amis copia

Uno scaffale pieno di libri:
conversazione tra Martin Amis e Rodrigo Fresán

redazione Interviste, SUR

Pubblichiamo oggi una conversazione tra l’autore argentino Rodrigo Fresán e Martin Amis, avvenuta in occasione della presentazione del romanzo La zona di interesse alla libreria La Central di Barcellona. Il pezzo è tratto dal blog della Central, che ringraziamo.

traduzione di Martine Moretti

Rodrigo Fresán:
Per cominciare, mi piacerebbe che ci spiegasse l’importanza dell’immagine con cui, nella Zona d’interesse, Auschwitz viene paragonato a uno specchio nel cui riflesso si scopre la verità su chi si è realmente. Nel libro, ci si riferisce a questa storia come se fosse una leggenda ebraica, degna di un racconto di Bruno Schulz o di Isaac Bashevis Singer.

Martin Amis:
In primo luogo, grazie a tutti di essere venuti. La verità è che mi sento molto legato, molto vicino alla Spagna. Anzi, direi che la Spagna è il mio paese europeo. Non lo sono né la Francia, né l’Italia. I miei due fratelli vivono a Ronda, in Andalusia. Mia madre si trasferì qui nel 1975 e ci rimase fino alla sua morte. Fu verso la fine del regime di Franco… un’epoca in cui giravano ancora i poliziotti della Guardia Civil e, se vedevano donne in spiaggia, si avvicinavano dicendo loro che era assolutamente proibito fare il bagno in bikini; se avessero voluto fare il bagno, avrebbero dovuto indossare un costume intero. Mia sorella minore, che aveva il bikini, a due pezzi, disse: «E che pezzo vuole che mi tolga?» A ogni modo, è mia madre ad avermi trasmesso l’amore per la Spagna, e credo di avere qualcosa in comune con la gente del posto; per certi versi, credo sia il senso dell’umorismo, che può essere piuttosto crudele ma anche molto rispettoso.
Ora, tornando ad Auschwitz e allo specchio, il libro inizia con la storia di un re che regnava su una terra inizialmente molto pacifica e prospera. Un giorno, il re chiese al mago del posto di inventare uno specchio. Questo specchio, però, non mostrava il riflesso del viso, bensì quello dell’anima, cioè la vera essenza di ognuno. E si venne a sapere che nemmeno il re riusciva a guardarsi allo specchio per più di un minuto. Ecco quindi che il re e gli abitanti di quel territorio si trovarono nella stessa situazione: nessuno riusciva a guardarsi allo specchio per più di un minuto. E poi uno dei personaggi del libro, Szmul, l’«uomo più triste del mondo», un ebreo polacco che faceva parte dei Sonderkommandos – quegli ebrei che ricevevano altri ebrei nel campo e avevano il compito di rinchiuderli e portarli nelle camere a gas, tagliargli i capelli e strappargli le otturazioni d’oro dai denti –, dice che il campo di concentramento era proprio così. Uno specchio. Che ti mostra esattamente come sei. Dal quale, però, non riesci a distogliere lo sguardo. Si parla proprio dello specchio perché molti sopravvissuti dicono che, in realtà, nel corso di una vita normale arriviamo a conoscere solo il 5% o il 10% di noi stessi. E ciò si deve al fatto che non abbiamo bisogno di conoscere l’altro 90%. Anzi, è meglio non conoscerlo, perché quel 90% restante si manifesta chiaramente solo quando si è totalmente esposti a situazioni estreme. In questo contesto, i carnefici – i tedeschi – scoprirono di avere una certa propensione al sadismo, di avere istinti suicidi o un appetito più o meno forte per la morte. Ma se parliamo delle vittime, moltissimi testimoni raccontano che, con loro grande sorpresa, scoprirono di possedere molteplici risorse. Primo Levi spiega che l’arrivo ad Auschwitz era già di per sé come sentirsi spinti verso la morte, perché si veniva lanciati di peso verso l’orrore. Pensiamo, cioè, a una persona che non è mai stata segnata in questo modo, che non è mai stata schiavizzata, alla quale non è stato mai impedito di dormire per ore e ore; che si ritrova lì, all’improvviso, e se riesce a sopravvivere, vuol dire che c’è in lei qualcosa di assolutamente eccezionale. In altre parole, i sopravvissuti possedevano un talento fuori dal normale. Una sorta di immunità alla disperazione. E ancor più importante: una straordinaria capacità di conservare la propria dignità. E si scoprì davvero che le persone – le vittime – che finivano per rinunciare alla loro moralità, morivano prima. Se, però, riuscivano a conservare la dignità, proprio quell’integrità manteneva uniti il corpo e l’anima, permettendo loro di resistere più a lungo e, in alcuni casi, di vivere per raccontare la storia.

