Francesca Lazzarato, nella sua rassegna di testi dedicati alla guerra delle Malvinas, elogia il racconto Primera línea, dello scrittore argentino Carlos Gardini, che vinse il primo premio nel concorso Círculo de Lectores della città di Buenos Aires nel 1982. Della giuria facevano parte Borges e Donoso. La traduzione italiana di questo racconto è stata pubblicata dalla rivista online Delos nel 1998. La ripubblichiamo come «assaggio» di un genere letterario (quello fantascientifico) che in America latina annovera parecchi scrittori interessanti ma pressoché sconosciuti da noi.
Di Carlos Gardini sono stati tradotti in Italia anche i racconti La fortezza della solitudine, sull’edizione cartacea di Carmilla (n. 1 del 1998), Finiranno le piogge, Hawksville, I pescatori d’occhi, e il romanzo breve Gli occhi di un Dio in calore, tutti pubblicati in Nova s-f, la rivista di fantascienza della Perseo libri.
L’autore, nato a Buenos Aires nel 1948, ha pubblicato diversi romanzi: Juegos malabares, El libro de la Tierra Negra, El Libro de la Tribu, Vórtice, Los nombre de la luz, Fábulas invernales, El libro de las voces, e raccolte di racconti: Primera línea, Mi cerebro animal, Sinfonía cero, Cuentos de Vendavalia, ricevendo diversi premi (Axxon e Más Allá per El Libro de la Tierra Negra, Ignotus per il racconto Timbuctú, e tre volte il premio UPC (Università Politecnica di Catalogna), secondo Brian Aldwiss il più importante premio europeo di fantascienza. All’attività di scrittore unisce quella di traduttore (fra gli altri: Charles Dickens, Henry James, John Steinbeck, James Ellroy, Cordwainer Smith, Isaac Asimov, J.G. Ballard, Ursula K. Le Guin, Dan Simmons).
La traduzione di questo racconto è di Raul Schenardi.
Prima línea
di Carlos Gardini
Il cielo è un brodo rosso solcato da filamenti bianchi. Colori sporchi vibrano nella neve sporca. Il rumore è un’iniezione nel cervello. Rannicchiato in una buca cieca, il soldato Cáceres non ha paura. Pensa che lo spettacolo valga la pena, anche se il prezzo dev’essere la paura. All’improvviso è come se gli togliessero la siringa, lasciandogli un vuoto doloroso. Un rumore si stacca dal rumore. Una manciata di terra e di neve colpisce il soldato Cáceres. Un silenzio gommoso gli tappa le orecchie.
Quando riapre gli occhi, il cielo è bianco, abbagliante, liscio. E il silenzio continua, un silenzio punteggiato da rumori sgocciolanti, friabili: passi, voci, strumenti metallici. Il suolo è morbido. Il suolo è un letto, un letto in una stanza d’ospedale. Un cannello di plastica gli arriva al braccio. Le mani gli fanno male.
Un giovane medico si avvicina guardandolo di sottecchi.
«Stai calmo» gli dice. «Guarirai.»
«Le mie mani» dice il soldato Cáceres. «Come stanno le mie mani?»
Il medico storce la bocca.
«Non ci sono» dice, sorridendo a un vaso di fiori appassiti. «Non ci sono più.»
Non era l’unica cosa che aveva perso.
I giorni all’ospedale erano lunghi, una galleria di ombre che si perdeva in un buco nero. Il buco era lontano. Immobilizzato sulla sedia a rotelle, lui non poteva raggiungerlo. La galleria era opaca come un vetro di bottiglia, e dietro il vetro c’erano delle ombre. A volte le ombre gli si avvicinavano e acquisivano un profilo confuso. I loro tratti si deformavano quando si appoggiavano al vetro, e le voci risuonavano distanti, voci avvolte nel cotone.
Oggi c’è un piatto speciale per te, gli diceva un’ombra. Pollo. Vuoi che ti metta da parte una coscia in più? E l’ombra gli strizzava l’occhio, gli accarezzava i capelli attraverso il vetro opaco. Il soldato Cáceres guardava il panno che lo copriva dalla cintura in giù. Una coscia in più, ripeteva scioccamente. Oppure l’ombra gli si avvicinava per offrirgli una sigaretta. Il soldato Cáceres alzava i monconi delle braccia, e l’ombra, pazientemente, gli metteva la sigaretta in bocca, gliela accendeva, la divideva con lui. Poco alla volta il vetro si incrinò. Alicia, gli disse un giorno un’ombra, mi chiamo Alicia. E la voce sembrava adesso di questo mondo, un mondo dove gli orologi battevano le ore e il tempo passava. Alicia gli raccontava storie di altri feriti di guerra, e di come erano guariti. O di come non erano guariti. Lui non parlava mai.
