Pubblichiamo oggi una crónica del giornalista messicano Carlos Puig: si parla di giornalismo, di poesia, di Octavio Paz, Camilo José Cela e José Emilio Pacheco, e soprattutto di quel 1989, in cui Paz non vinse il Nobel. L’articolo è tratto dalla rivista Nexos, che ringraziamo.
«Octavio Paz: la falsa consegna del Nobel»
di Carlos Puig
traduzione di Silvia Bonuccelli
«Lei è messicano?», mi domandò l’impiegata dell’hotel Marriot di Salt Lake City situato nell’enorme campus dell’Università dello Utah.
«Sì», mi affrettai a rispondere prima che lei mi raccontasse del giorno prima, quando le era toccato di registrare un messicano che, secondo quanto le avevano detto i suoi capi, era molto famoso.
Rimasi in silenzio. La mia intenzione di passare inosservato era sul punto di fallire. «Non dire niente, non dire niente», pensai.
«Anzi, lo metto al suo stesso piano, con un po’ di fortuna lo incontra e lo saluta. Che ne dice?»
«Sì, grazie».
«È il signor… Paz… Octavius… Lo conosce? Credo che sia uno scrittore».
«Sì, ne ho sentito parlare».
Era mercoledì 18 ottobre del 1989. Avevo venticinque anni, da tre ero uscito dall’università, da cinque mesi ero l’inviato a Washington della rivista Proceso ed ero a Salt Lake per quella che, fino a quel momento, era l’occasione più importante della mia carriera.
Due giorni prima mi aveva chiamato Armando Ponce, editore della sezione cultura del settimanale: «Carlos, devi andare nello Utah. Don Julio sa che Paz sarà lì questo giovedì, c’è la consegna del Nobel e quest’anno toccherà a lui. Che Paz sia là è un segreto, lo sa solo don Julio, saremo gli unici a essere lì lo stesso giorno».
«E tu?», gli chiesi.
«Non ho il visto. Prenota il volo, poi ne parliamo».
Tre giorni dopo, sistematomi da poco nella mia stanza, avvertii Ponce. Era pronto, sapeva qual era il numero della stanza di Paz che si trovava al mio piano. Quella sera Paz avrebbe tenuto la prima di una serie di conferenze.
Io e Armando ci mettemmo d’accordo che quella sera non mi sarei presentato al poeta per non allarmarlo della presenza di un mezzo di comunicazione messicano e che non l’avrei fatto fino alla mattina seguente, quando lo avrebbero annunciato come Premio Nobel della Letteratura 1989.
Quella sera l’auditorium del Museo di Belle Arti dell’università si riempì mezz’ora prima dell’inizio della XXI Conferencia Tanner en Valores Humanos y Poesía. Circa quattrocento persone, per la maggior parte studenti, applaudirono in piedi quando il poeta statunitense Mark Strand presentò Paz, che arrivò all’auditorium accompagnato da sua moglie, Marie Jo.
«I miei titoli per fare questa conferenza sono dubbi: non sono né un critico né uno storico, non sono altro che un appassionato di poesia», disse Paz.
«Ciò che dirò stasera», spiegò, «è una testimonianza, più che un verdetto».
La voce acuta del poeta riempì l’auditorium: «Il futuro è screditato, la modernità è ferita, il figlio del progresso sta seduto all’orizzonte e noi non abbiamo ancora scoperto la nuova stella intellettuale che ci guiderà».
Riprendo dai miei appunti di venticinque anni fa: Paz indossa un completo blu, cravatta blu, la camicia celeste, e gli occhi chiari che tiene fermi sul pubblico. Prima di iniziare, Paz guarda Marie Jo, sua moglie, seduta in prima fila, che durante la lettura non toglie gli occhi di dosso a suo marito, né perde un calmo sorriso di orgoglio e ammirazione, come se lo vedesse per la prima volta.
Paz: «Il moderno è per sua natura transitorio. Il contemporaneo è una qualità che evapora in fretta come nasce. Ci sono tante modernità e antichità come ci sono epoche e società. La modernità di oggi non può evitare di essere l’antichità del domani. Ma, per il momento, ci dobbiamo rassegnare e accettare di vivere nell’era moderna. Termine che, a volte, è ambivalente e temporaneo.
La modernità è cominciata nella critica della religione, della storia, della filosofia, della morale, della legge, dell’economia e della politica. La critica è stata il suo marchio distintivo, è nata con lei. Tutta la storia moderna è il risultato della critica, che per me non è altro che un metodo di ricerca, creazione e azione».
