mettere in un certo tipo di guai, provocare un certo tipo di reazione e poi per varie ragioni è dovuta arrivare la risposta del governo. Ed ecco: un fatto davvero unico nella storia, e Johnson è un eroe. Martin Luther King un altro.

Ma l’espressione artistica non ammette che si dica: «Da un lato c’era Hitler. E dall’altro c’era…». Non è giusto. Non è giusto perdere di vista il punto principale di quanto accaduto. E se le cose sono andate come sono andate, è solo per la questione della legge locale e della legge federale. Ok, la legge locale dice che i neri si devono sedere in fondo agli autobus. La legge federale dice quello che dice. Ma c’è un risvolto estremamente interessante, e cioè che i giudici federali restano in carica a vita. Se sei il presidente nomini qualcuno del tuo partito, e a quei tempi il Sud era dei Democratici, i cosiddetti Dixiecrats, solo che erano candidati pessimi e corrotti. Gli unici davvero eccezionali erano i giudici repubblicani – caso più unico che raro – nominati da Eisenhower, perché nel Sud quello repubblicano era un partito di antica tradizione e chiunque fosse così pazzo da essere repubblicano aveva buone probabilità di essere eccezionale. Così bisognava continuare a presentarsi davanti a questi giudici repubblicani, e c’è la storia straordinaria di Frank Johnson (che era il giudice della corte distrettuale del Middle District dell’Alabama durante la marcia di Selma [e che ne decretò la legittimità, rovesciando la decisione del governatore democratico George Wallace, che l’aveva proibita, n.d.t.]). Il suo unico figlio si suicidò e gli abitanti della cittadina ne divelsero la lapide, così l’amministrazione gli chiese se preferisse essere trasferito altrove. È una storia pazzesca. Non ha bisogno di aggiustamenti. La verità in quel caso è di grande aiuto. Demonizzare Lyndon Johnson, certo, lo fanno tutti per la guerra in Vietnam, ma sin da giovane era un sostenitore dei diritti civili, e gli è costato.

CL: Se avessi cominciato oggi la tua carriera, saresti andata a Ferguson?

RA: Ah, domanda interessante. Probabilmente sì. Ma è una situazione molto più complicata. Voglio dire, pensare a quel movimento, a tutti quegli anni di incredibili progressi, incredibili rischi – senza alcuna violenza da parte dei neri. Nessuna. Non si sbagliavano mai su niente. Si potrebbe anche dire: «Be’, è un vero peccato, la cosa va affrontata in modo diverso, ma non dicendo che Johnson non ha contribuito alla causa». E invece non lo dice nessuno. Quindi non voglio nemmeno andare a vederlo il film. Ma ricordo che molto tempo fa qualcuno mi disse: «Devi vedere questo film sull’assassinio di John Kennedy», e io risposi: «Ah, no, no. Non mi sembra il caso». E loro: «Non puoi parlare finché non hai visto il film». E io: «Puoi dire quello che ti pare, ma il film è finzione, mentre ci sono fior fior di documenti». È un po’ una cosa stupida da dire, ma secondo me ci sta. Non voglio vedere Selma e arrabbiarmi.

CL: È diverso vedere un film su qualcosa che hai vissuto. Ma immagino che la speranza sia di veder emergere un po’ della verità emotiva di quella situazione.

RA: Sì, ma questo porta a false analogie. Voglio dire che Selma e Ferguson non hanno niente in comune, tranne il fatto che c’erano dei bianchi e dei neri, e questo lo sapevamo.

CL: Nel libro parli anche del radical middle [«centrismo radicale», n.d.t.], e credo che sia molto difficile trovare la via di mezzo in questo genere di questioni.

RA: Radical Middle è stato un errore. Radical Middle è stata una cosa ridicola. Era solo un titolo temporaneo finché non ne avessimo trovato uno definitivo. E poi è saltato fuori che Joe Fox [editor di Random House] lo stava prendendo sul serio, e così è diventato il titolo del libro, Toward a Radical Middle. Io lo chiamavo Radical Muddle [«disordine radicale»]. Gli affibbiavo un’infinità di nomi.

È una questione molto spinosa. Adesso in modo particolare perché le posizioni sono così poco chiare. Non c’è coerenza rispetto alla posizione che uno assume. In alcuni posti ci può essere diversità razziale e in altri la multirazzialità non è un valore. E questo non si può dire. Non si può dire.

