Pubblichiamo oggi un intervento di Massimo Rizzante su Ernesto Sabato. L’articolo era già comparso su Nazione Indiana, ringraziamo l’autore per la concessione.
di Massimo Rizzante
Ricordo la prima volta che incontrai Ernesto Sabato, l’autore della trilogia romanzesca composta da Il tunnel (1948), Sopra eroi e tombe (1961) e L’angelo dell’abisso (Abaddón el exterminador, 1974).
Un giorno di settembre di dieci anni fa in una città del sud della Spagna procedevo sbuffando per l’opprimente calura. Ero uscito dall’albergo in anticipo su un appuntamento e gettavo distrattamente lo sguardo sulle bellezze del luogo. Fu così che, seguendo con la coda dell’occhio uno di quei superbi idilli mancati, franai su un vecchio signore. Il mio imbarazzo crebbe quando mi accorsi che portava un paio di occhiali spessi e scuri, e che cercava allungando a tentoni le mani sul marciapiedi il suo bastone.
Era cieco! Immediatamente raccolsi il bastone e glielo porsi.
Quando si fu rialzato e riassettato furiosamente la giacca, il vecchio ripartì senza dire una parola, come se avesse fatto il callo a quel genere di imprevisti, come se quegli incidenti fossero consustanziali alle sue passeggiate pomeridiane.
L’ora del mio appuntamento era ancora lontana. Entrai in una libreria.
Non mi ero ancora ripreso dalla collisione di qualche minuto prima, quando la coda dell’occhio si posò questa volta su un libretto di un centinaio di pagine intitolato Informe sobre ciegos (Rapporto sui ciechi) di Ernesto Sabato, romanziere e saggista argentino, nato nel 1911 a Rojas, provincia di Buenos Aires, come lessi sul risvolto di copertina (qualche tempo dopo scoprii che il Rapporto non era altro che il terzo capitolo del secondo romanzo dell’autore, Sopra eroi e tombe).
Ci vuole una quantità insospettabile di circostanze casuali per entrare in possesso di una chiave con la quale aprire il codice della nostra esistenza. Ce ne vuole una quantità altrettanto considerevole per penetrare nel mondo segreto di un artista. Quel giorno l’appuntamento con l’amico spagnolo saltò. Non riuscii a raggiungere in tempo il luogo prefissato per l’incontro, una rivendita di pesce fritto. Là, in ogni caso, cominciò il mio rapporto con Ernesto Sabato.
Essere fedeli alla condizione umana
Dopo quell’appuntamento inatteso in Spagna, i miei incontri con Sabato sono diventati puntuali e frequenti. Oltre ai romanzi, ho scoperto la sua opera saggistica, poco conosciuta e poco tradotta in Europa, e oggi spesso snobbata anche in America Latina.
Leggendola mi sono detto: Sabato scrive come se dovesse essere letto fra diecimila anni! Un’altra idea, subito dopo, mi è balenata nella mente: Sabato è uno degli ultimi umanisti, un umanista in lotta contro la crisi dell’uomo concreto e universale.
Nel saggio intitolato El desconocido de Vinci (raccolto in Apologías y rechazos, 1979) c’è questo passaggio:
«Ciò che è specifico dell’essere umano non è lo spirito ma quella lacerata regione intermedia chiamata anima, regione in cui accade tutto ciò che di grave e di importante appartiene all’esistenza: l’amore e l’odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno; nulla di tutto questo è puro spirito, quanto piuttosto un violento miscuglio di idee e sangue. Ansiosamente duale, l’anima soffre tra la carne e lo spirito, dominata dalle passioni del corpo mortale, ma aspirando all’eternità dello spirito. L’arte (cioè la poesia) sorge da questo confuso territorio e a causa della sua stessa confusione: Dio non ha bisogno dell’arte.»