Fresán:
Soffermandoci sull’immagine dello specchio misterioso, mi chiedo se uno scrittore, nel momento in cui inizia a scrivere sull’Olocausto, per quanto il romanzo possa essere intriso di satira o di romanticismo, non si senta anche lui obbligato, in un certo senso, a non distogliere lo sguardo da quello specchio o a guardarvisi dentro. La mia domanda non è tanto perché abbia deciso di scrivere un romanzo sull’Olocausto, ma perché abbia deciso di scrivere un secondo romanzo sull’Olocausto dopo vent’anni dalla Freccia del tempo. Mi viene sempre in mente l’esperienza di Stanley Kubrick, che stava preparando un grande film sull’Olocausto nazista, e si era documentato per anni sul tema e, alla fine, dovette abbandonare il progetto. Diceva che non riusciva più a dormire, che scoppiava in crisi di pianto, in depressioni profonde… Cioè, l’argomento era stato per lui estremamente tossico. Mi interesserebbe sapere qual è il suo rapporto con questa tematica. Inoltre, proprio oggi stesso, ho notato con una certa preoccupazione che i libri di viaggio di Martin Amis sono voluminosi trattati sul nazismo. A questo punto, non posso che chiedermi se in qualche modo esiste in lei la tentazione di seguire i dettami di quella magica parola che è «trilogia». Insomma, Martin Amis ci riserva ancora un altro romanzo sul nazismo?

Amis:
C’è una cosa che io definisco «ansia esistenziale», ed è stata proprio quell’ansia a spingermi, vent’anni fa, a scrivere il mio primo romanzo sull’Olocausto. C’è chi sostiene che non si possa scrivere narrativa sull’Olocausto; ma io credo che quest’ottica, da un punto di vista filosofico, sia sbagliata. È un errore perché quando possiamo veramente dire che un avvenimento, un fatto, è così terribile da impedirci di scriverne? Tra le cose che stanno accadendo oggi, che stiamo vivendo oggi, ce ne sono di così gravi da impedirci di scriverne in futuro? Proibire a qualcuno di scrivere su un argomento è un grande errore, perché la narrativa è libertà, così come lo è l’arte, e la libertà non può essere né frammentata né divisa. Cioè, non si può dire a qualcuno: sei libero ma come artista non puoi visitare certe regioni o certi luoghi. La libertà è o non è tale. La libertà o è assoluta o non è libertà.

In uno dei suoi libri, Il circolo Bellarosa, Saul Bellow racconta la storia di un giovane ebreo, che ne ha veramente abbastanza del fatto che tutta la sua famiglia, i suoi genitori, eccetera, siano ossessionati dalla storia dell’Olocausto e ne parlino continuamente. Il giovane ebreo pensa: Non soltanto prima ti picchiano, ti derubano, ti uccidono, ma oltretutto condannano te e i tuoi figli a pensare sempre a questa storia e a parlarne in continuazione per tutta la vita. Ed è quel che lui, all’inizio, non vuole fare. Queste sono le prime pagine del libro di Saul Bellow. Poi però capisce che invece deve farlo. Che è inevitabile.