Quando cominciò a stare meglio (questo almeno gli dissero, che stava meglio), passava la giornata davanti al finestrone. Si trovava a un piano elevato, e guardando dal finestrone vedeva il movimento all’esterno. Il movimento erano camion militari che caricavano bare, elicotteri che scaricavano cadaveri e feriti nel piazzale, jeep che entravano e uscivano, gruppi di donne senza uniforme che portavano pacchetti e fiori, ma il movimento non era movimento perché gli mancava il rumore. Senza il vetro del finestrone vi sarebbe stato rumore, ma sempre e ancora vi sarebbero stati altri vetri per isolarlo dal vero rumore, l’iniezione nel cervello. Al centro del piazzale ondeggiava la bandiera. Non pendeva mai dall’asta. C’era sempre vento e ondeggiava sempre. Il soldato Cáceres guardava la bandiera e cercava nella propria memoria; cercava qualcosa che lo strappasse al sopore, qualcosa che rompesse tutti i vetri. Un giorno ricordò le parole di una canzone patriottica e la cosa gli fece piacere. Gli fece talmente piacere che quando Alicia attraversò il corridoio il soldato Cáceres si mise a ridere.
«Vedo che stai meglio» disse Alicia avvicinandosi.
«Quando morirò» disse il soldato Cáceres, diventando serio di colpo. Non si poteva dire se fosse una domanda o cosa.
Doveva continuare a vivere. Questo dicevano, doveva continuare a vivere. Quando pensava che doveva continuare a vivere si domandava qual era la parte amputata: lui, quello che rimaneva di lui, un semplice moncone, o le gambe e le mani perse? Che cosa avevano segato a che cosa? Aveva scoperto che uno era certe cose che potevano smettere di essere uno. Queste cose non c’erano più uno quando marcivano sotto la pioggia o la neve in un pantano insanguinato o fra i relitti d’ospedale. O invece erano uno? Qual era la parte mutilata? Qual era lui? Che lui fosse vivo e le altre parti morte non costituiva una differenza sufficiente. Era un mistero, e quando pensava al mistero gli veniva voglia di piangere, e quando piangeva pensava alle sue gambe, che almeno avevano la fortuna di non piangere per quello che gli mancava.
A volte ricordava le donne. Vedeva delle infermiere nel corridoio, alcune erano attraenti, e pensava alle donne. Immaginava bocche, labbra di vulve che si schiudevano, superfici umide.
Un giorno Alicia gli mise una sigaretta fra le labbra, gli accarezzò i capelli sensualmente, gli sistemò la coperta sotto la vita e per la prima volta lo guardò negli occhi.
«Come sta il mio pupo?» gli disse. «Oggi hai una faccia migliore.» Non finiva mai di sistemargli la coperta.
Lui la guardò, confuso e imbarazzato.
«Scusami» disse.
«Scusarti di che?»
«Io non posso.»
«Cosa non puoi?» domandò lei.
Di colpo aprì la bocca come chi ricorda qualcosa, lo guardò con severità, forse con fastidio. Sospirò, si voltò e se ne andò lungo il corridoio.
Il soldato Cáceres la seguì con gli occhi senza sapere se lei non aveva capito. Non sapeva che non aveva capito. Piangeva, e attraverso le lacrime vide di nuovo il vetro, che ogni volta era più spesso ma meno opaco. Gli altri adesso non erano più ombre. Avevano peso e consistenza, avevano più peso e consistenza di lui. Voleva ricordare, ma ritrovava solo brandelli di ricordi umilianti. Un ragazzino ruba un giornaletto da un’edicola, ma viene scoperto. L’edicolante non lo punisce, non lo denuncia, dice soltanto che non ti peschi un’altra volta. Quando il ragazzino torna all’edicola per comprare il quotidiano per i genitori, prova di nuovo vergogna: non sa che per l’edicolante si tratta soltanto di una marachella già dimenticata. Come purificare questi ricordi? come dargli una forma che coincida con il profilo definitivo di una personalità, un qualcosa di solido e non semplicemente ridicolo? Adesso tutti i ricordi sarebbero stati così. Lo sguardo di Alice sarebbe sempre stato un rimprovero, un che non ti peschi un’altra volta. Adesso si sarebbe sempre rivisto ridicolo, una cosa informe che rimbalzava in un mondo di gente solida. Un giorno se ne stava rannicchiato nel suo buco cieco. Aveva sempre avuto paura, e aveva parlato della paura con i suoi compagni, ma quel giorno non aveva paura, o era disposto a pagarne il prezzo, e una bomba l’aveva fatto a pezzi. Era una cosa ridicola e dolorosa, e non vi era neppure eroismo, ma solo un’assurda assenza di paura.
