Pubblichiamo oggi la prima parte di un lungo e denso saggio di César Aira dedicato a Roberto Arlt comparso sulla rivista Paradoxa nel 1993. Qui si può leggere anche la voce dedicata da Aira ad Arlt nel suo Diccionario de autores latinoamericanos.
di César Aira
traduzione di Dajana Morelli
L’espressionismo funziona grazie alla partecipazione dell’autore nella sua materia, l’intromissione dell’autore nel mondo, gesto che non può avvenire senza una certa violenza. La distinzione classica tra impressionismo ed espressionismo dice che nel primo è il mondo che va verso l’artista, sotto forma di percezioni; nel secondo, elitario, fa un passo avanti, pone se stesso dentro la materia con la quale farà la sua opera. Non che nell’impressionismo il mondo prenda l’iniziativa, né che l’artista sia più attivo; ogni artista, quale che sia la modalità adottata, forma parte di un’attività inglobante, dell’azione perpetua che è l’arte. Si tratta di due metodi, che tutto sommato si equivalgono come si equivalgono nella teoria psicologica proiezione e introiezione. Sennonché, la proiezione espressionista avviene nel campo simbolico, attraverso parole, e l’introiezione impressionista nel campo immaginario. Per questo o per un altro motivo, l’espressionismo è infelice, l’impressionismo gioioso. Mi rifaccio a una citazione di Goethe che lo chiarisce: “I tedeschi sono strani: cercando e mettendoci dappertutto idee e pensieri profondi si rendono la vita più difficile del necessario. Abbiate coraggio! Non pensate sempre che tutto sia futile se non c’è un pensiero astratto!” Qui sono raggruppati, da una parte: Impressionismo, introiezione, immaginario e gioia e dall’altra Espressionismo, proiezione, simbolico e infelicità (“la vita dura”, o meglio “la porca vita” [La vida puerca era il titolo originario del Giocattolo rabbioso; ndr]).
L’espressionista allora, torturato e pensieroso come un tedesco, fa un passo avanti, salta nel mondo, a cavallo delle parole. Lo fa senza uscire da se stesso, perché l’efficacia del metodo sta nell’avanzare in blocco, senza lasciare indietro niente. Una volta realizzato il salto, l’artista si trova nel mezzo della materia che più prudentemente avrebbe dovuto cercare di vedere a distanza, alla distanza minima necessaria per poter rappresentarla. La vede troppo vicina, senza prospettiva, la vede attorno a sé, o meglio, non la vede più, ma la tocca, in una situazione veramente prenatale, si contorce in essa…
Il mondo ha perso la sua natura cristallina, si fa gommoso, opaco, di fango. Un mondo di contatto. E si deforma per fare posto a lui, l’intruso, si allunga, si schiaccia, in anamorfosi terrificanti. Ostinato nell’inadeguatezza, l’artista si afferra nonostante tutto ai modelli visivi della rappresentazione (non ne esistono altri), e la sua opera si riempie di mostri. Trova disdicevole questa situazione (e non gli mancano motivi), trova orribile il mondo, ma comunque insiste. Gli basterebbe fare un passo indietro, recuperare la prospettiva, mettere di nuovo a fuoco… Non è assurdo cercare di vedere ciò che sta toccando l’occhio? Lo è, e l’assurdo contagia tutto e peggiora quanto era già orribile. Il passo indietro, la fuga, sarebbe così facile… Ma non lo fa. E ormai non per ostinazione nell’errore; c’è stata una trasmutazione, ha agito una chimica e ora l’inadeguatezza è metodo. Retrocedere equivarrebbe a rinunciare alla propria arte, perché sarebbe uscire dal presente ed entrare nel tempo, che è una prospettiva, una distanza. L’artista, virtuoso nella rinuncia, non rinuncia mai al suo presente. Abbandona qualsiasi cosa, ma non questo.
Non è una questione esistenziale, o affettiva, anche se lo sembra. In principio è una questione formale. All’inizio di tutta questa peripezia c’è un progetto artistico e non c’è altro. La rappresentazione quotidiana e utilitaria, che si accende e si spegne in base al nostro bisogno, è sostituita da un’altra, deliberata, coerente, continua e difficile. La difficoltà di vivere, identificata con l’infelicità, si è trasmutata nella gioia di un’arte raffinata, in un virtuosismo alchemico che rende trionfi estetici la caduta, la bruttezza, la miseria.