Fresán:
E le sembra che per lei, in particolare, il discorso si sia chiuso con La zona d’interesse?

Amis:
Mi piacerebbe poter dire che scrivere La zona d’interesse è stata un’esperienza talmente difficile che ho avuto istinti suicidi. Ma la verità è che non è stato affatto così. La sofferenza che si sente a scrivere sull’Olocausto la provai vent’anni fa con La freccia del tempo. Qui no; qui il romanzo è scorso in modo molto più fluido e io ho solo cercato di renderlo coerente. Se ce n’è o se ce ne sarà un terzo? Be’, sarebbe bello. Ma in realtà non si decide mai di scrivere un romanzo. Ti metti a scrivere un romanzo come se ti arrivasse un messaggio dall’inconscio, dalla tua mente, come se all’improvviso ti svegliassi e ti ricordassi un sogno che hai fatto; e da quel momento ti viene l’idea che ti porta a scrivere. Ma programmare un romanzo, decidere di scrivere su un determinato argomento, no, a dire la verità, non riesco a immaginarlo. Non mi vedo, per esempio, in America mentre penso: Bene, allora, adesso mi metto a scrivere di armi, o di razza, o di Donald Trump, o del programma sanitario di Obama. No, piuttosto che prendere una decisione simile, preferisco suicidarmi.

Fresán:
La zona d’interesse è forse l’unico romanzo sul nazismo in tutta la storia della letteratura in cui il nome di Hitler non viene pronunciato nemmeno una volta, si descrive solo di passaggio. E questo mi ha fatto venire in mente Nabokov, la cui moglie era ebrea, e insieme dovettero fuggire dalla Spagna, prima perseguitati dal regime totalitario della Russia sovietica, comunista, e poi dai nazisti. Nabokov chiama pochissimo i grandi tiranni con il loro nome, eppure si percepisce, come se tutto restasse lì, intorno, sospeso. E a volte, come verso il finale di Pnin, irrompe con una forza commovente. Leggendo il suo libro, ho pensato immediatamente che si trattasse di una sorta di Risata nel buio [pesto che di più non si può]. Per questo vorrei sapere se, nel momento in cui si dedica a un romanzo, Nabokov continua a essere per lei uno spirito importante, o influente.

Amis:
In effetti, Nabokov è una grande fonte di ispirazione ed è molto importante per me. Non solo cita il tema dell’Olocausto, ma lo trascende. Sì, c’è quel momento in Pnin, in cui ci si trova in una casa di campagna e qualcuno chiede: «Hai saputo cosa è successo a Irina?» e Pnin risponde: «Sì, l’ho saputo». E a quel punto esplode quel fantastico passaggio in cui tutti entrano in casa per bere un tè, e lui resta in giardino, sta calando la notte, e pensa al suo affaire con Irina, di cui peraltro riconosce la banalità, e dice: «Solo se sei vittima di una malattia terminale, puoi concepire che una cosa del genere possa accadere a qualcuno. Altrimenti, l’idea che una persona dagli occhi brillanti, sorridente, venga portata in un posto, maltrattata, che le vengano iniettati fenolo e petrolio, che le vengano tagliati i capelli… è inimmaginabile». E io credo che quest’immagine del libro esprima abbastanza bene l’orrore e l’opinione che lo scrittore aveva dell’Olocausto. Nabokov si sposò con una donna ebrea. Riuscirono a lasciare la Russia nel 1917 e, insieme alla moglie e al figlio, mezzo ebreo, andarono a vivere a Berlino negli anni Trenta. E da lì, fecero il salto verso gli Stati Uniti.