Guardava dal finestrone gli elicotteri che atterravano nel vento come al rallentatore, e pensava mai più, e si domandava mai più che cosa? quando gli si avvicinò un ufficiale. All’ufficiale mancava una gamba, e la sua faccia era vagamente familiare. Il soldato Cáceres ricordò di averlo visto varie volte nell’ospedale parlare con altri ricoverati.
«Come va?» domandò l’ufficiale accostando una sedia metallica dipinta di bianco e sedendosi al suo fianco. Maneggiava la stampella come un’arma, come un privilegio.
Come va che cosa, pensò il soldato Cáceres, ma non disse nulla. Sorrise vagamente, come per dire va così. Era un ufficiale addetto al reclutamento dei gruppi speciali MUTIL. Il soldato Cáceres vide la mostrina sul braccio sinistro. Notò allora che c’era la manica, ma non il braccio.
L’ufficiale gli parlò facendo delle pause. Di sicuro lui aveva sentito parlare delle unità MUTIL, anche se non le aveva viste in combattimento. Il soldato Cáceres invece le aveva viste in combattimento, ma non disse niente. Sapeva che MUTIL era una sigla, disse. Móvil Unitario Táctico Integral para Lisiados [unità mobile tattica integrata per lesionati], spiegò l’ufficiale, e glielo scrisse su un foglio. Poi gli domandò se era interessato. Il soldato Cáceres non rispose, e l’ufficiale non ripeté la domanda. Continuò a parlare. Mentre lui parlava, il soldato Cáceres pensava al rumore, e pensava anche alle donne. Pensava inoltre che l’ufficiale non gli aveva domandato il suo nome, e inspiegabilmente questo fatto lo demoralizzò.
«Accetto» disse all’improvviso.
L’ufficiale lo guardò sorpreso, interrompendosi a metà di una frase. Alla fine sorrise e si alzò. Non ebbe l’imbarazzante automatismo di volergli stringere la mano. Gli diede una pacca sulla spalla.
«Soltanto una cosa» disse bruscamente, come se se ne fosse appena ricordato. «Lei non è ebreo, vero? Come ha detto che si chiama?»
Il soldato Cáceres, sollevato, gli disse il proprio nome.
«Bene, Cáceres. Le farò avere i formulari.»
Il mese successivo entrò in un campo di addestramento MUTIL. Arrivò su un autobus militare insieme a una squadra di mutilati arruolati nell’ospedale. Tutti avevano una fascia di tela bianca sul petto, con il cognome in rosso sulla stoffa verde olivo. Il colore rosso li identificava come membri della forza speciale. I comandi dell’autobus erano adattati per storpi. L’autista era un sottufficiale con le gambe paralizzate. Rideva in continuazione e teneva la radio accesa. Alla radio trasmettevano un programma concepito apposta per il nemico. Un’annunciatrice dalla voce sdolcinata elogiava il coraggio dei soldati convinti di combattere per la loro patria, ingannati da un governo senza scrupoli. Elogiava il loro coraggio, ma diceva che non ne valeva la pena. Per loro la guerra era persa. Il sottufficiale alzava e abbassava il volume in continuazione, come se volesse fare a pezzi quella voce. Seguivano brani di musica folk, e il sottufficiale canticchiava in modo convulso. Quando arrivarono al campo di addestramento spense la radio.
«Stiamo arrivando, ragazzi» annunciò, sempre ridendo. E riaccese la radio.
Il soldato Cáceres, che viaggiava accanto al posto del guidatore, gli sorrise in modo strano.
«Prima della guerra ero autista di autobus, poi mi sono arruolato» gli disse il sottufficiale mentre frenava e apriva le doppie portiere dell’autobus. Il soldato Cáceres continuò a sorridere pensando che fosse uno scherzo. Il sottufficiale spense la radio. «Tu che facevi?» gli domandò.
Il soldato Cáceres non capì subito la domanda. La guerra era durata anni. Il prima della guerra apparteneva a un passato remoto.
«Non mi ricordo» disse. Ed era proprio così, non se lo ricordava. Qualcosa era morto dentro di lui. O forse il ricordo era nelle gambe e nelle mani che aveva perso.
Il sottufficiale accese la radio. L’annunciatrice descriveva l’abilità dei commando nemici.
«Dev’essere niente male, questa tipa» disse il sottufficiale. «Te l’immagini con una stampella nel culo?»