L’artista è proiettato nel mondo, e lo colora e lo deforma con la sua mera presenza, agendo come un reattore chimico sulle forme. E le forme sono importanti, perché costituiscono la sostanza dei segni. Senza di loro non ci sarebbe arte e il male del mondo non avrebbe cura. Cito Ponge:
“Credete che le forme (degli oggetti minori, quelle forme che li limitano e li separano, i loro contorni) non abbiano importanza? Via! Non scherziamo! Hanno la più grande importanza.
“È vero che possiamo confonderle a nostro piacimento… Eccome se possiamo. Possiamo deformarle grazie alla nostra semplice presenza, la nostra semplice inserzione nel paesaggio, la semplice inserzione della nostra temperatura (cfr. temperamento) in loro prossimità…
“È togliendoci da lì, raffreddando l’atmosfera con il nostro allontanamento, con la nostra ritirata (nella misura del possibile) che possiamo restituire ad ogni oggetto la sua coesione vitale (funzionamento). Come se la nostra presenza, la nostra vicinanza, il nostro semplice sguardo, ammorbidissero i meccanismi degli orologi in modo da non poter suonare. Sarebbe necessario toglierci da lì affinché i meccanismi si raffreddassero e il funzionamento si ristabilisse, affinché il tic-tac e i rintocchi delle campane si facessero sentire di nuovo…”
Avrete riconosciuto il principio di Heisenberg, secondo il quale l’osservatore, o l’osservazione stessa, modifica le condizioni oggettive del fatto. Non solo: dissolve la possibilità che il fatto abbia condizioni oggettive, lo rende osservazione, trasformazione, singolarità assoluta. L’arte non ha dovuto attendere la scoperta delle particelle subatomiche per vedere agire il principio di Heisenberg, perché era la condizione originale del suo funzionamento, come lo è del funzionamento del linguaggio: le parole sono nostri messaggeri nel mondo, nella natura e lì si occupano di cambiare i contorni delle cose o di dar loro un contorno. Più in generale, si potrebbe dire che il principio di Heisenberg è la condizione prima del funzionamento della coscienza; ma non dell’inimmaginabile coscienza in sé, ma della coscienza fatta linguaggio.
La letteratura è l’epica di questo disturbo. La letteratura è questa scotomizzazione, questo afflosciamento daliniano degli orologi, questo espressionismo.
In Arlt il mondo espressionista, fatto di vicinanze eccessive e deformazioni per mancanza di spazio in un ambito limitato, un interno (il suo mondo è un interno), è un’opzione formale. È inutile pensarlo in termini psicologici o socio-storici o altro. L’opzione formale crea il suo mondo, e da un mondo possono fluire tutte le spiegazioni che si vogliono.
Faccio un esempio. Uno qualsiasi, ma centrale. (La scelta di esempi è una trappola che bisognerebbe evitare). Il tradimento. Tutti i critici prestano attenzione al consenso che vede in esso l’ultima delle bassezze e danno per scontato che Arlt lo metta in scena come rappresentante di un estremo del Male.
Ma chi lo dice? Perché dobbiamo accettare che il tradimento sia così brutto? Quale imperativo vitale o morale lo esige?
La condanna suprema del tradimento diventa forte laddove vige una concezione organica della società, o di qualsiasi comunità inclusa nella società. All’interno di un organismo il tradimento è inconcepibile, imperdonabile, scandaloso; se un organo si rivolta contro gli altri, rovina il tutto e se stesso… Una volta liberi da questa concezione organica del tutto sociale, il tradimento non risulta così grave, possiamo vederlo come un’ulteriore conferma di ciò che bene e ciò che è male.
Bene, il mondo espressionista di Arlt è l’interno di un organismo, di un corpo. Non lo è: lo sembra, che in termini di rappresentazione è lo stesso. Il Mostro è un organismo. O al contrario, l’organismo è il Mostro. Dopo cercherò di fare la genesi del Mostro arltiano. Lo sguardo che non può più funzionare per mancanza di spazio annulla qualsiasi trasparenza e stabilisce una vicinanza tattile, oscena e orribile, rosso con rosso, in un ambiente di sangue dove tutto si tocca. Il Mostro è l’uomo rovesciato che ci accompagna come un doppelgänger terrificante.
Il tradimento in Arlt ha una determinazione formale. Non potrebbe essere altrimenti. Ha una determinazione formale, ma diversa, anche in Genet; è frivolo accomunare il tradimento in Arlt e in Genet solo perché entrambi sono tradimenti.
