Il fattore Borges di Alan Pauls è in libreria: pubblichiamo oggi un intervento di Christopher Domínguez Michael, che racconta perché si tratta di un testo fondamentale per un approccio contemporaneo all’opera del padre della letteratura argentina. Il pezzo è uscito su Letras Libres, che ringraziamo.
di Christopher Domínguez Michael
traduzione di Dajana Morelli
Forse nessuna opera della letteratura moderna si è prestata, come quella di Borges, allo sperpero teorico, alla manipolazione delle più svariate retoriche, all’uso e abuso del commento, dell’esegesi, dell’imitazione, dell’esagerazione. Va da sé che, sebbene involontariamente, Borges è il principale responsabile di questo fenomeno, avendo organizzato tutta la sua opera come una mappa immaginaria della letteratura esibita per sostituire la letteratura stessa. E se l’enciclopedia è il modello per eccellenza del libro borgesiano, come dice Alan Pauls nel Fattore Borges, è una conseguenza ovvia, quasi un disastro naturale, che la critica di Borges si sia trasformata nella superficie oceanica che attualmente rappresenta.
Lo scrittore e critico Alan Pauls (Buenos Aires, 1959) ha deciso di iniziare dal principio e di trovare il bandolo della matassa. Nelle centosettanta pagine scarse del Fattore Borges, Pauls, a forza di disconoscere la trascendente solennità che di solito circonda Borges, ci offre attraenti istruzioni per l’uso. E non bisogna credere che Pauls parta da una qualche novità radicale o da una luminosa rivelazione teorica. A Pauls è bastato sviluppare in modo brillante l’ipotesi proposta da Piglia in Critica y ficción.
Intervistato nel 1986, Piglia dello stile divulgativo di Borges diceva:
Borges in realtà è un lettore di manuali e di testi divulgativi e di queste letture fa un uso piuttosto eccentrico. Infatti, lui stesso ha scritto vari manuali divulgativi, della serie L’induismo, oggi, ha praticato questo genere e lo ha usato in tutta la sua opera. In tutto ciò vedo molti punti di contatto con Roberto Arlt, anche lui lettore di manuali scientifici, libri di sessuologia, compendi di storia della filosofia, edizioni popolari e abbreviate di Nietzsche, libri di astrologia. Entrambi impiegano in modo notevole questo sapere che circola attraverso strani canali. In Borges come biblioteca concentrata dell’erudizione culturale alla portata di tutti, l’Enciclopedia Britannica…
Pauls non solo segue questa rotta ma utilizza come bussola, mi sembra, l’epigrafe di Witold Gombrowicz usata dallo stesso Piglia in Critica y ficción: «Non bisogna parlare poeticamente della poesia».
Pauls è riuscito a non parlare borgesianamente di Borges, il che costituisce un merito non facile da conquistare, ottenuto in gran parte grazie alla composizione editoriale del Fattore Borges. Ci troviamo di fronte a un libro stupendo in cui le note a piè di pagina si trasformano in una seconda possibilità di lettura, nomi propri e concetti che analizzano Borges nel suo laboratorio.
Il fattore Borges è un saggio che mi ricorda Kafka. Per una letteratura minore (1975), di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Oserei persino affermare che il libro di Pauls sarà, nel bene o nel male, tanto influente nell’apprezzamento futuro di Borges come lo è stato quello di Deleuze e Guattari per Kafka. Ma il paragone è alquanto scomodo e prima devo dare alcune spiegazioni. Non mi piace (né mi interessa molto) la fraseologia parascientifica e probabilmente ciarlatana di Deleuze e Guattari, e credo che Pauls non la condivida nemmeno lontanamente. Laddove i filosofi francesi hanno messo della teoretica, Pauls presuppone il buonsenso dei lettori e assume la cortesia intellettuale come forma di espressione. Pochi libri al pari di quello di Pauls ricalcano – nel caso fosse ancora necessario – come il demone della teoria sia stato esorcizzato, e si possa tornare a fare una buona critica letteraria al di là – e ormai nemmeno contro – delle vecchie scuole.
Eppure, nonostante tutte le esagerazioni e le iperboli (alcune causate unicamente da cattive traduzioni di Kafka), bisogna ammettere che quel libretto ha modificato qualche aspetto, non trascurabile, della percezione kafkiana. Da una parte, Deleuze e Guattari offrivano un Kafka iperpoliticizzato, come richiedevano gli anni Settanta del Novecento, una sorta di profeta antiburocratico e anticapitalista che oggi si converte in un’immagine piuttosto ridicola, soprattutto per noi che abbiamo abboccato all’amo. Ma quel duo ci ha anche offerto un Kafka in chiave ironica e quasi burlesca, più vicino alla commedia che alla tragedia, più affine al teatro yiddish che al melodramma esistenzialista. L’attuale bibliografia su Kafka deve molto a questo colpo di timone.
