Di letteratura, ironia e testimonianza: una chiacchierata tra Fabio Stassi e Juan Villoro, autore di C’è vita sulla Terra?
di Fabio Stassi
traduzione di Giulia Zavagna
Fabio Stassi: Come diceva il tuo amico Bolaño, leggere è davvero più scomodo che scrivere?
Juan Villoro: È più gratificante. Potrei smettere di scrivere, ma non di leggere.
FS: Secondo Kenzaburo Oe, «fare letteratura è immaginare un destino per ciò che scompare». Ho sempre creduto che si scriva per una necessità di riparazione. E che quindi la letteratura abbia a che fare congenitamente con il grande tema della giustizia o dell’ingiustizia.
JV: Sono d’accordo. Si ottiene letterariamente solo ciò che si è perduto. La poesia d’amore occidentale dipende da questa idea: il «possesso attraverso la perdita». L’amore non corrisposto produce lirica. E il concetto si estende alle città e alle società. Günter Grass diceva che l’evento più importante della sua vita era la perdita della città di Danzica, dov’era nato. La guerra e l’esilio lo sottolineano in modo drammatico, ma ci sono perdite più sottili. Quando sono nato, Città del Messico aveva quattro milioni di abitanti, oggi ne ha tra i diciotto e i venti milioni (il «margine di errore» è grande quanto una capitale europea). Senza essermi trasferito, vivo in un’altra città e la mia memoria si muove per una città anteriore.
FS: La prima cosa che ho letto di te è stato un articolo in cui per spiegare cos’è la crónica, questo genere che mischia finzione a reportage, usavi l’immagine dell’ornitorinco. La crónica è un genere ibrido, dici, che usa tutte le possibilità offerte dalla letteratura: il romanzo, il racconto breve, l’intervista, il dialogo, il teatro moderno e quello classico, la polifonia dei testi, l’autobiografia… la lezione sul punto di vista (Rashomon). È ancora quest’animale il simbolo che riassume meglio di ogni altro la prosa contemporanea?
JV: Lo scrittore messicano Alfonso Reyes disse che il saggio era il «centauro dei generi» perché aveva due personalità, l’argomentazione razionale e l’esposizione narrativa. La crónica merita una mascotte più complicata perché si serve di stratagemmi più vari (il racconto, la drammaturgia e l’intervista, la memoria, il reportage, ecc.). L’ornitorinco ha la particolarità che sembra avere caratteristiche di almeno cinque animali diversi. Alcuni dicono che è un castoro «disegnato da un gruppo di esperti». La cosa interessante è che assomiglia a questi cinque animali senza essere nessuno di loro. La crónica ha un’identità simile.
FS: Mi piace anche la definizione che dai dei tuoi pezzi raccolti in C’è vita sulla terra, apparsi da poco anche in Italia. Li chiami «articuentos», racconticoli. Ti muovi anche qui su un terreno ibrido e di sconfinamenti. Con una grazia piena di ironia…
JV: Si tratta di «racconti del reale», situazioni veritiere, proposte dalla vita stessa, che se guardate con attenzione diventano storie. A volte mescolo due aneddoti o modifico gli avvenimenti in modo che sembrino più narrativi, ma si tratta essenzialmente di situazioni reali. Nessuna di queste è drammatica o fa notizia; l’idea è proprio di recuperare i misteri del quotidiano. Sono contento che parli di ironia perché è il mezzo essenziale per riconciliarsi in modo critico con un contesto scomodo. Se si ambienta un guaio kafkiano all’interno di un ufficio, quello che si racconta resta assurdo ma almeno diventa divertente. L’ironia è il miglior rimedio contro la pesantezza del mondo.
FS: Il tuo collega Javier Cercas si è interrogato lo scorso anno sulla figura dell’impostore. Tu, con il tuo ultimo romanzo tradotto in Italia, sembri interrogarti sin dal titolo sulla figura del Testimone. Il testimone è stato una delle figure principali nello scorso secolo. Come lo ritrai, oggi? Mi interessa la tua riflessione sulla testimonianza.
JV: Mi intriga la figura del testimone. Da un punto di vista giuridico ci sono condizioni specifiche secondo le quali si possono fare dichiarazioni in un tribunale: non può essere un parente diretto degli implicati, se porta gli occhiali deve averli indossati anche nel momento dei fatti, non può esser stato ubriaco, non deve avere interessi personali nella faccenda, ecc. Tuttavia, è difficile stabilire condizioni equivalenti per il testimone morale degli eventi. Quando assistiamo a qualcosa mettiamo in gioco la nostra vita interiore, i nostri pregiudizi e complessi, quindi alteriamo quello che vediamo. Fino a che punto possiamo essere testimoni di quello che ci succede? È questo l’argomento centrale del Testimone. Il protagonista è un professore che ha vissuto per ventiquattro anni fuori dal Messico, a Parigi, sposato con un’italiana. Quando torna in patria è troppo lontano dalla sua realtà per essere un protagonista e diventa un testimone. Il che non significa che abbia una condotta passiva; al contrario, il testimone modifica quello che vede e influisce sugli eventi.
