«2666», il romanzo postumo di Bolaño, è incentrato, com’è noto, sull’atroce sequenza di delitti ormai noti come il femminicidio di Ciudad Juárez, città messicana al confine con gli Stati Uniti dove da oltre un decennio si consuma una strage di giovani donne, perlopiù operaie in fabbriche di assemblaggio. Pubblichiamo un saggio sul tema di Loris Tassi, dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, ringraziando l’autore.
di Loris Tassi
«Credo che sia una città grande».
«È grande, sì,» disse il Porco
«ci sono fabbriche, e anche problemi. Non credo che sia un bel posto».
Roberto Bolaño, 2666.
1. Consul verba contra hostem eduxit…
«Ciudad Juárez è il luogo più immorale, degenerato e perverso che mi sia capitato di visitare nel corso dei miei viaggi. Tutti i giorni ci sono omicidi e violenze, si consumano e si vendono droga e sesso. Ciudad Juárez è La Mecca dei criminali e dei pervertiti delle due sponde della frontiera». Questa la descrizione del console americano John W. Dye, nel lontano 1921.
Nella Bibbia si dice che il primo costruttore di città fu il fratricida Caino. Sebbene ci sia molto da riflettere sul fatto che in origine civiltà e barbarie non siano antitetiche ma costituiscano invece «nodo o groviglio o gnommero» – dopo tutto, «la città non è altro che il deserto travestito» (Thomas Pynchon, V.)–, tempus fugit. Ci conviene pertanto abbandonare il libro «dalle 50.000 varianti testuali», come dice Arno Schmidt, restringere il campo e focalizzare la nostra attenzione sulla città capace di suscitare l’ira di Dye. Ciudad Juárez si trova nel nord del Messico, nello stato di Chihuahua, al confine con El Paso, Texas. Negli stessi anni in cui il console la condanna senza appello in quanto «d’ogni vizio fetida sentina», il proibizionismo in vigore negli Stati Uniti costringe (meglio: invoglia) il crimine organizzato a infiltrarsi nel territorio messicano (cfr. Sergio González Rodríguez, Ossa nel deserto). Nel giro di pochi anni la Poisonville messicana comincia a espandersi e durante la seconda guerra mondiale, assieme al mito della scintillante e peccaminosa Acapulco, si diffonde quello dell’oscura e altrettanto peccaminosa Ciudad Juárez, «un organismo che pratica apertamente l’assassinio, l’oppressione e la rapina», direbbe il piccolo imperatore di Dürrenmatt.
Scrivono i giornalisti francesi Fernandez e Rampal in La città che uccide le donne: «Nel 1965 il governo messicano dà avvio al Programma industriale della frontiera […] che prevede grossi sgravi fiscali per le imprese straniere, statunitensi in un primo tempo, asiatiche ed europee oggi. Tutti i grandi marchi automobilistici, di elettrodomestici e di elettronica sono stati attirati dalla prospettiva di una manodopera a basso costo […] e da una regolamentazione sociale più morbida: un sindacato quasi inesistente e un diritto del lavoro ridotto allo stretto necessario. […] Dall’avvio del programma, la quasi totalità dei posti di lavoro è stata occupata da donne, i quadri sono rimasti invece essenzialmente maschili». A partire dagli anni ottanta, moltissimi uomini e donne messicani si trasferiscono a Ciudad Juárez con la speranza di trovare lavoro in una maquilao con il sogno di oltrepassare il confine. Nel 2008 più di 300 “indocumentados” (parola che ricorda le non persone di 1984 di Orwell) sono morti nel tentativo di attraversare la frontiera; negli ultimi dieci anni, se prendiamo in considerazione la linea che va da Tijuana a Reynosa, il numero oltrepassa 10.000. Non tutti, ovviamente, sono morti per mano della polizia di confine.«Cadono nel deserto a causa della fame o della sete, annegano nel Río Bravo, muoiono asfissiati nei camion che li trasportano o sono aggrediti da cittadini statunitensi». E sono i più fortunati, verrebbe da aggiungere, dal momento che a chi oltrepassa il confine il destino, «ovvero l’inevitabile conseguenza di un’organizzazione sociale» (dal film Le forze del male, del 1948, di Abraham Polonsky), riserva la schiavitù o una vita criminale.