Quest’ultima frase (di cui esiste una variante in un saggio del 1963, Lo scrittore e i suoi fantasmi: «Dio non scrive romanzi») è giustamente famosa perché è il vero emblema di tutta l’opera di Sabato, dei romanzi e dei saggi, della sua parte notturna come di quella diurna, un emblema che è un lungo elogio all’imperfezione dell’uomo. Sia che scriva su Leonardo da Vinci, Borges, i problemi dell’educazione dei nostri tempi o che inventi personaggi come Castel, Alejandra, Martín, Sabato non perde mai di vista quell’essere «ansiosamente duale» che egli, come qualsiasi altro uomo, é. Sabato sa bene che la vera patria dell’uomo è quella «regione chiamata anima», in cui si mescolano senza soluzione di continuità «le idee» e «il sangue». Ma egli sa anche che l’uomo ha abbandonato progressivamente questa regione intermedia e che grazie alla sua ansia di perfezionamento ha razionalizzato a tal punto il mondo da renderlo disumano.
L’ultimo umanista
Tuttavia il pensiero di Ernesto Sabato non è né tragico né nichilistico. Proprio in virtù del nostro status ontologico di esseri finiti, di esseri carnali e spirituali, possiamo costruire ponti sopra gli abissi delle nostre coscienze, partecipando così agli eventi del passato e del presente. Possiamo sempre aprire una finestra sulla nostra solitudine, sugli altri, su quelli che ci hanno preceduto nel tempo come su quelli che non appartengono alla nostra geografia. Per il fatto che è nutrita da una riflessione ontologica sull’uomo, l’opera di Sabato è refrattaria a ogni «astratta complessità», a ogni bizantinismo.
Sabato demistifica il gigantesco paradosso secondo il quale un movimento chiamato Umanesimo ha prodotto, alla fine, una totale disumanizzazione delle forme e, al contempo, cerca di preservare a qualsiasi costo l’insondabile capacità onirica dell’uomo, la sua cecità produttiva. Egli demistifica il mondo della tecnica e cerca di proteggere e difendere l’individuo, essere concreto e confuso, sospeso tra l’ansia di perfezione e i suoi istinti.
Per questo Sabato è uno degli ultimi umanisti: perché demistifica la realtà senza demitificarla.
Demistificare senza demitificare la realtà significa restare fedele all’imperfezione ontologica della condizione umana.
Il romanzo è la patria dell’uomo
Ma come può l’uomo oggi raggiungere attraverso la sua parte intelligibile e le sue passioni, in un modo insieme intelligibile e appassionato, la propria imperfezione? La risposta dell’autore è di quelle senza appello: attraverso l’arte, e in particolare l’arte del romanzo.
Tradire è volgere lo sguardo verso un punto ignoto, che ci attira proprio perché ignoto. Così Sabato, dopo aver attraversato con devozione assoluta la cittadella delle scienze matematiche e fisiche, ha abbandonato le sue aspirazioni alla purezza, alla chiarezza e all’ordine geometrico, approdando su un altro territorio, incerto e pericoloso: quello dove le congetture non precedono mai le azioni e in cui le azioni, molto spesso, non sono frutto di congetture: il territorio del romanzo.
Per Sabato, questa regione intermedia in cui si mescolano senza soluzione di continuità «le idee» e «il sangue», questa «regione chiamata anima», ontologicamente ambigua, impura e propria dell’individuo finito, concreto e confuso, coincide con il territorio esplorato dal romanzo. Coincide, non confina. Per questo Sabato può dire che «il romanzo è la patria dell’uomo». Il romanzo, infatti, è il luogo in cui l’uomo, in esilio sulla Terra e lontano dagli dei di Hölderlin, diventa amico dell’uomo, e impara a essere fedele alla sua imperfetta condizione.
Che cosa significa spiegare?
Ricordo che mentre leggevo Sabato durante quel pomeriggio assolato di dieci anni fa nel sud della Spagna mi soffermai su un passaggio e mi chiesi: che cosa significa spiegare?
La risposta, probabilmente influenzata dalla recente lettura, fu: spiegare significa stabilire una rigorosa catena causale che si trasforma alla fine in un nodo scorsoio che si stringe attorno al collo.
Leggere Sabato è per me una questione di igiene mentale: per non morire soffocato dalla spiegazione diurna del mondo, per non abbandonare l’insondabile cecità dell’uomo.
© Massimo Rizzante, 2011. Tutti i diritti riservati.
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