Quello stesso giorno gli impartirono la prima lezione. Li divisero in gruppi, e per ogni gruppo c’era un ufficiale incaricato dell’addestramento. L’ufficiale incaricato non li trattava con pietà né con rispetto né con nient’altro. Li trattava come soldati. L’ufficiale istruttore del soldato Cáceres era un capitano senza una gamba e senza una mano, e non lo nascondeva. Esibiva con orgoglio le mutilazioni e anche lui maneggiava la stampella come un’arma. Al posto della mano che gli mancava, la destra, usava un uncino retrattile con quattro dita. Si piazzava di fronte alla lavagna, appoggiandosi saldamente alla stampella cromata e prendeva il gesso con l’uncino. Tracciava linee rette, sicure, pure. Non gli tremava mai il polso.
La prima cosa che fece fu descrivere nei particolari un’unità MUTIL. Ogni unità MUTIL era fondamentalmente un minielicottero con autonomia di volo limitata, ma dotato di armi a corta gittata in gran quantità. Ogni unità di base era provvista degli accessori indispensabili a ciascun soldato. Non ce n’era una uguale all’altra, ciascuna presentava un repertorio specifico di mutilazioni. Gli accessori rimpiazzavano gambe e braccia, piedi e mani, anche e caviglie, e tramite pezzi di plastica o di metallo erano collegati ai comandi: pedali, leve o pulsanti azionavano le armi e orientavano i rotori. Per le protesi utilizzavano le tecnologie mediche più recenti, diceva il capitano, e nella sua enfasi si sentiva la povertà, i sofismi della povertà. Un’unità MUTIL costava molto di più di un soldato di fanteria, ma meno di un mezzo blindato; come arma antiuomo era molto più redditizia di una bomba ad alta potenza, e molto più a buon mercato di un aereo abbattuto. Una squadriglia di unità funzionava alla perfezione come prima linea d’attacco, ma a terra quei veicoli erano lenti, enormi e grottesche sedie a quattro ruote. I rotori erano pieghevoli, per facilitarne il trasporto. Il capitano disegnò e spiegò tutte queste cose con precisione, e dopo chiarì anche perché loro erano lì. Erano lì perché i mutilati erano un peso in tempo di pace, pensioni onerose per lo Stato, una pena per i parenti, dei morti viventi. Tuttavia avevano qualcosa in più, molto di più, degli interi. Avevano tempra. Si erano temprati come acciaio nel fuoco della battaglia. Temprati come acciaio, ripeteva, come se fosse stato lui a inventare l’espressione. Erano lì perché lui gli avrebbe fatto partorire l’eroe che avevano dentro. Non erano gli scarti, ma l’élite. Chi non la pensava così poteva chiedere l’esonero e marcire nella vita civile, una vita di pianti, pensioni e sorde recriminazioni.
Il giorno dopo a ciascuno fu consegnata la sua personale unità adattata. Sulla parte anteriore blindata c’era dipinta un’insegna, un sole militare senza raggi.
L’addestramento cominciava all’alba. Erano lontani dal fronte ma spesso, dalla pista d’asfalto dove si esercitavano, vedevano passare aerei diretti verso la zona di combattimento. Le squadriglie che rientravano erano meno numerose di quelle che partivano. Il soldato Cáceres udiva il rumore in cielo e ricordava quel cielo rumoroso, e come gli avevano tolto la siringa dal cervello. Provava rancore per il silenzio. Credeva di aver trovato una soluzione, un modo per purificare i suoi ricordi, e la chiave era il rumore.
Il capitano li faceva manovrare in formazione sulla pista d’asfalto. Bisogna distruggere il nemico senza pietà, diceva. Come lui ha distrutto noi. Ogni pezzo di metallo cromato, ogni pezzo di plastica opaca, dovevano essere un prolungamento del corpo del mutilato. Il soldato Cáceres adesso aveva delle mani, mani d’acciaio. Con quelle mani d’acciaio spingeva lentamente le ruote della sua unità, accendeva il motore, e il vento del rotore principale gli sferzava la faccia, che non era riparata né da visiera né da elmetti. Il capitano li faceva schierare ritmicamente sulla pista, ed erano come le prove di una commedia musicale stravagante.
Un balletto, diceva il capitano. Deve sembrare un balletto.
Le domeniche avevano riposo. Era il giorno della messa, del riposo e dei giochi. I preti che dicevano messa e confessavano erano interi, o sembravano interi sotto le sottane, e questo contribuiva ad accrescere la loro aura di santità, o d’irrealtà, o di stranezza. Nel campo di addestramento non c’era nemmeno un intero, e a loro un corpo senza mutilazioni incominciava a sembrare una cosa deforme. Il soldato Cáceres credeva d’intravedere un lampo di rimprovero nello sguardo dei preti, qualcosa di simile all’occhiata severa di Alicia.