Fresán:
C’è un altro aspetto del libro che ha suscitato molto il mio interesse e che, da un punto di vista narrativo, rappresenta il suo maggiore punto di forza; quando nel libro conosciamo e iniziamo ad avere a che fare con il patetico comandante del campo, Paul Doll, e con Szmul Zacharias, entrambi questi personaggi sono già stati trasformati, in male o in peggio, hanno già subito una trasformazione. Ma la storia del romanzo è, in realtà, la trasformazione di Angelus «Golo» Thomsen. E credo che sia l’esempio di come un’idea di coscienza possa arrivare a germogliare in una landa completamente desolata. Oggi, a pranzo, quando le hanno chiesto di Golo Thomsen, lei ha detto che alcuni critici avevano sostenuto che, secondo loro, si trattava del personaggio più «inglese», tra tutti quelli presenti nella storia. A me veramente è sembrato il più «francese»; perché la sua evoluzione mi ha ricordato moltissimo quella vissuta dal visconte di Valmont nelle Relazioni pericolose. Una persona completamente succube del fascino del male, che ama farne e che, all’improvviso, intuisce la possibilità non proprio di redimersi, ma di diventare un’altra persona. Di essere una persona leggermente migliore, anche se è già troppo tardi per esserlo davvero.

Amis:
Thomsen, in realtà, è il personaggio principale, con il romanzo comincia con lui e, quando lo incontriamo, ha già attraversato un processo che il 40% dei tedeschi con un minimo di dignità finiva per vivere. Questo processo, che ora vedremo, è un processo che [il giornalista e storico di origine tedesca] Sebastian Haffner descrisse già a suo tempo. E che si stava già sviluppando nella Germania del 1938, quando la società cadde in una sorta di trance patologico collettivo. E che ha a che vedere con cosa ti accade, cosa accade alla gente, quando all’improvviso si trova a vivere in uno stato totalitario senza concessioni. Haffner sostiene che la prima cosa che provi è l’orrore. No, ti senti come se fossi immerso in un bagno di non-realtà nel quale nulla ti convince. Addirittura, guardi dalla finestra, vedi un tram che passa, ed è come se nulla fosse reale. Quando leggi testi su questi argomenti, ti sembra tutto abbastanza logico, ma in realtà è assolutamente imprevedibile. Perché, da un lato, quando ti trovi in un mondo, in un ambiente assolutamente totalitario, dici addio al meglio di te, ai tuoi sentimenti, al tuo romanticismo, al tuo lato poetico; perché pensi che questo romanticismo e quei sentimenti non ti possano dare nulla, che siano inutili, insomma. Quindi, bye-bye a tutto questo. E dall’altro lato, senti una vocina che dice: «No, no, non puoi abbandonare tutti quei sentimenti»; ma poi, un’altra parte di te non solo ti dice che puoi, ma addirittura che devi farlo. È come un serpente, una malattia che si trascina e ti trascina e che via via perde i diversi strati della sua pelle.
Poi, c’è anche un altro concetto del quale si è molto parlato: l’esilio interno. Quando cominci a sospettare dei tuoi migliori amici, e quegli amici cominciano a sospettare di te. È come se tutta la tua bontà, tutto il tuo candore, fossero scomparsi. E credi che sia addirittura giusto così e pian piano lasci spazio a un nuovo «tu» assolutamente cinico e completamente corroso all’interno. Questo personaggio è Thomsen.
In qualche modo, ho la sensazione di descrivere un vero nazista, reale, e non proprio un romantico che poi si trasforma in un adultero e in un seduttore. Ma credo che sia importante dire che una persona non può mettersi a uccidere, ad assassinare, senza veramente cambiare qualcosa dentro di sé. Si è parlato della banalità del male. La banalità, nel caso dei nazisti, forse esisteva all’inizio; poi, però, con il totalitarismo e gli omicidi… di banale non è rimasto proprio niente. Potremmo addirittura chiederci, se ci proiettassimo ora nella nostra attualità, perché la gente sposa la causa dello Stato islamico. Risposta: la gente lo fa perché non ha potere, mentre sa che una volta entrata nello Stato islamico potrà uccidere, ed è ciò che le darà la forza del potere. In altre parole, il fatto che uccidere ti dia un enorme potere è un segreto fino a un certo punto. Ed è esattamente quel che successe ai nazisti. Tornando ad Haffner, lui sosteneva che quell’antisemitismo non era un’ideologia, ma una maniera di dire alla gente: «Ascolta, se sei capace di rubare, picchiare, massacrare, uccidere bambini, i loro genitori, e gente che non ti ha fatto assolutamente nulla, allora vieni con me e vivrai quel potere, quella forza».