FS: Conosci Vittorini? Il testimone mi ha ricordato Conversazione in Sicilia. Un ritorno a casa. Per me, è una sorte di «Conversazione in Messico». Come nel libro di Vittorini, è descritto il ritorno nella sua terra di un personaggio, Julio Valdivieso, un professore e studioso di letteratura. Un uomo pieno di dubbi, che possiede le cose per perdita. Bella l’atmosfera, lo stile, bella la storia dell’amore perduto per la cugina Nieves, l’impianto riflessivo e contemporaneo.
JV: Ho letto Vittorini quando avevo circa vent’anni e mi ha sconvolto. Mi interessa la sua considerazione del ritorno come un rinnovamento della memoria. Il nostro destino si definisce grazie a quello che facciamo ma anche grazie a quello che smettiamo di fare. Siamo la persona che non si è sposata con quella fidanzata, che non ha frequentato quella facoltà, che non ha fatto quel viaggio. Queste opzioni cancellate sono importanti quanto quelle che realmente scegliamo. Tornando con la mente o nella realtà a scenari che appartengono al passato, non ci limitiamo a ricordare ma scopriamo il potere delle cose che non sono successe eppure ci hanno segnato in modo indelebile. È questo che succede a Valdivieso con il suo spettrale ritorno in Messico.
FS: Quando ti sei ammalato di letteratura? C’è stato un personaggio di romanzo decisivo nella tua infanzia. Il primo?
JV: A quindici anni, durante le vacanze prima di iniziare le superiori, ho letto il romanzo De perfil dello scrittore messicano José Agustín, che racconta di un adolescente di quindici anni, nelle vacanze prima di iniziare le superiori. È stata una lettura allo specchio, che mi ha rivelato che perfino io potevo far parte della letteratura. Quella circostanza fortuita mi ha trasformato in un lettore per volontà (fino ad allora lo ero solo per obblighi scolastici).
FS: Borges sosteneva che non dobbiamo chiederci cosa scrivere e come, ma che la vera domanda è come si sente? La letteratura è un affare di voci e di udito. Come suona? Alla fine è il nostro corpo a corpo con il linguaggio che non si esaurisce mai. Tu come lavori, con le parole? Hai una posizione antagonista rispetto al linguaggio?
JV: Sarebbe impossibile scrivere in un linguaggio privato, inventato da una sola persona. Tuttavia, la grande letteratura è l’illusione di un linguaggio privato. Capisci quello che dice, eppure è detto in un modo unico. Una pagina di Borges, Gadda, Calvino o Nabokov ha un’impronta particolare, attribuibile solo al loro modo di respirare il linguaggio. Questo è il tipo di linguaggio che mi interessa di più. Il paradosso è che per me l’unica prova che qualcosa che ho scritto funziona è che, di colpo, mi sembra scritto da qualcun altro. Quell’autonomia gli dà una vita particolare. Arriviamo, quindi, a un’essenziale contraddizione: la grande letteratura stabilisce un patto con un linguaggio unico, ma tale linguaggio non è individuale; è il prodotto di una cultura che sorprende lo stesso scrittore. Il paradosso dell’originalità è questo: ciò che è più creativo è allo stesso tempo irripetibile e condivisibile.
FS: Dire «questa frase è falsa» è un paradosso per Democrito. Credi anche tu che in letteratura si abbia licenza di mentire, che solo attraverso la menzogna, ci si possa avvicinare alla verità?
JV: Non credo che la bugia sia l’opposto della verità. La fiction fa parte della realtà, al punto che il Chisciotte è più vero di Cervantes e di molti nostri vicini. L’opposizione tra testimonianza e fiction è piuttosto l’opposizione tra ciò che è verificabile e ciò che non lo è, ma entrambi i modi di narrare il mondo appartengono in ugual misura alla realtà, la questione decisiva è sapere quando si è di fronte a una fantasia e quando a un ricordo.
FS: Hai conosciuto grandi bugiardi, che non sapevano di fare letteratura con i loro racconti?