I preti parlavano della pace di Cristo, ma la guerra non conosceva tregua. Le scie dei jet solcavano il cielo, e il fragore arrivava a ondate convulse anche durante la messa. Quel fragore evocava le fiammate, le urla, i fiotti di sangue, le macchine di colore rosso acceso che si fondevano con i moribondi.
La domenica era giorno di prediche. Dopo la predica della messa veniva la predica del capo del campo, che parlava di patriottismo e di vocazione al servizio. Chi non ha patriottismo né vocazione al servizio, diceva, quello è un handicappato. A metà mattina c’era la predica informale del capitano. In quel giorno si mescolava con loro come uno fra gli altri, ma quando parlava riacquistava la sua autorità, sempre pronto affinché ciascuno desse alla luce l’eroe che portava dentro. La guerra non è inumana, diceva. Gli animali non sanno fare la guerra. Non c’è nulla di più umano della guerra. Non c’è nulla, diceva con voce metallica, di più umano della guerra.
Prima di mezzogiorno giocavano a pallacanestro. Formavano squadre e usavano le unità MUTIL per giocare. Anche il gioco faceva parte dell’addestramento: dovevano addestrare il loro nuovo corpo per essere soldati. Soldati più perfetti, diceva il capitano. Qualsiasi uomo è capace di uccidere, ma soltanto loro erano veri figli della guerra. Il corpo che avevano, lo dovevano alle mitragliatrici del nemico. Abbiamo questo corpo, diceva, grazie alle mitragliatrici del nemico. E indicava il suo uncino retrattile, con orgoglio e con odio.
La domenica era giorno di scherzi. Scherzavano fra loro mentre giocavano. Ehi paralitico, si dicevano quando qualcuno non si spostava con agilità. Ehi monco, si dicevano quando qualcuno non azzeccava una mossa. Era un giorno di scherzi e di risate. Erano risate nuove, risate a denti stretti, risate storte, risate con mezza faccia congelata per sempre in un rictus di collera o di fastidio. Il soldato Cáceres aveva la faccia intatta, e i suoi muscoli facciali erano in buone condizioni, ma la sua risata si era indurita lo stesso. Non che fosse una risata contenuta, o rancorosa, eppure lui sospettava che per gli interi sarebbe presto diventata illeggibile come la smorfia di una scimmia. Una volta aveva letto che lo sbadiglio dei cani significa gratitudine verso il padrone. Non sapeva se fosse vero, ma sapeva che per lui adesso uno sbadiglio non significava sonno né noia: semplicemente, la faccia gli si contraeva in un movimento che significava qualcosa che fino ad allora non era esistito, che nasceva con loro.
La domenica era giorno di partite a carte nel pomeriggio. Erano partite un po’ diverse. I segni non sempre servivano; erano concepiti per facce intatte, dotate di plasticità, non per maschere mezzo bruciacchiate o mezzo paralizzate. Quelli a cui mancava una mano imparavano a smazzare le carte con una mano sola. Quelli che non ne avevano nemmeno una imparavano a usare gli uncini, e nessuno li aiutava. Quando si fossero trovati sotto il fuoco del nemico, nessuno li avrebbe aiutati; vibrazioni nervose che si prolungavano in vibrazioni elettriche avrebbero fatto la differenza fra la vita e la morte. Erano partite tranquille, senza risate né canti a squarciagola; i canti erano come ripetizioni meccaniche, una musica per pianola.
La domenica era giorno di cameratismo. Il cameratismo consisteva nell’imparare a diventare amico di se stessi nell’immagine degli altri. Nel momento del combattimento non vi sarebbe stata troppa coordinazione. Soltanto ordini via radio, in codice, e la volontà di distruggere e sopravvivere. Soltanto azioni individuali, ma simili. Il cameratismo era uno specchio rotto, e loro erano i frammenti.
Nelle ultime settimane cominciarono le manovre più impegnative. Molti erano stati scartati. Alcuni non erano riusciti ad abituarsi a orinare e defecare regolarmente nei tubi delle loro unità: anche se nessuno li vedeva, si sentivano nudi. Altri volevano tornare alle loro case o alle loro famiglie. Molti avevano il suicidio già dipinto in faccia. I rimanenti aspettavano solo il momento di uccidere e mutilare. Quando parlavano, se parlavano, non si domandavano mai dov’erano stati prima, come erano stati feriti. Prima non erano esistiti. Soltanto adesso stavano venendo alla luce.