Questa favola dell’espressionismo si può guardare da più vicino. Ho detto che l’artista si proietta nel mondo e opera al suo interno… Ma succede che l’uomo è linguaggio, il suo sguardo è linguaggio, il suo modo di proiettarsi nel mondo è linguistico. L’attività simbolica è proiezione dell’uomo nel mondo, così come l’attività immaginaria è la marea del mondo che entra nell’uomo. Così come il linguaggio è lo strumento dell’artista, si identificano l’oggetto e il metodo, e nell’arte finisce per essere tutto questione di metodo. Questo oggetto messo in mezzo al mondo, fatto mondo, il linguaggio, è anche ciò che testimonia la sua posizione. Il linguaggio è la forma della coscienza; l’avvolge, la plasma, fornendo il modello di quanto si chiamava forma/contenuto, e in questo riccio diventa autocoscienza.
Prima di questo, prima che il metodo inizi a funzionare, sembra che sia successo qualcosa. È come se prima del salto, prima dell’intrusione che rende mondo il mondo, ci fosse stato un istante inconcepibile, il momento in cui l’uomo si fece artista. È qualcosa che può sembrare misterioso, ma forse non lo è così tanto… Forse si potrebbe concepire nei termini di un piccolo dramma: la coscienza, una Vergine imprudente, sente la tentazione di assistere al suo stesso lavoro… e scopre che non è così facile, che in fin dei conti è impossibile. Perché la coscienza non ha altro che se stessa da contemplare, e la parte che contempla rimarrà invisibile. Il pensiero che vuole pensarsi, la coscienza che vuole essere coscienza di se stessa, deve fare una torsione in cui perde una parte della sua visibilità. Quale parte? Non possiamo evitare il sospetto che sia la parte più importante, la più genuina. Così mutilata, con un frammento nell’ombra, la coscienza si presenta come un mostro, è il Mostro.
Un po’ oltre, la tentazione si trasforma in ambizione, l’uomo in artista professionale. (“Tentazione”, “ambizione”, sono termini più appropriati che “intenzione”. Quando ci si interroga sulle intenzioni di un artista è inevitabile perdersi in un labirinto).
La nascita dell’artista si situa in questo momento della tentazione. Lì rimane un resto oscuro, un buco, una dimenticanza. Cerchiamo di ricostruirlo, ma non riusciamo mai. Che cosa è successo? Che cosa c’era prima? C’era il mondo. C’eravamo noi. Perché la coscienza non ha potuto limitarsi a riflettere il mondo in tutta la sua immensa varietà e novità? Perché ha voluto rivolgersi verso se stessa e rivelarsi mutilata e mostruosa? L’artista cerca di rispondere a posteriori mediante una lunga deviazione, che è la sua opera, il suo stile, il suo mito personale. Le stesse culture hanno voluto spiegarlo con miti o favole, la tematica inestinguibile della “sete di conoscenza”, l’“ansia di sapere”… È come se una vita non bastasse e volessimo procurarcene un’altra attraverso una macchinazione segreta e complicata che l’artista incarna biograficamente.
Ma questa macchina potrebbe funzionare senza Mostro? La coscienza potrebbe limitarsi a riflettere il mondo, pacificamente e senza altre ambizioni? A quanto pare sì (anche se questo potrebbe essere un altro mito), può e lo fa, e questo lavoro costituisce la vita quotidiana e reale della gente. Ma la coscienza è veicolata in una vita. E la vita si arrangia, nei suoi giri, affinché non manchi il momento della tentazione.
La tentazione è quella di uscire dalla specie, diventare individuo assoluto, mostro. Poi, la tentazione si consolida in ambizione, e nel lavoro di dissimularsi e travestirsi diventa stile, mito, opera… Ma non perde del tutto il suo carattere originale di tentazione, di opzione pericolosa, e questa sfumatura persiste dando a tutta l’opera una sfumatura di casualità, di gioco dei possibili. Nella sua origine mitica ogni artista ha affrontato un dilemma, sì o no, però sotto forma di destino, come disse Kierkegaard del matrimonio: se ti sposi ti pentirai, se non ti sposi ti pentirai comunque.