JV: Certo che sì. Ho scritto un libro di racconti, I colpevoli (pubblicato da CUEC, una casa editrice sarda) che parte proprio da questo principio. Ogni racconto è narrato in prima persona da un narratore che non è uno scrittore professionista. I personaggi agiscono guidati dal desiderio di confessarsi, di giustificarsi, di comprendere qualcosa che li tormenta. Non sanno che stanno raccontando «storie» eppure, guidati da un’urgenza interiore, creano racconti accidentali e diventano così colpevoli di letteratura.
FS: Come è cambiata, al tuo sguardo, la letteratura sudamericana?
JV: È difficile riassumere un continente in una frase. Diciamo che è diventata una letteratura molteplice, con meno riferimenti alla proprio condizione tellurica e alla propria specificità latinoamericana. Il testimone indaga il senso di appartenenza, ma lo concepisce come un problema, una confusione, non come una certezza folklorica. Quando Ulisse torna a Itaca, nessuno lo riconosce. La cosa più grave è che nemmeno lui si riconosce, ed è questo il senso dell’identità: una bussola senza nord.
FS: Ti sei mai sentito lacerato, per avere dato il primato alla letteratura e non alla vita; hai mai pensato di avere avuto più esperienze letterarie che reali?
JV: Questa tensione è presente in tutti gli scrittori. Augusto Monterroso, che è stato mio maestro in un laboratorio di scrittura breve, diceva: «I libri si fanno con le persone, non con i libri». Allo stesso tempo, ci insegnava a adorare certi libri. Leggere e scrivere sono una parte intensa della vita. D’altra parte, certe avventure non necessariamente producono narrazioni. A diciannove anni ho lavorato su due navi da carico. Ho pensato che quell’esperienza mi avrebbe donato aneddoti alla Joseph Conrad e, in effetti, ho vissuto situazioni singolari, ma non ho mai toccato l’argomento nei miei scritti. In quel caso era tutta vita e niente letteratura.
FS: Ogni racconto apre un’indagine. Per me non c’è giallo più interessante che interrogarsi sul senso di un racconto, come Wakefield o Bartleby. Non è molto meglio di un delitto?
JV: Scrivere è un modo di investigare. C’è un parallelismo tra il compito del detective e quello del narratore, che cercano tracce disperse nel caos degli eventi. Piglia ci aggiunge la condizione paranoica, che permette di supporre cose che non necessariamente sono avvenute ma che potrebbero succedere. Nel Testimone c’è qualcosa del genere. Il personaggio è, in fasi successive, investigatore, vittima e colpevole dei fatti. Questa struttura detectivesca ha a che vedere più con Sofocle che con il romanzo giallo: Edipo è un investigatore, vittima e colpevole della propria storia.
FS: Il protagonista della tua Conferenza sulla pioggia è un bibliotecario.
JV: Sì, come te. Lui mette in ordine i libri e i libri mettono in disordine la sua vita. È una riflessione su come ci relazioniamo con gli altri attraverso la lettura. La trama comincia con un personaggio che vuole tenere una conferenza sulla feconda relazione tra la pioggia e la poesia amorosa, ma cade nel vortice in cui rischia di cadere ogni conferenziere, si distrae, cambia argomento, e passa dalla dissertazione alla confessione.
FS: Kapuściński diceva che per scrivere bisogna essere degli uomini buoni. Lo credi anche tu?
JV: È senz’altro vero per la crónica, genere del quale Kapuściński era un maestro. In quel caso non puoi falsificare i fatti e devi capire che sono gli altri ad avere ragione. Non puoi imporre arbitrariamente un senso al mondo. D’altra parte, per far sì che gli informatori parlino con te devi essere in grado di instaurare una certa empatia. Invece, uno scrittore di fiction può essere una pessima persona. Abbondano i casi di individui sgradevoli che hanno scritto cose sublimi. Nabokov diceva: «I miei personaggi tremano quando mi avvicino». Il romanziere può essere un tiranno della sua opera; il cronista, invece, è a servizio degli altri.
FS: Si fa un gran dire che la letteratura non deve consolare, tanto che questo è diventato un luogo comune. Eppure non pensi quanto umano sia l’esercizio del conforto? E che consolare, in fondo, vuol dire comprendere, essere solidale, dalla stessa parte?
JV: Vivo in Messico, un paese in cui i giornalisti vengono assassinati, dove sono morte quasi 200.000 persone negli ultimi nove anni, dove le madri cercano i propri figli desaparecidos nelle fosse comuni. In questo contesto, niente rappresenta una scelta radicale come sentirsi bene. La letteratura è una forma di resistenza anche nella misura in cui, anche in mezzo all’orrore, concepisce la speranza, la sensualità e l’umore. La realtà non cambia in modo immediato grazie a questo, ma è importante che, in mezzo all’inferno, ci sia qualcuno che osa immaginare il paradiso.
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