Le unità MUTIL avanzavano come sciami sopra le difese nemiche. Per ogni missione era prevista una percentuale di perdite del cinquanta per cento. Vi erano inclusi non solo quelli abbattuti dal fuoco nemico, ma anche quelli distrutti accidentalmente dai compagni, quelli che si sfracellavano per mancanza di combustibile, quelli che cadevano per difetti meccanici dell’attrezzatura. Il segreto consisteva nel trovare il tragitto più breve fino al bersaglio, sfruttare le munizioni per provocare il maggior danno possibile e approfittare del momento più sicuro per l’atterraggio. Disponevano di poco combustibile, perché con meno combustibile si caricava più armamento, e inoltre si evitava che l’azione congiunta perdesse di concentrazione a causa di inopportuni eccessi d’iniziativa individuale. Le unità MUTIL aprivano delle brecce, e attraverso queste brecce penetravano, con perdite minime, la fanteria e i blindati.
«Perché il nemico non ha adottato un equivalente?» domandò una volta il soldato Cáceres.
Ci avevano provato, spiegò il capitano. Non con mutilati di guerra. Avevano impiegato unità mobili con soldati interi, ma senza successo. Erano costose, a causa del gran numero di perdite, e poco redditizie, perché non avevano mai l’impeto, il coraggio, la volontà di farcela a qualsiasi costo. Per questo, disse il capitano, occorre patriottismo. Per questo occorre patriottismo, ripeté. Inoltre, gli altri non erano figli della guerra.
Le manovre non erano la guerra, ma le assomigliavano abbastanza. Quelli che sopravvissero alle manovre furono congedati dal capitano una mattina di pioggia, con una modesta cerimonia in cui ricevettero le felicitazioni del capo del campo di addestramento e la benedizione di un cappellano che non li guardava negli occhi. Sulla blindatura delle unità, vicino al sole senza raggi, venne dipinta una scritta in rosso: LA VERGINE CI PROTEGGE.
Quando si aprirono i portelloni dell’aereo da trasporto, il soldato Cáceres vide la neve e dei punti neri nella neve. L’aereo aveva appena compiuto un giro tracciando un arco, e adesso la sua coda era rivolta verso le linee nemiche. Globi di fumo nero esplodevano in aria. Le unità MUTIL si avvicinarono lentamente ai portelloni. Sarebbero scesi con il paracadute e a metà caduta avrebbero messo in funzione i rotori.
Il soldato Cáceres cadde vorticando nell’aria, aprì il paracadute quando fu in posizione orizzontale, sentì il brusco strappo delle corde, vide che alcuni s’imbrogliavano nelle corde e si sfracellavano. Intorno a lui si moltiplicavano le esplosioni. Un vento freddo gli sferzava la faccia, mescolato con raffiche d’aria calda. Smise di guardarsi intorno, perché il segreto consisteva nel guardare avanti. Non si precipitò a manovrare per evitare i proiettili nemici, sapendo che il combustibile non gli concedeva il lusso di scommettere più sulla paura che sulla fortuna. Aspettò, e quando fu vicino al terreno tirò fuori i rotori, li avviò e liberò l’intelaiatura metallica a cui era agganciato il paracadute. Avanzò quasi rasoterra, in linea retta. Più avanti la neve era solcata da cicatrici. Le cicatrici erano trincee, e oltre le trincee c’era una costruzione che sembrava un deposito di materiale o una baracca. Premette pulsanti e leve con movimenti frenetici di tutto il corpo, riservando gli esplosivi più potenti per il momento decisivo. Via via che si avvicinava alle posizioni, la cortina di fuoco diventava più densa. Le vene gli pulsavano come per un eccesso di sangue, in un corpo al quale ormai non ne occorreva tanto. Quando si trovò a breve distanza scaricò i proiettili esplosivi. Vide passare al suo fianco le scie dei proiettili dei compagni di squadriglia. Un attimo prima c’erano tende da campo, mezzi blindati e reti di camuffamento, quello seguente fiammate e corpi che vibravano nell’aria come cavi sfilacciati nella tempesta.
Atterrò nella neve fangosa e aspettò. A pochi metri da lui atterrarono altri compagni. Alcuni erano in fiamme. Dietro di loro le prime truppe d’assalto scendevano dagli elicotteri e finivano di ripulire il terreno. Tutto attorno la neve sporca era macchiata da chiazze di sangue. Era come se la terra avesse il mestruo e si rinnovasse. Sentiva di nuovo l’iniezione nel cervello. Il rumore gli trivellava i timpani come se la sua testa fosse stata una cassa di risonanza. Una voce latrava ordini via radio nell’elmetto. In lontananza, sull’orizzonte fumoso, elicotteri in fiamme cadevano dal cielo.
Come una pioggia di manna, pensò il soldato Cáceres.