L’audio non è molto buono e il microfono salta in continuazione. Nessuno protesta. Inclinano il corpo in avanti per stare più attenti, nessuno parla. L’inglese di Paz, grammaticalmente perfetto, ma grossolano nella pronuncia, esige dal suo pubblico uno sforzo maggiore: come il suo tono, senza variazioni, che accompagna soltanto con un lieve gesto della mano destra.
Quando finisce, conto più di due minuti di ovazione. Paz sorride e porta la mano sinistra alla bocca. Nervoso, gioca con il pollice e l’indice. Mark Strand interrompe l’applauso per invitare il pubblico a fare domande al poeta, anche se, avverte, che non risponderà a domande di politica.
Tre domande più tardi, Paz ringrazia. Firma alcuni libri. Sbadiglia. Prendo un taxi e chiedo al conducente di seguire il camioncino che porta Paz, Marie Jo e i funzionari dell’università. Arriviamo all’hotel.
Lì, accompagnato dagli organizzatori della conferenza, lo scrittore si prende un bicchiere al bar, io lo tengo d’occhio ad alcuni metri, prendo un whisky. Verso le 10:30 sale con sua moglie nella stanza.
Io, dalla mia stanza, ho chiamato Armando Ponce. Naturalmente, non ci sono né cellulari, né internet. Ponce mi avviserà dal Messico nel momento in cui ci sarà l’annuncio. Io m’incamminerò verso la stanza dei Paz e avremo l’esclusiva mondiale.
Non perdiamo tempo a pensare sul da farsi se non lo vince Paz. È un’opzione che non contempliamo. L’ha detto don Julio, ho viaggiato fin lì, non ci sono altri giornalisti. È andato tutto bene. Tra poche ore porteremo a termine l’impresa giornalistica.
Con quella certezza, io e Armando ci siamo dati la buonanotte.
Chiedo di venire svegliato da una chiamata mezz’ora prima dell’annuncio in Svezia, prima delle sei di mattina, ora di Salt Lake. Apro la porta e mi avvicino alla stanza dei Paz. La luce è accesa. «Stanno aspettando l’annuncio», penso. «O lo sanno già», mi emoziono.
Alla fine suona il telefono della mia stanza. «È Cela», mi dice Armando.
«Chi? Cosa?»
«Camilo José Cela, lo spagnolo».
«Cazzo».
«Non dirlo a me», mi dice Armando, sconsolato.
«Cazzo», ripeto.
Torno verso la porta della mia stanza. La apro appena. La luce della stanza di Paz continua a essere accesa. Resto molto tempo lì, a spiare. Una mezz’ora dopo vedo uscire Marie Jo, già vestita, va verso l’ascensore. Torna dopo dieci minuti. Mezz’ora più tardi arriva un impiegato dell’hotel con un vassoio con la colazione dei Paz.
Poco prima delle nove di mattina compaiono Paz y Marie Jo alla Casa della Società degli Studenti dell’università. Paz sorride. Sembra divertito.
Nell’atrio di una sala per circa cento persone, Paz aspetta di entrare e conversa con alcuni studenti. È il momento, mi dico in silenzio.
«Maestro, molto piacere, sono Carlos Puig, della rivista Proceso».
«Puig? Catalano, vero?»
«Sì, maestro, ma sono l’inviato a Washington di Proceso…»
«Che ci fa qui, Puig?», mi interrompe.
«Mi ha mandato Julio, pensavamo che oggi avremmo festeggiato».
«Ahia, questo Julio! Che crudele questo Julio! Marie Jo, Marie Jo», richiama l’attenzione della moglie. «Guarda la pazzia che ha fatto Julio», le dice, indicandomi. «Questo ragazzo catalano, Puig, giusto? L’ha mandato fin qua, che crudele questo Julio!»
Paz elogiava l’idea di Scherer, Marie Jo gli dava ragione. E io, fermo lì in mezzo a studenti mormoni che non capivano niente.
«Senta Puig, se avessero voluto premiare la Spagna di Felipe, avrebbero dato il Nobel al mio amico Alberti».
Paz deve aver visto come mi si illuminarono gli occhi da reporter perché mi disse immediatamente: «Questo, non lo puoi pubblicare».
Qualcuno lo invita a entrare in sala e io resto con Marie Jo, che mi prende sottobraccio e mi invita a sedermi vicino a lei nel piccolo auditorium.
Da quella mattina fino alla sera di venerdì 20, grazie alla moglie di Paz, sono stato vicino al poeta per pranzi, cene ed eventi. Ma fu molti anni dopo che mi resi conto del privilegio che aveva significato restare a conversare dove Paz discuteva con Charles Simic, Richard Poirier o Helen Venler. Io stavo in silenzio e ascoltavo e Paz mi presentava come il ragazzo «catalano, giusto?», che quel pazzo del suo amico Julio aveva mandato fin nello Utah pensando che gli avrebbero dato il Nobel.