Fresán:
La zona d’interesse si conclude con un epilogo, nel 1948. Mi chiedevo se Martin Amis, in quanto scrittore e lettore di ciò che stava scrivendo, una volta concluso il romanzo abbia provato una certa curiosità, se gli piacerebbe sapere come finì la vita di Golo, cosa successe a lui e ad Hannah.

Amis:
Certo, sono curioso di conoscere il futuro dei personaggi e, in effetti, ho un’idea abbastanza chiara di come può essere stata la loro vita dopo aver detto loro addio nell’ultima pagina del libro. A ogni modo, alla fine di questo libro volevo davvero trovare una specie di redenzione. Cercavo un finale un po’ più positivo e immaginavo Hannah e Golo insieme, con l’idea che il loro amore sarebbe sopravvissuto al campo di concentramento. Un amore che, peraltro, non riesce mai a diventare fisico. Al massimo c’è un bacio sulla guancia o un abbraccio, ma di sicuro non si può trarre veramente questa conclusione, benché abbiano effettivamente una sorta di «relazione» nel corso del libro. All’inizio, pensavo che quest’amore sarebbe potuto sopravvivere, ma ci sono testimoni di coppie che si trovarono ad Auschwitz e che sopravvissero al campo di concentramento perché si organizzarono (in effetti, l’organizzazione e l’affetto era ciò che permetteva di sopravvivere al campo), ma ciò non spiega precisamente ciò che accadde ad Hannah nel libro. Hannah dice a Golo: «Quando eravamo nel campo di concentramento, tu eri per me sinonimo di civiltà, di umanità, di simpatia; ma adesso che non siamo più là, vederti qui, fuori e dopo tutto quello che è successo, mi rimanda solo dinnanzi agli occhi tutto l’orrore di quel momento, di quel periodo». Detto ciò, questa storia non poteva avere un lieto fine. E di fatto, ho dovuto rinunciarci e abbandonare l’idea. E l’ho fatto mio malgrado. In realtà, in una situazione tragica come quella di Auschwitz non c’è nulla che si possa salvare, forse perché non siamo francesi. I francesi sono capaci di velare tutto, con una specie di patina, affinché l’amore sopravviva anche a una situazione come quella. Ma a me piace dire che il contrappunto dell’amore sono l’odio e la morte. L’amore, all’inizio, muove tutto nel mondo (non saremmo qui se non ci fosse l’amore), ma non può sopravvivere a una situazione così tragica.

Fresán:
Mi interessa molto l’idea che emerge nei suoi ultimi libri, specialmente nella Vedova incinta, che racchiude, secondo me, alcune tra le migliori pagine della sua opera. Sono pagine molto crepuscolari, in cui si parla dell’aumento della dimensione e del peso specifico del passato e di quelli dell’orizzonte che si avvicina all’uomo a grandi passi.