Naturalmente il traffico non riguarda solo gli esseri umani, ma anche le armi e, soprattutto, la droga. I trafficanti juarensi, infatti, «profittando dello smantellamento dei cartelli colombiani, da semplici corrieri si sono convertiti in produttori» (La città che uccide le donne). Del resto, il boom economico che ha permesso a “Ciudad de negocios” di diventare la quarta città del Messico non è senza legami con il narcotraffico: «La crescita del narcotraffico, del crimine organizzato e dell’economia informale che li sostiene si era basata su una strategia ad ampio raggio che coinvolgeva nelle proprie attività lo Stato messicano. E tale coinvolgimento era stato reso possibile dalle istituzioni giudiziarie e dai corpi militari, nonché dalle polizie federali e statali» (Ossa nel deserto).
2. Quoi? L’économie…
Come affermano Fernandez e Rampal, le fabbriche juarensi sono fortemente soggette «all’andamento del mercato mondiale: se infatti scoppia una crisi negli Stati Uniti o in Europa, le maquiladoras licenziano, ma se l’attività riprende, allora spuntano piccole locandine affisse ai tralicci o enormi striscioni che offrono posti di lavoro da ricoprire “con massima urgenza”». Favorite dai trattati di libero commercio e dall’organizzazione mondiale del commercio (il famigerato WTO), le oltre 400 fabbriche di assemblaggio rappresentano il primo datore di lavoro di Ciudad Juárez e, come vedremo, il principale fornitore di corpi da massacrare.
Sul finire del XIX secolo Nietzsche scriveva che il futuro avrebbe visto il trionfo dell’economia, con l’appoggio della scienza, su tutto e su tutti. Ciudad Juárez ne è la dimostrazione. Il suo motto potrebbe essere: prima gli impianti e poi gli abitanti. Non si pagano tasse né dazi, reminiscenze obsolete di una concezione umanistica dell’economia che infiniti lutti, sotto forma di ritardi, addusse alla produzione. Del resto ovunque i diritti dell’uomo sono stati sostituiti dai diritti del consumatore.
Ciudad Juárez è il paradiso della new economy, gloria e vanto dell’umana specie, capace, con i gas tossici prodotti dalle fabbriche, di consolare il deserto e gli interessi degli investitori. A volte le autorità sono costrette a chiudere alcuni degli stabilimenti più inquinanti. Per qualche mese. Poi le fabbriche riaprono con un altro nome e continuano a lavorare come se nulla fosse successo. La condizione degli operai riporta alla mente classici come Metropolis o Tempi moderni. Homines sunt. Immo servi. Per quanto riguarda il loro salario, piuttosto che rifarmi a dati statistici fluttuanti (verso il basso) citerò Finale di partita di Beckett: «Ti darò da mangiare quel tanto che basta per impedirti di morire».
Nel frattempo, «l’industria maquiladora sta maquilando l’intera città» e ne ridisegna «la struttura, coinvolgendo tutti i gruppi cittadini in quel settore e generando dinamiche di segregazione socioculturale» (Da Maquilas, documentario di I. Sandri e G.M. Gaudino). Non solo la presenza della fabbrica ha determinato la crescita (meglio: l’espansione) della città, ma ha anche trasformato in modo radicale il paesaggio. Il Río Bravo, immortalato in tanti film western, è diventato un fiumiciattolo di cemento e rifiuti; modificato da montagne di fluorite o da altre sostanze inquinanti, il deserto ormai appartiene «alle grandi dinastie che controllano interi settori dell’economia di Ciudad Juárez» (La città che uccide le donne). Se vogliono riflettere in grazia di Dio sulla vanitas vanitatum che affligge questa valle di lacrime, gli stiliti del XXI secolo dovranno avere alle spalle solidi sponsor.
Una volta la ricchezza (l’oro, il carbone, il petrolio) si estraeva dal suolo; adesso tutto ciò che non produce, e quindi non ha alcun valore, viene sepolto. A Ciudad Juárez quando una cosa (termine usato non a caso) smette di essere produttiva (o può essere facilmente sostituita) viene sepolta nel deserto o buttata nel Río Bravo. Che si tratti di rifiuti tossici o di cadaveri di donne, non ha molta importanza. «L’uomo è in fondo una macchina. Quando sfugge al controllo o la si ripara o la si distrugge» (Valerio Evangelisti, Black flag).
«Il morto non è un morto: è la morte», così in un verso di Borges. «Come parli, frate?» «Un cadavere è una cosa e con le cose possiamo fare tutto quello che vogliamo», dice il criminale di un vecchio e sempre attuale film di Oshima.