Venerdì sera, il giro di Paz nel territorio mormone si conclude con una lettura della sua poesia «Hermandad», che provoca un applauso di cinque minuti ̶ il pubblico in piedi ̶ e che il poeta ringrazia con la testa e un rossore sulle guance.
Quella sera, dettai il mio articolo alla rivista che, su richiesta del poeta, non incluse nemmeno una sua dichiarazione. La prima pagina del lunedì seguente diceva: «Il giorno che non diedero il Nobel a Paz».
«Il suo peggior lavoro da inviato», mi dirà anni dopo Don Julio. «Molto male».
Un anno dopo, nell’ottobre del 1980, il governo messicano fece una gran festa a New York.
Promosso da Televisa e con Octavio Paz come referente, il salinismo invase Manhattan e dintorni con la grande esposizione «México: 30 siglos de Esplendor» nel Met e decine di altre esposizioni, opere di teatro, cicli di film e conferenze durante tutto il mese di ottobre.
Armando Ponce, accompagnato dal capo di fotografia di Proceso Juan Mirada, si sistemò a New York e io passai settimane tra casa mia a Washington e Manhattan. Una di quelle notti, decidemmo di separarci per coprire due eventi. A lui toccò andare alla inaugurazione di «Mujeres de México» nelle installazioni dell’Accademia Americana di Disegno.
La sera tardi, all’hotel, trovai Armando tristissimo. Paz, che aveva assistito all’esposizione delle donne, lo aveva maltrattato, gli aveva reclamato un paio di testi su Proceso, gli aveva urlato contro, insultato collaboratori di Proceso e se n’era andato, davanti alla richiesta di Raquel Tibol che «lo perdonasse», con un rifiuto al quale aggiunse, guardandolo negli occhi: «Sono molto arrabbiato con lei».
La rabbia di Paz aveva a che fare, soprattutto, con la prima pagina di Proceso del 3 settembre che diceva: «La prepotenza di Octavio Paz», in relazione a quell’Encuentro de la Libertad. Ma anche con una controversia pubblicata nella sezione che dirigeva Armando su un presunto testo inedito di suor Juana.
Il rapporto con Paz, diceva Armando, era rotto.
Lunedì 8 ottobre, cenammo a Washington con José Emilio Pacheco, collaboratore di Proceso e professore all’Università del Maryland, che raccontò i suoi aneddoti su Paz e cercò di consolare Armando narrando di come, una volta, Paz non gli aveva più parlato per mesi perché José Emilio gli aveva dato buca: «Mi persi per arrivare a Riforma, camminai per ore, non riuscii mai ad arrivare a casa sua», raccontò José Emilio ridendo a crepapelle. Arrivammo tutti alla conclusione che sarebbe stato molto difficile che l’Accademia Svedese desse il Nobel a due scrittori di lingua spagnola in due anni. Il tempo del Nobel per Paz era finito.
Giovedì 11, mi svegliai presto per verificare il premio Nobel, visto che Mario Vargas Llosa era in città e che non fosse che…
Quella mattina l’Accademia Svedese lo diede a Octavio Paz.
Chiamai l’hotel di New York dove ancora dormiva Armando. Lo svegliai e non mi credette. «Non scherzare, Carlos».
Qualche ora dopo, mi chiamò dal Drake, dove Paz aveva tenuto una conferenza stampa. «Sono fottuto Carlos, non vuole avere a che fare con me», mi diceva Armando. «Cazzo, mi tocca il primo Nobel messicano, sono con lui a New York e mi tocca lottare per una prima pagina. Cazzo».
Gli dissi che avrei preso il primo treno per New York e di non preoccuparsi, che qualcosa avremmo fatto.
Quando arrivai a New York, Armando aveva trovato la soluzione. Nei corridoi del Drake si era imbattuto con Marie Jo che gli aveva ripetuto che Paz era «molto arrabbiato con Julio e con Proceso». Ponce gli ricordò del mio viaggio nello Utah l’anno prima. La signora Paz si ricordò di me, promise di parlarne al poeta e chiese di chiamarlo quella sera a un numero privato. La sera stessa Marie Jo mi fissò un appuntamento molto presto al Drake. «A Octavio farà molto piacere vederla, Carlos».
Avevo appena ventisei anni e a parte Angélica Abelleyra de La Jornada, con cui aveva parlato in privato per qualche minuto il giovedì, Proceso sarebbe stato l’unico giornale messicano al quale concedevo un’intervista.
Quella sera, nervoso, chiamai Vicente Leñero. «Che gli chiedo, Vicente?»