Tra parentesi, e per prendere un altro esempio che non è nemmeno un esempio, diciamo che Arlt sviluppò esaustivamente questa opzione kierkegaardiana. I suoi personaggi sono già sposati o non si sposano mai. Il matrimonio in sé resta nascosto in una piega della realizzazione dei possibili. Il matrimonio in Arlt è un ready made. Anche questo proviene dalla logica del Mostro. Il bisogno sente la tentazione di aver bisogno di se stesso, e si attorciglia per farlo, lasciando fuori dalla sua portata un frammento, un buco di bisogno assoluto in seno al casuale: questo buco è il ready made.
Quando si parla di letteratura si oscilla sempre, incontrollabilmente, tra il generale e il particolare. La letteratura stessa, l’arte, obbliga a questa oscillazione in quanto opera con particolarità universalizzate dalla bellezza, rende eterno ciò che è fugace, necessario il casuale… Il pericolo sta nel prendere l’artista come un esempio particolare di qualcosa di generale. Non lo è. Ma non per questo smette di esserlo. L’artista ha un desiderio pazzo e distruttivo di generalità, ma non rinuncia alla sua irripetibile singolarità. Vuole essere l’esempio universale. Lì può intervenire una tentazione nefasta: quella di identificarsi con la Verità, con il Bene e rendersi universale in questa direzione. Di sicuro non è il caso di Arlt, che nessuno potrebbe scambiare per un benpensante. La sua strategia consiste piuttosto nel radicalizzare la logica dell’esempio fino a renderla logica del Mostro.
Il Mostro è l’individualità assoluta. La singolarità nuda, che fiorisce nello spazio-tempo. Il quantum di generalità necessario per persistere lo prende dal suo creatore, che vampirizza. Diventa mito, shifter tra il generale e il particolare. Ma il mito è mito “dello scrittore”, così che deve esserci uno scrittore reale, un uomo, che vive in una lingua e un paese e un’epoca, che lo sostenti. Per crearsi come mito lo scrittore deve morire. Finché un evento persiste nel presente, è generalizzabile; ciò fa lo scrittore finché vive. Vivo, fa parte di una scienza, di una teoria; è un esempio delle leggi generali che lo conformano; morto, diventa particolarità universale, vale a dire mito. Questo spiega, a costo di rendere davvero inefficace la spiegazione, perché Arlt sia morto a 42 anni, non a 41, né a 43. A 42 anni nasce il Mostro… Gli si potrebbe dare un altro nome, ovviamente, ma Arlt lo chiamò Mostro.
“Da dove mai saranno usciti tanti mostri?” si chiede.
Per rispondere a questa domanda bisogna tornare alla coscienza dalla quale Arlt non si allontana mai. Di certo, la sua opera definisce la parola “coscienza” in modo particolare. Qualsiasi considerazione filosofica abituale della coscienza nel suo caso non serve, perché la filosofia ragiona sulla coscienza come una meccanica, di specchi, di rimandi, di messaggi… E Arlt non ha un’immaginazione meccanica; tutte le sue macchine sono di tipo chimico. In lui la coscienza non agisce a distanza come in una meccanica, ma per vicinanza assoluta e contaminazione, come in una chimica.
È come se la sua coscienza, sulle ali del discorso, fosse emigrata verso il mondo e lì fosse protagonista di una nascita costante. Una nascita in quanto nascita, ovvero senza che nasca nulla, senza che ci sia separazione. La coscienza efficace deve rinunciare al suo lavoro ad un certo punto affinché i suoi frutti diventino reali; questo non succede mai in Arlt.
La letteratura chiamata del “flusso di coscienza” propone un’unità facendosi poi carico della pluralità del mondo. Per questo deve stabilire una fuga costante, un abbandono, e gli oggetti restano disposti in prospettiva. Al contrario, Arlt propone una coscienza stagnante, nella quale non c’è nessuna unità che possa prendere l’iniziativa di un movimento, ma piuttosto una molteplicità che si vuole amorfa, un cumulo di Mostri.
Ripeto che “coscienza” è una parola. Potrei dire ugualmente “linguaggio” o qualsiasi altra cosa. Si tratta del dispositivo che crea il mostro. È così efficace, così diabolicamente efficace, che può farlo con qualsiasi materiale. Tutte le aporie arltiane, quella della sincerità, l’ingenuità, la qualità della prosa si spiegano in questo dispositivo della coscienza che pretende di assistere al proprio spettacolo, il linguaggio che vuole parlare a se stesso, in una parola il Mostro. Questo dispositivo stesso è il Mostro.