Per tornare al Finale di partita beckettiano, «Bisogna vivere secondo la propria epoca». E nella nostra epoca, come nota Saviano, «La merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere». E poi la produzione non deve subire rallentamenti, bisogna essere sempre competitivi, ridurre i costi, proteggere le ditte in espansione e così via.
«Forse dietro la moneta è Dio», scrive Borges in “Lo Zahir”.
3. “La economía tiene la realidad atroz de una pesadilla”
Nel terzo capitolo di El laberinto de la soledad, Octavio Paz riflette sull’ipocrisia europea e statunitense. Le leggi e la morale in Europa e negli Stati Uniti dichiarano pomposamente di proteggere la vita umana, ma nulla possono contro la comparsa, sempre più frequente, di diabolici e raffinati assassini seriali, capaci di pianificare omicidi con una precisione impensabile per i messicani. Per quanto riguarda l’ipocrisia (o schizofrenia) di Europa e Stati Uniti, ciò che dice Paz continua a essere ancora oggi attuale. Ma quanto è accaduto, e sta accadendo, a Ciudad Juarez è la dimostrazione che nel progettare crimini gli assassini messicani hanno ben poco da invidiare ai loro colleghi statunitensi ed europei. Ossa nel deserto ricostruisce la storia degli omicidi di Ciudad Juárez. I primi cadaveri cominciano a essere rinvenuti nel 1993. Si tratta di giovani donne, in gran parte lavoratrici delle fabbriche o comunque appartenenti alle classi sociali più marginali. Nel giro di un paio di anni vengono uccise, in molti casi dopo aver subito torture e violenze sessuali, più di ottanta donne. Scrive Victor Ronquillo in L’inferno di Ciudad Juárez: «I funzionari, procuratori, viceprocuratori e persino i pubblici ministeri speciali nominati per risolvere il caso, si sono prodigati fin dall’inizio per negarne le dimensioni». Vengono diffuse in pratica «versioni dei fatti edulcorate». La polizia messicana, con il suo comportamento, non fa che «uccidere i morti». Le vittime patiscono un trattamento colpevolizzante, sono trasformate in lemming spinti da desideri suicidi: erano donnine allegre, conducevano una doppia vita, eccetera. In poche parole, si fa il processo alle vittime.
Come conclusione a una delle più belle storie disegnate da Alberto Breccia per Un certo Daneri, è riportata una frase di Borges: «L’immaginazione degli uomini, in materia di mostri, è limitata». Il primo a essere arrestato nel 1995 è Abdel Latif Sharif Sharif, un egiziano che sembra portare su di sé quelli che René Girard chiama i segni vittimari del capro espiatorio. Sharif è uno straniero (il nemico non può che venire da fuori); in più ha subito vari processi negli Stati Uniti per violenza e molestie sessuali, ama la vita notturna e, nonostante si trovi da un anno in Messico, è stato già denunciato per reati sessuali. Il processo (Tolstòj: «Quell’abietta commedia che tra essi ha il nome di processo…») che subisce Sharif sembra quasi un omaggio all’opera di Lewis Carroll. Le prove della colpevolezza possono essere fornite in un secondo momento. Anzi, tutto quello che viene detto tre volte (dagli accusatori) è vero, senza bisogno di prove. È indiziato? Deve essere necessariamente colpevole. È stato accusato? Deve essere condannato, senza ombra di dubbio. «Prima la sentenza, poi il verdetto». Mentre i giornali e le televisioni si sostituiscono alla regina di cuori per ripetere: «Tagliategli la testa». La semplice arte del delitto si accorda alla perfezione con la complessa e raffinata arte della manipolazione mediatica.
Quando comincia a sembrare poco credibile l’ipotesi di un unico assassino, viene arrestata una banda di torvi motociclisti, Los rebeldes, e il loro capo dal roboante nome: El Diablo. Sharif viene promosso da maniaco sessuale a genio del male: diventa un incrocio tra Stavrogin, Maldoror, il dottor Mabuse e Blofeld della Spectre, un uomo dotato di una “straordinaria attitudine al crimine”, capace di plagiare i giovani e di progettare omicidi dal carcere.
Tra il 1999 e il 2001 vengono arrestati tre conducenti di autobus i quali, dopo essere stati torturati, si dichiarano colpevoli. Gli omicidi non si fermano, mentre il governo si preoccupa solo di «contrastare le critiche con annunci spettacolari e atti di propaganda» (Ossa nel deserto). Nel 2003 i rapporti di Amnesty International prima e dell’Onu poi sono durissimi atti di accusa nei confronti della polizia messicana (La città che uccide le donne).