«Che ti parli di teatro, Carlos; non ha mai fatto teatro, né come scrittore né come critico, né gli ha dato spazio sulle sue riviste, che ti dica perché non gli frega un cazzo del teatro».
Venerdì 12 ottobre 1990 Octavio Paz aprì la porta della suite che gli aveva messo a disposizione l’hotel per fare delle interviste. Armando decise di non accompagnarmi per non “surriscaldare” l’ambiente.
Mi ricevette con un fax in mano: «Guardi Puig, guardi che cosa favolosa mi ha mandato un amico: Le bon Nobel. Si rende conto? Che palindromo!».
Nella suite c’era Marie-José Paz e il suo traduttore in inglese Eliot Weinberger.
«Ieri ho passato la giornata a rilasciare interviste, ha visto qualcosa? Che le è sembrato? Di cosa vuole parlare?» Mi presenta Weinberger: «Lui è Puig, catalano, messicano, ma catalano vero?»
Gli trasmetto le congratulazioni di Scherer e del resto della rivista. Marie Jo allude alla prima pagina dalla prepotenza, al “maltrattamento” di Proceso.
Mi si contorce lo stomaco. Perché ricordarsene proprio adesso, penso.
«Julio è così», dice Paz alla moglie. «È sempre stato così. Di’ a Julio che lo abbraccio», mi dice Paz, il Nobel, il trionfatore, che metteva fine al litigio.
Marie Jo mi invita a sedermi su un letto da dove sono testimone di almeno tre interviste telefoniche e di una lunghissima sessione fotografica.
Una mezz’ora più tardi, ci accomodiamo su due sedie, uno di fronte all’altro, con un tavolinetto dove metto il registratore, prima che lo accenda mi dice: «Senti, niente sulla politica, per favore. Pura letteratura».
La prima parte dell’intervista devia su Alfonso Reyes e Paz si dice “inquieto” perché lo si paragona a lui. «Lui non rischiò mai», mi dice.
Gli domando di altri autori messicani, critici e, senza dire una parola, facendo attenzione a non lasciare tracce nel registratore, muove le braccia per dirmi che a quello non risponderà.
Alla fine, arrivo al teatro, alla drammaturgia. Alla domanda di Vicente.
«È uno dei miei più grandi rimpianti», mi dice Paz. «Tutti mi chiedono perché non scrivo romanzi; mi sarebbe piaciuto scrivere romanzi e non li ho scritti. Ma insomma, ormai è molto tardi. Poi, il teatro, quello è stato il rimpianto più grande. Perché credo che fra il teatro e la poesia ci sia una relazione molto profonda e molti poeti che ammiro hanno fatto teatro e molti drammaturghi che ammiro, in primis Shakespeare, sono stati poeti. Quindi mi sarebbe piaciuto molto fare teatro. Non l’ho mai fatto perché ai miei tempi c’erano poche opportunità, ho vissuto fuori; per fare teatro devi avere un pubblico, degli attori, e io non li avevo. Però mi sarebbe piaciuto».
«E le interessa il teatro messicano, ha visto del teatro messicano contemporaneo?»
«Sì, quando posso, penso che nel campo della recitazione, i messicani possono essere attori eccellenti…»
«E quanto ai drammaturghi…»
«Per esempio, abbiamo Cantiflas che lo dimostra, è uno fra molti ma io lo ammiro, ha creato un personaggio».
«Crede che ci siano bravi drammaturghi in Messico?»
«Io sì, credo che i messicani possano essere bravi attori di teatro. Certo, il teatro è anche un genere in crisi, con le nuove tecniche di comunicazione. Io, sì, credo che la nuova arte, la nuova letteratura dovrà usare le nuove tecnologie. Il primo è stato il cinema, ora dovremmo trovare il modo di usare la televisione».
Leñero aveva ragione, a Paz non importava nulla del teatro. Cantiflas è stato il massimo che è riuscito a dire.
Tanto che quella mattina si scordò de «La figlia di Rappaccini», opera scritta per il programma Poesía en voz alta della UNAM alla fine degli anni Cinquanta.
Un’ora di intervista più tardi, salutai i Paz e, quando si chiusero le porte dell’ascensore, dissi a voce alta: «Imbroglione!»
Ponce mi aspettava nell’ingresso del Drake, e corremmo alla stazione dei treni. Nel tragitto verso Washington ci siamo messi a sbobinare (era il nostro modo di dire “trascrivere”) l’intervista e quel venerdì, molto tardi, mandammo alla redazione di Proceso via fax l’articolo di Armando e la mia intervista.
Lunedì 15 ottobre 1990 la prima pagina di Proceso diceva: «Finalmente: Octavio Paz».
Per me la frase assunse un significato diverso.
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