Amis:
Scrivere è come giocare con il tema dell’universalità. Lo scrittore è una persona che ha l’arroganza di presumere che la sua esperienza sia fondamentalmente un’esperienza universale. Per esempio, la tua infanzia è generalmente felice (la mia lo è stata, almeno finché i miei genitori si separarono). Poi arrivi all’adolescenza, e attraversi un periodo poco allettante, nel senso che, fondamentalmente, passi il tempo a offendere i tuoi genitori. Poi entri nell’ansia della vita adulta… ne ho parlato il mio amico Christopher Hitchens, della vita adulta e della paura del fallimento, del chiederci se ce l’avremmo fatta, o no, se le cose sarebbero andate bene, oppure no. Poi entri nella decade dei vent’anni e sei immerso in avventure romantiche. Poi ti stanchi anche di quello e senti il bisogno di vedere qualche faccia nuova intorno a te e cominci a sentire il bisogno di avere figli. E allora li fai, e con loro arrivano nuovi spunti, nuovi interessi, nuove emozioni. E attraverso quelle nuove emozioni arrivi a quarantacinque anni, a quella che potremmo chiamare la fine della giovinezza. Quando sei giovane ti guardi allo specchio e pensi: La gente, gli altri, invecchiano tutti, diventano anziani, ma tu, bello mio, sei stupendo, perché a te questo non succede e non succederà mai. E all’improvviso, a quarantacinque anni, ti rendi conto che invece succede anche a te, che invecchi anche tu. E così, col passare del tempo, vedi che la vita si accorcia sempre di più. E sorpresa: quando arrivi a cinquant’anni ti si apre davanti una grande porta, quella del tuo passato, del tempo che avevi prima. E ti diverti così tanto a girovagare con il pensiero in quel passato e a ricordare gli aneddoti, soprattutto amorosi, che hai vissuto. È come un palazzo, come una porta che si apre sul palazzo delle tue storie. Poi i cinquant’anni avanzati cominciano a diventare un po’ difficili, perché a quel punto fai il processo a tutta la tua vita, tiri conclusioni, e immagini già che arriverà veramente il momento in cui morirai. E vai avanti così con la tua esperienza (io parlo dal mio punto di vista, perché ho già sessantasei anni) e a sessant’anni provi un certo sollievo perché pensi: La lotta è già finita, il lavoro che dovevo fare l’ho fatto, ho avuto figli, ho una moglie, la carriera è già tracciata… Ed è allora che, quando pensi al passato, smetti di pensare alle storie d’amore vissute per cominciare a pensare ai tuoi figli. Ho cinque figli e mia figlia, quella di mezzo, mi chiede: «Papà, quanti anni hai?», «Sessantasei», le rispondo. «Mmh… allora sei quasi arrivato», mi dice. Ed è vero. E proprio quest’idea, che stai invecchiando e che un giorno morirai, acquista sempre maggior importanza nella mia mente. Insomma, non so, prossimamente, quando ci rivedremo ve ne farò un resoconto, ma per ora è così che vedo le cose.

Fresán:
Per concludere, giorni fa in un’intervista ho letto una frase di Salman Rushdie che citando Martin Amis, ha detto: «Il mio amico Martin Amis ha detto una frase meravigliosa: ciò che speri alla fine è lasciare uno scaffale pieno di libri». E per quanto mi riguarda, vorrei ringraziarla per aver lasciato un altro libro sullo scaffale di Martin Amis e comunicarle che su quello scaffale c’è ancora molto spazio.

Amis:
Riguardo a quanto ha detto Rodrigo citando Salman Rushdie e l’immagine dei libri sulla mensola, non so se credete o no nell’aldilà, in una vita dopo la morte, ma se sei uno scrittore, pensi davvero che i libri continuino a leggersi anche quando non ci sei più. E quando incontro qualcuno che mi dice: «Sono un tuo grande fan», penso sempre che preferirei sapere dove sono i fan più giovani, invece di quelli della mia età, che mi hanno accompagnato durante tutta la vita, seguendo la mia opera. Perché penso che un giovane ha ancora davanti a sé quaranta o cinquant’anni per continuare a leggere e suggerire letture ad altri. E credo che il desiderio di immortalità sia più forte di tutto. Ripeto, è per quello, forse, che facciamo figli. Ma, in definitiva, spero che, in un modo o nell’altro, tutti noi, scrittori, continueremo a vivere attraverso i nostri libri.

Condividi