Il 24 giugno 1911 nasceva Ernesto Sabato, uno dei più importanti scrittori argentini del ’900. Lo vogliamo ricordare oggi, nel giorno in cui avrebbe compiuto 108 anni, con le sue stesse parole, tratte da Prima della fine. Buona lettura!
traduzione di Raul Schenardi
Nel tempo ho accumulato molti dubbi, tristi dubbi sul contenuto di questa sorta di testamento che tante volte mi hanno suggerito di pubblicare; alla fine mi sono deciso a farlo. Mi dicono: «Ha il dovere di completarlo, i giovani sono disperati, angosciati e credono in lei, non può deluderli». Mi domando se merito quella fiducia, ho gravi difetti che loro ignorano; cerco di esprimerlo nella maniera più delicata per non ferirli, perché hanno bisogno di credere in qualcuno, in mezzo a questo caos, non solo in questo paese ma nel mondo intero. E la maniera più delicata è dirgli, come ho scritto tante volte, che non devono aspettarsi di trovare in questo libro le mie verità più raccapriccianti: quelle le troveranno solo nei miei romanzi, in quei sinistri balli in maschera che, proprio per questo, dicono o rivelano verità che non avrebbero il coraggio di confessare a volto scoperto. Anche i grandi carnevali d’altri tempi erano come un vomito collettivo, qualcosa di essenzialmente sano che metteva di nuovo nella condizione di sopportare la vita, sostenere il peso dell’esistenza; sono arrivato addirittura a pensare che se Dio esiste porta una maschera.
Sì, scrivo questo libro soprattutto per gli adolescenti e i giovani, ma anche per quelli che, come me, si avvicinano alla morte, e si domandano a che scopo e perché abbiamo vissuto e tollerato, sognato, scritto, dipinto o, semplicemente, impagliato sedie. E così, tra un rifiuto e l’altro di scrivere queste pagine finali, lo faccio nel momento in cui il mio io più profondo, il più misterioso e irrazionale, mi induce a farlo. Forse aiuteranno a scoprire un senso di trascendenza in questo mondo infestato di orrori, tradimenti e invidie, di abbandoni, torture e genocidi. Ma anche di cose che mi risollevano il morale come il canto degli uccelli all’alba, la mia vecchia gatta che viene ad accoccolarsi sulle ginocchia, o i colori dei fiori, a volte così piccoli che bisogna guardarli da molto vicino.
Umilissimi messaggi che la Divinità ci offre della sua esistenza. E non solo tramite le innocenti creature della natura, ma anche incarnandosi in eroi anonimi, come quel pover’uomo che durante l’incendio di una bidonville entrò tre volte in una baracca di lamiera dove erano rimasti imprigionati dei bambini – lasciati dai genitori per andare al lavoro – finché morì nell’ultimo tentativo. Mostrandoci che in questa vita non tutto è miserabile, sordido e sporco, e che quel povero individuo anonimo, al pari di quei fiorellini, è una prova dell’Assoluto.
[…]
Mi chiamo Ernesto perché quando nacqui, il 24 giugno 1911, il giorno della festa di san Giovanni Battista, era appena mancato l’altro Ernesto, che mia madre, anche nella vecchiaia, continuò a chiamare Ernestito perché morì quando era ancora un neonato. «Quel bambino non era fatto per questo mondo», diceva. Credo di non averla mai vista piangere – fu molto stoica e coraggiosa per tutta la vita – ma lo avrà sicuramente fatto quando era sola. E aveva novant’anni quando menzionò per l’ultima volta, con gli occhi umidi, il lontano Ernestito. La qual cosa dimostra che l’età, i dispiaceri e le delusioni, lungi dal favorire l’oblio come si è soliti credere, disgraziatamente rafforzano il ricordo. Quel nome, quella tomba, per me hanno sempre avuto qualcosa di notturno, e forse la causa delle tante difficoltà della mia esistenza è l’essere stato segnato da quella tragedia, dato che allora ero nel ventre di mia madre, e magari è da lì che ebbero origine i misteriosissimi timori provati da bambino, le allucinazioni in cui all’improvviso mi si avvicinava qualcuno con una torcia elettrica, un uomo al quale non potevo sfuggire, nemmeno se mi rifugiavo tremando sotto le coperte. O quell’altro incubo in cui mi sentivo solo sotto una volta celeste e rabbrividivo di fronte a qualcosa o a qualcuno – non posso dirlo con precisione – che mi ricordava vagamente mio padre. Soffrii per molto tempo di sonnambulismo. Mi alzavo nell’ultima stanza della casa dove dormivamo io e Arturo, il più piccolo dei miei fratelli, e senza mai inciampare né svegliarmi raggiungevo la camera da letto dei miei genitori, parlavo con la mamma e poi tornavo in camera mia. Mi coricavo senza sapere cosa fosse successo, senza averne la minima consapevolezza. E così, quando mia madre la mattina, tristemente – soffrì tanto per me! – mi diceva con un filo di voce: «Questa notte ti sei alzato e mi hai chiesto dell’acqua», io sentivo uno strano brivido. Il mio sonnambulismo la spaventava, me lo disse molti anni dopo, quando mi mandarono alle superiori di La Plata, e lei non era lì per proteggermi. Povera mamma, non capiva, e all’epoca nemmeno io, che quel disturbo derivava in gran parte dalle regole di vita spartane imposte da mio padre.
Il territorio della mia infanzia, come un paese devastato da forze sconosciute, era invaso dal terrore che lui mi incuteva. Piangevo di nascosto, dato che ci era proibito farlo, e la mamma, per sottrarmi alle sue esplosioni di violenza, correva a nascondermi. La disperazione con cui mia madre mi strinse a sé per proteggermi era tale che senza volerlo, perché il suo amore e la sua bontà erano illimitati, finì per isolarmi dal mondo. Una volta diventato un bambino solo e impaurito, osservavo dalla finestra il mondo di trottole e giochi a nascondino che mi era vietato.
In un certo senso sono rimasto il bambino solitario che si sentiva abbandonato, e per questo ho vissuto oppresso da un’angoscia simile a quella di Pessoa: «Sarò sempre quello che aspettava che gli aprissero la porta, accanto a una parete senza porta».
E così, in un modo o nell’altro, ho avuto bisogno di compassione e affetto.
Quando mi mandarono dal mio paese al Colegio Nacional di La Plata per fare le scuole superiori, nel momento in cui mi misero sul treno sentii franare il terreno malfermo su cui mi muovevo, ma che era destinato nel tempo a sprofondare ancora di più. Per un po’ continuai a sognare mia madre, che scorgevo fra le lacrime mentre mi allontanavo verso un’infinita solitudine. E quando la vita aveva già impresso sul mio viso i dispiaceri, quante volte sulla panchina di una piazza, triste e avvilito, ho sperato che un treno mi riportasse a casa.
© Ernesto Sabato, 1998. Tutti i diritti riservati.
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