Un’ora dopo gli elicotteri scaricarono il personale ausiliario. Erano tecnici accigliati ed efficienti, che lavoravano con la rapidità dei meccanici sulle piste da corsa. Sostituivano la tanica di combustibile di ciascuna unità intatta con una piena, aggiustavano i pezzi poco saldi, scartavano quelli inutilizzabili, rinnovavano le munizioni, davano l’autorizzazione e verificavano le unità abbattute in cerca di materiale recuperabile. Poi le unità MUTIL s’innalzavano un’altra volta dal territorio reso sicuro. Avanzavano un centinaio di metri, aprivano nuovi varchi nelle difese, disturbavano la ritirata del nemico o effettuavano ricognizioni nella zona. L’unica maniera per fermarle era distruggerle; non retrocedevano mai, né si fermavano nella terra di nessuno, dove sarebbero state troppo vulnerabili. Se il pilota moriva, quasi sempre continuava a sparare e spesso si sfracellava sulle linee difensive. Presto ciascuna fase della battaglia divenne routine per il soldato Cáceres. Decollo, volo in linea retta, scarico del materiale, pausa d’attesa. Solo in quest’ultima fase si concedeva il lusso di osservare la battaglia, immobile come un fossile in mezzo al fuoco dei due schieramenti. E intanto ricordava, altroché se ricordava. Alicia. Donne. Ma le tenere carezze, l’umidità salata, le labbra dischiuse non si potevano più paragonare al sangue, all’olio e al fumo. Una sensazione nuova gli formicolava negli uncini d’acciaio, nelle gambe cromate. Poco alla volta si stava purificando. In fin dei conti, il prezzo dello spettacolo era valso la pena.
Il tempo ormai non si misurava in settimane o mesi, ma in squarci e convulsioni, un tempo di terra in fiamme. Forze gigantesche facevano a pezzi la terra, e il soldato Cáceres era un Cáceres fra tanti. Erano tutti fratelli, frammenti di uno specchio rotto.
E all’improvviso si fece silenzio.
Era un silenzio immenso che si stendeva sulla terra calcinata, sulla neve annerita dal fango e dal sangue. Il soldato Cáceres amava quei silenzi che punteggiavano i momenti di gloria. Cessavano le esplosioni dell’artiglieria, il rumore delle pale degli elicotteri, il ruggito dei jet, lo scricchiolio dei blindati. Era come il silenzio che segue la creazione di un mondo, una pace domenicale. Molto tempo fa, pensava Cáceres, la terra ha vomitato le proprie viscere e si è insozzata con i propri escrementi. Poi è rimasta prosciugata, e le viscere si sono trasformate in cose luccicanti e cristalline, e in alcune venature della sua corteccia la terra conservava questi ricordi, strati geologici di pace seguiti da nuovi strappi di violenza. Se si studiava questa corteccia, si sarebbe scoperto che la terra era orgogliosa delle proprie mutilazioni.
In questi silenzi, il cielo era una membrana tesa, e tutti aspettavano.
I prigionieri aspettavano. Dietro il filo spinato, le facce alterate dal freddo, dal ricordo del freddo, aspettavano un trasferimento, un piatto di minestra, una sigaretta. I combattenti aspettavano. Pulivano le armi, passeggiavano nervosamente, chiacchieravano. I feriti aspettavano. I morti aspettavano. La terra aspettava.
Anche loro aspettavano, ma la loro attesa era diversa. Le unità MUTIL si muovevano in modo grottesco sulla neve soffice, come grossi coleotteri, e l’attesa era una domenica. Nessuno li avvicinava, nessuno parlava con loro. Ricevevano solo sguardi nei quali il rispetto si mescolava con l’odio. Glielo si leggeva in faccia? Nella loro retina rimanevano forse impresse le grandi visioni, la terra concimata dai morti, gli elicotteri in fiamme che piovevano dal cielo come manna?
Questa volta tuttavia il silenzio si prolungò. Era come un sipario.
Come un balletto, ricordò il soldato Cáceres.
Gli elicotteri arrivarono di notte, spazzando la neve con fasci di luce bianca che presto diventavano cerchi rosati, poi una luce sporca e polverosa sotto una massa scura che eclissava le stelle. Ne discesero diversi membri del personale ausiliario, con movimenti rapidi e degli elenchi in mano. Cominciarono a chiamarli per nome. Era strano, perché un soldato MUTIL non lo chiamavano mai per nome, non lo chiamavano mai: gli dettavano ordini via radio, ma gli ordini erano voci registrate, e più che ordini erano esortazioni ritmiche, musica per balletti. Oltre che strano era poco pratico, perché la maggioranza degli elencati non era presente.
I membri del personale ausiliario li fecero riunire di fronte agli elicotteri. Piegarono i loro rotori e li fecero salire uno alla volta. Poi gli elicotteri si alzarono nella notte e volarono verso le retroguardie. All’interno della carlinga tutti tacevano e c’era odore di paura.