Attraverso procedimenti diametralmente opposti, Pauls percorre con Borges questo cammino di demistificazione che si trova nella posterità dei classici. Sembrerebbe che, nel momento in cui abbandoniamo la lettura letterale delle grandi opere, quando dubitiamo degli accenti con cui tutte le personalità artistiche si vanagloriano nel mondo, giunge il momento della verità critica. Nel Fattore Borges, Pauls vota per un Borges (già presentito da altri lettori e dai suoi primi avversari) che ama scherzare e che non va preso sul serio, perché si trova sulla linea di discendenza di Bouvard e Pécuchet come creatore di personaggi grotteschi e inconcepibili, «sospesi tra la gloria e il ridicolo, la disabilità e il prodigio, la grandezza e l’insensatezza». Sono, ci ricorda Pauls, Herbert Quain, Runenberg, Funes, «lo Zaratustra selvaggio» e un lungo eccetera la cui conclusione sarebbe che Pierre Menard appartiene al mondo di Ramón Gómez de la Serna prima che a quello di Gérard Genette…
Come scrittore, Borges sarebbe della stirpe di Raymond Roussel, di Robert Walser, di Gombrowicz, di J. Rodolfo Wilcock, un Borges senza genio. Borges non apparterrebbe a nessuna scuola di scrittori filosofi, e se lo includiamo tra questi è per via di un particolare e memorabile inganno. Dice Pauls:
«Sono un uomo semicolto», ironizza Borges ogni volta che qualcuno, stregato dalle citazioni, dai nomi propri e dalle bibliografie straniere, lo mette sul piedistallo dell’autorità e della conoscenza. C’è un che di affettazione aristocratica, in questa sua frase, ma anche di autocompiacimento, come se celasse la soddisfazione del truffatore nel constatare l’efficacia della sua frode. E la frode consiste, per l’appunto, nella prodigiosa illusione di conoscenza che Borges riesce a creare manipolando una cultura che sostanzialmente gli è estranea. Una cultura venuta dall’enciclopedia (per quanto dall’illustre Enciclopedia Britannica), vale a dire una cultura riassunta ed elaborata, una cultura della sintesi, della citazione e del risparmio, una cultura del- la parte (la voce enciclopedica) per il tutto (l’enorme volume di informazioni che nella voce è condensata). In più di un senso, per quanto possano suonare sofisticate in bocca a lui le lingue e gli autori e le idee straniere, Borges – la cultura di Borges – si muove sempre a suo agio entro i limiti di una concezione da Reader’s Digest del sapere. Borges non manca mai di ricordare, ogni volta che rievoca le sue prime letture, le gioie ricavate dall’undicesima edizione dell’Enciclopedia Britannica. Certo le prose di Macaulay o di de Quincey – due degli illustri contributors che fecero di quell’edizione un’opera unica, un evento storico – ebbero parte importante nello stupore d’infanzia di Borges. Ma se l’Enciclopedia Britannica è il modello dell’erudizione borgesiana, ciò avviene perché quello che Borges impara una volta per tutte dalle sue pagine non è l’eleganza di una scrittura nobile, quanto i segreti per operare su una doppia frequenza simultanea: lo «stile» e la riproduzione, la letteratura alta e il progetto divulgativo, volgarizzatore, che anima ogni enciclopedia…
Pauls giunge a questa conclusione quando apre la lettera rubata che Borges lascia sul tavolo in qualità di autore di «Rivendicazione di Bouvard e Pécuchet», testo incluso arbitrariamente in Discussione. Ci sono, e come dubitarlo, altri Borges possibili, ma la convinzione di Pauls si nutre, a sua volta, di un’immagine (o meglio di un suono) trasmessa da Silvina Ocampo, la quale raccontava che quando Bioy Casares e Borges si rinchiudevano a scrivere «quella splendida enciclopedia di idioti che sono le Cronache di Bustos Domecq», ciò che si sentiva dall’altra parte della porta erano le risate fragorose dell’uno e dell’altro.
Questo Borges quasi grottesco, questo Borges che ride fragorosamente, autore di un’enciclopedia più patafisica che metafisica e divulgatore di un’enciclopedia popolare che introduce a certe filosofie e a non poche materie esoteriche, è il genio impostore che Pauls registra, un mago frequentemente ammirato per ragioni sbagliate. Dopo aver criticato negativamente la recente biografia di Borges di Edwin Williamson, Rodrigo Fresán si lamentava dell’inesistenza di una Encyclopaedia Borgesiana. Mi sembra che Alan Pauls, con Il fattore Borges, proponga le linee guida di questo libro-biblioteca la cui decifrazione toccherà ai lettori del futuro.
© Christopher Domínguez Michael, 2005. Tutti i diritti riservati.
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