Se la giustizia divina è imperscrutabile, quella umana sembra colpire a casaccio, con una predilezione per “los de abajo”. In realtà in questa follia c’è un metodo: le indagini hanno lo scopo di negare che il confine tra crimine organizzato e potere economico è pressoché inesistente e che il narcotraffico è parte integrante del sistema politico, e non un corpo estraneo. Nel frattempo il modello proposto da Ciudad Juarez comincia a dominare non solo sul piano reale ma anche su quello simbolico. Partendo dalle riflessioni di Barry Gifford, González Rodríguez propone il termine frontierizzazione per riferirsi al fatto che l’intero Messico sta diventando simile alle città di frontiera, «un tessuto di poteri centrifughi che si riproducono esponenzialmente contro le regole e le istituzioni. Sospeso tra qualche cosa, il nulla e la sopraffazione». Da quella zona della frontiera messicana il male, afferma González Rodríguez, si sta «diffondendo progressivamente fino a superare i confini del villaggio e farsi globale».
Postilla semiconclusiva non scientifica: “Who watches the watchmen?» (A. Moore e D. Gibbons, Watchmen)
Due tra le più potenti opere della letteratura ispanoamericana del XXI secolo, Ossa nel deserto e il romanzo postumo di Bolaño (2666), raccontano le morti di Ciudad Juárez. In entrambi i libri, gli omicidi non sono considerati come un’anomalia ma come la logica conseguenza di ciò che accade nelle fabbriche. La riduzione del corpo a oggetto da seviziare e annichilire non avviene solo quando entrano in scena gli assassini materiali, inizia molto prima.
Ossa nel deserto abolisce i confini tra i vari generi letterari e le varie discipline e si rivela inoltre in continuità con alcune grandi testimonianze della letteratura ispanoamericana: le indagini sulla dittatura argentina di Verbitsky, La noche de Tlatelolco, Operazione massacro, tutti libri scritti per scuotere le coscienze dei lettori. Ossa nel deserto è un saggio polifonico, in cui lo scrittore assembla le voci dei familiari delle vittime, dei presunti assassini, della polizia, dei piccoli grandi inquisitori, le versioni ufficiali spacciate dai mezzi di comunicazione, combinando la riflessione con la polemica, l’indignazione con la pietà, nel tentativo di dare un senso a quella che sembra una storia “piena di frastuono e di furore, che non significa niente”. González Rodríguez ci fornisce una lucida analisi dei crimini e dimostra di possedere una fiducia smisurata e inattuale nella «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere» (F. Kafka, Confessioni e diari). La ricerca della verità è affidata al racconto, racconto che può «portare pace nell’inquietudine, inquietudine nella pace», come scrive Bachmann in Malina. Inoltre, come sostiene Piglia in “Novela y complot”, contro le manipolazioni dello stato lo scrittore è tenuto a ordire un complotto in cui i cospiratori (lo scrittore e i lettori) riescano a squarciare le verità preconfezionate, disobbedendo così alle “istruzioni alla servitù”. Per dirla con un’espressione foucaultiana: «Là dove c’è potere c’è resistenza». Davanti alla possibilità, sempre più concreta, di diventare schiavi felici e senza memoria, come la razza degli Eloi de La macchina del tempo di Wells, lo spazio letterario costruito da González Rodríguez ricorda che sovente lo stato fabbrica una “verità sospetta”.
In fondo, come diceva Humpty Dumpty ad Alice: «La questione è […] chi è che comanda – ecco tutto» (L. Carrol, Alice nel paese delle meraviglie. Attraverso lo specchio).
Bibliografia su Ciudad Juárez
Bolaño, Roberto, 2666, Adelphi, Milano 2007/2008.
Fernandez, Marc e Jean-Cristophe Rampal, La città che uccide le donne, Fandango, Roma 2007.
González Rodríguez, Sergio, Ossa nel deserto, Adelphi, Milano 2006.
―, El hombre sin cabeza, Anagrama, Barcelona, 2009.
Ronquillo, Victor, L’inferno di Ciudad Juárez, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006.
Winslow, Don, Il potere del cane, Einaudi, Torino 2009.
www.mujeresdejuarez.org/
Filmografia
Juárez, la ciudad donde las mujeres son desechables di Alex Flores, Lorena Vassolo (2007.
Maquilas, documentario del 2004 di Isabella Sandri e Giuseppe M. Gaudino.
Molti documentari si possono vedere sul sito.
Condividi