Gli elicotteri da trasporto atterrarono in una base illuminata da riflettori. Arrivavano, scaricavano e decollavano subito per tornare al fronte. Nella base si stavano concentrando unità MUTIL di diverse squadriglie. Le facevano aspettare sulla pista, in mezzo al rumore e al vento, e poi le conducevano a un enorme capannone circondato da bidoni in cui bruciava della nafta.
L’interno del capannone era illuminato da lampade nude che diffondevano un chiarore giallastro e sporco. Sul fondo c’era una pedana con un microfono. Aspettarono un paio d’ore, mentre il capannone si riempiva di combattenti. Fuori, il rumore delle pale degli elicotteri da trasporto era incessante. Diversi PM passeggiavano negli spazi vuoti giocherellando con i loro manganelli bianchi. Non c’era nemmeno un ufficiale MUTIL.
Finalmente entrò un colonnello con l’uniforme da combattimento e l’elmetto. Era un intero e la sua faccia era rossa, inquieta, come se lo attendessero impegni più urgenti. Montò sulla pedana e sistemò il microfono.
La patria vi è riconoscente, disse, e il soldato Cáceres sentì una fitta nel ventre. Presto otterremo una pace giusta, e la patria vi è immensamente riconoscente. Una pace giusta, pensò il soldato Cáceres senza capire. Attraverso gli occhi offuscati vedeva ancora gli elicotteri in fiamme che piovevano dal cielo come manna. Le generazioni future, disse il colonnello, conosceranno le gesta di uomini come voi, e incideranno i vostri nomi nel libro della grande storia del nostro popolo.
Mentre il colonnello parlava, il personale ausiliario era entrato spingendo sedie a rotelle. Alcuni incominciarono a separare i corpi dei combattenti dai loro pezzi cromati. Lavoravano speditamente, come quando si trovavano nella zona di combattimento. Li separavano dalle unità mobili, li installavano sulle sedie, gli strappavano la striscia bianca con il cognome in rosso. Altri smantellavano le unità MUTIL liberate, ammucchiando i pezzi in casse d’imballaggio: armi, protesi, elmetti. Altri membri del personale tendevano dei cavi lungo il perimetro del capannone e inserivano pacchetti che sembravano esplosivi negli angoli e fra le travi.
Non solo avete inflitto al nemico perdite materiali, disse il colonnello. Non solo gli avete inflitto perdite materiali, ripeté, come se non ricordasse che cosa doveva dire dopo. Gli avete dato una lezione morale, aggiunse risolutamente, una lezione di virilità e di coraggio. Proprio per questo vorranno accanirsi contro di voi, usando queste unità che ci riempiono d’orgoglio come uno strumento di propaganda, come un’accusa. Vorranno trasformare la vostra gloria in ignominia, ma non lo permetteremo, perché voi gli darete una lezione di amore per la pace. La giusta pace che abbiamo patteggiato ha bisogno di questa lezione d’amore.
Le parole rimbombavano seccamente nel capannone ingiallito dalle lampade. Quando venne il suo turno il soldato Cáceres fu separato dalla sua unità e sistemato sulla sua sedia a rotelle. Gli pulsava ogni cicatrice del corpo.
Il discorso terminò con un’esortazione che suonava come un rimprovero. Quando li portarono fuori dal capannone, avevano tutti la faccia alterata, facce di mutilati due volte. Senza cerimonie, quasi in segreto, il personale ausiliario li spinse verso un’altra pista dove c’erano degli aerei da trasporto in attesa. Sui loro scuri pancioni volteggiavano mulinelli di neve polverosa, e nei mulinelli s’intrecciavano ordini e grida. Una sedia dopo l’altra li fecero salire sugli aerei.
Le turboeliche incominciarono a girare e il ruggito dell’aereo zittì il ruggito del vento nella mente del soldato Cáceres. Mentre l’aereo da trasporto caracollava sulla pista, guardò il capannone che tremava alla luce dei bidoni di nafta. Gli uomini del personale ausiliario continuavano a srotolare cavi.
«Che ci fanno con le unità MUTIL?» domandò il soldato Cáceres a un sottufficiale.
Il sottufficiale sorrise.
«Non sono mai esistite unità MUTIL. Adesso, ragazzi, torniamo a casa.»
L’aereo decollò e virò tracciando un arco sulla pista. Di sotto un’ombra fece dei segnali a un’altra, e mentre loro salivano una serie di esplosioni distrusse il capannone. Le fiammate strappavano scintille alla neve volteggiante.
Nella cabina in penombra il soldato Cáceres guardò i suoi compagni: un Cáceres dopo l’altro, immagini di uno specchio rotto. Pregavano, preparandosi ad affrontare la pace.
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