Anche “Mostro” è una parola. È come “Dio”. Con Dio, si può trattare in due modi: si può cominciare da un sistema di idee che renda conto del mondo, del pensiero, di tutto, e uscire dal discorso attraverso qualche concetto, di cui si dice: “questo è ciò chiamiamo Dio”. (È quello che fa la filosofia e il filosofo dei filosofi, Leibnitz). Oppure si può iniziare con lui: “Un giorno Dio stava…” È quello che fanno le religioni e le mitologie. In fondo è la stessa cosa, sono solo metodi diversi; dal secondo metodo nacque quella che chiamiamo finzione.
Il romanzo di Arlt comincia: “Un giorno il Mostro stava…”
Al che segue, torrenziale, la spiegazione. D’improvviso tutto diventa spiegazione. Il discorso vuole uscirne, e non ci riesce. La spiegazione si aggroviglia per spiegarsi a se stessa e lascia senza spiegazione il suo membro attivo, e così traballa, mutilata e deforme come un paradosso infernale…
Il Mostro crea il proprio bisogno nel discorso, il bisogno di spiegarsi o esprimersi. Ecco da dove proviene il volume del romanzo. Il Mostro è loquace, è un mostro di loquacità; influenzata dalla stessa pazzia proliferante, l’espressione vuole esprimere se stessa e si rivolge verso l’interno per farlo… Lì c’è il Mostro. Lo incontriamo a ogni passo. Basta aprire la bocca. D’altra parte, l’uomo alle prese con la spiegazione è il Mostro.
Cito Paulhan:
“La stranezza della nostra condizione fa sì che sia facile trovare ragioni per gli atti singolari, difficile per gli atti comuni. Un uomo che mangia carne di mucca non sa perché mangia carne di mucca; ma se abbandona definitivamente la carne di mucca per le rape o le rane, non lo farà senza inventare mille ragioni, una più ragionevole dell’altra. Un rivoluzionario ci assilla per sei ore di seguito con esempi, argomentazioni e leggi; ma il borghese o l’operaio comune possono tacere per sei ore su ciò che li rende operaio o borghese. È come se ci fossero segreti per le azioni banali e ragioni per gli atti strani. E in realtà vediamo che le persone comuni sono misteriose e inesplicabili, come se appartenessero a una società segreta.”
L’avanzamento della spiegazione, che vediamo nel passaggio da I sette pazzi a I lanciafiamme, è asintotico. Il Mostro e la spiegazione avanzano insieme verso l’infinito. Ci sarà sempre bisogno di un supplemento di spiegazione, almeno finché ci sarà tempo. E lì è come se il tempo, anche lui, volesse assistere al proprio processo e anche lui si contorcesse per aspettarsi, o raggiungersi, e un frammento essenziale di sé rimanesse nascosto al suo sguardo: questa parte in ombra è la vita individuale, la “vita porca”. I personaggi di Arlt guadagnano un supplemento di tempo spiegandosi, letteralmente; sopravvivono nella loro essenza di Mostri e fanno del Mostro la figura umana della spiegazione.
Ma non è la spiegazione a generare il Mostro, tutt’altro. È troppo ragionevole per farlo. Il mostro nasce dal romanzesco puro, che Arlt aveva trovato nel feuilleton truculento. C’è di più: per dar luogo alla spiegazione, l’invenzione deve essere chimicamente libera da spiegazioni a priori, deve nascere da un autentico vuoto di pensiero o di discorso, e questo vuoto è il romanzesco.
Lì sta la differenza con il romanzo ideologico, il falso romanzo, ad esempio quello che realizzò Mallea, che parte dalla spiegazione, dalla Storia o la sociologia, e sfocia nel silenzio. È la differenza tra il gentleman e il Mostro.
C’è una tensione: il romanzesco non può persistere nella sua purezza d’invenzione più di un istante perché è la singolarità nuda nello spazio-tempo; la spiegazione deve occuparsene immediatamente. Il romanzesco, il Mostro in sé, è un esempio fugace di umanità, che tende alla spiegazione come ogni esempio tende a ciò di cui è esempio. Ma l’essenza non ha bisogno di incarnarsi per sentire la tentazione. Anche ciò che è umano vuole assistere all’umano e non ha altro che se stesso per effettuare la coincidenza, il che significa che una parte resterà in ombra. “Ciò che è umano un giorno incontrerà l’umano”, ha detto Gombrowicz, ed è ovvio che lo farà con la mediazione di qualche specie di mostro. Il momento non sembra essere vicino, in quanto la spiegazione non avanza mai abbastanza per rendere conto del Mostro, che corre avanti…
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