CL: Nei tuoi libri, nei tuoi romanzi, mi sono sempre piaciute le frasi senza punti, piene di virgole. Quello stile ha sempre avuto un senso per me, ma certe persone non lo sopportano. Ci sono degli stili nella prosa narrativa che ti danno sui nervi? Quale credi che sia lo scopo di scrivere in questa maniera? Quale scopo ha per te?

RA: Sei una grande fan di Evelyn Waugh?

CL: Non ho letto niente di suo.

RA: Ecco la cosa strabiliante. In uno dei suoi romanzi – è così bravo, parola per parola – c’è una donna che ha una relazione con un uomo di nome John e c’è un momento in cui il loro figlioletto, John Andrew, rimane ucciso durante una battuta di caccia. Il bambino cade da cavallo e prende un calcio in testa. Non me lo ricordo di preciso, ma mentre la madre è all’estero, la avvisano che John è morto e lei, sconvolta, rimane di sasso. Quando le spiegano che a morire è stato suo figlio dice: «Oh, grazie a Dio». Waugh è stato così geniale e arguto da riuscire a farle dire una cosa del genere nel bel mezzo della frase. È un uso molto diverso del linguaggio. Prendi Hemingway, per esempio. Anche Hemingway è molto controllato, ma non è allenato alla precisione. Hemingway è stato solo attento a non uscire dai binari.

CL: Nel tuo lavoro, perché ti affidi così tanto alla libera associazione, sia nella struttura che nella sintassi?

RA: Bisogna chiedersi se ci sia un limite. Perché una volta stabilito un limite, non è il caso di uscire dai binari.

CL: In un certo senso ci sono dei binari.

RA: Lo spero.

CL: Forse in fase di editing.

RA: Sì, è un po’ come accordare uno strumento. Stringi un po’ qui, allenta un po’ là. Tu lo sai come regolarti?

CL: No, sento che ce lo chiederemo all’infinito senza trovare la risposta.

RA: Be’, è ovvio che probabilmente non c’è una risposta. È un po’ come chiedere: «Cosa ti ha spinto a scrivere questa frase così?» Perché fino a un certo punto riesci a risalire alle motivazioni, ma avresti potuto anche scriverla in un’altra maniera.

CL: Sento che se cerco di pianificare quello che sto scrivendo, sbaglio. Finisce per diventare qualcosa di totalmente diverso. Tu credi di avere un controllo più consapevole?

RA: No, sono ben lontana dall’avere il controllo. Mi è capitato abbastanza spesso che il vero nodo attorno a cui ruota la scrittura di un pezzo, la battuta finale, sia una singola frase, solo che non ci arrivo mai. Mi sfugge. Mi piacerebbe arrivarci, ma niente. Ed è un po’ come spezzare un filo.

CL: A volte bisogna abbandonare quell’impulso originario.

RA: Giusto. Se hai troppo chiaro cosa stai facendo, è un problema. A meno che non ti sia richiesto di creare una suspense narrativa: ed è su quella che si basano le serie tv, perché in fondo, che me ne importa di quella roba? Non me ne importa nulla. I personaggi non mi stanno neanche simpatici, e so che la storia non è vera, e allora perché le guardo?

 CL: Perché hanno dentro una tensione che va risolta.

RA: Esatto, e io di scrivere così non sono capace.

CL: Ma anche tu lo sai fare, in un altro senso. Nei tuoi romanzi c’è comunque una tensione legata al modo in cui il personaggio risolverà i propri interrogativi, no?

RA: Be’, nella vita c’è? Sei curiosa di sapere come andrà a finire? Al limite speri che succeda questo e non quello, però questa non è suspense. La tua vita non è un canale su cui ti sintonizzi perché vuoi sapere se hai passato un esame o se ti sposerai. Non è affatto lo stesso tipo di suspense.

CL: Perché ci alziamo dal letto la mattina? Non perché siamo curiosi di sapere come finirà la giornata.

RA: Esatto. Ci siamo alzati dal letto perché c’era bel tempo o perché abbiamo qualcosa da fare.

 

 

© Catherine Lacey, 2016. Tutti i diritti riservati.

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