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«Il treno», un brano di Antonio Ortuño

Antonio Ortuño Autori, Società, SUR

Ogni anno sono migliaia i migranti centroamericani che intraprendono un viaggio estenuante, e molto pericoloso, per oltrepassare la frontiera Nord e cercare fortuna negli Stati Uniti. Quelli che raggiungono la meta sono pochissimi, e per farlo sono costretti a scendere a patti con le autorità locali e le gang di zona.
Antonio Ortuño nel suo romanzo La fila indiana si immagina una città di confine, Santa Rita, e ci racconta la storia di due donne: Irma, una funzionaria della Commissione Migrazione chiamata a gestire l’emergenza migranti; e Yein una giovane del Salvador che ha dovuto affrontare moltissimi pericoli durante il suo viaggio. Eccone un assaggio. 

di Antonio Ortuño
traduzione di Silvia Sichel

Nessuno le chiese da dove venisse, benché il modulo da compilare includesse uno spazio apposito per il luogo d’origine. Ma gli impiegati della Conami avevano pensato che certe domande fossero di cattivo gusto finché i sopravvissuti non si fossero rimessi dalle ustioni. Nemmeno la sua data di nascita era chiara ma sulla scheda le diedero una ventina d’anni. Ne aveva ventidue. Veniva dal Salvador. Era nata in una cittadina di porto chiamata Acajutla, piccola, scalcinata. Non aveva conosciuto la madre. Non aveva fratelli

Suo padre, un uomo silenzioso con i capelli corvini, aveva fatto l’imballatore di caffè fino al giorno della morte, avvenuta cinque anni prima. Il marito si chiamava Luis ed era un elettricista disoccupato intenzionato ad andare in cerca di fortuna nella terra dei gringos. L’aveva mantenuta da quando era rimasta orfana ma la mancanza di lavoro li aveva costretti a sgomberare le stanze in affitto dove dormivano; si erano ritrovati a vivere sulla spiaggia, al confine tra due piantagioni di caffè, in una baracca di legno. I loro effetti personali: un paio di radioline portatili, qualche cambio di biancheria, utensili, pentole.

Luis era terrorizzato dalle bande criminali della zona. Nemmeno al negozio a prendersi una birra andava, anche se era riuscito a racimolare i soldi per farlo. Temeva che riuscissero a vedere il suo unico tatuaggio, un’ancora scolorita che si era fatto incidere sulla spalla quando aveva cominciato a lavorare sulle banchine. Ai banditi non piaceva la gente del porto.

L’ultimo lavoro lo aveva trovato in un magazzino. Ci tenevano attrezzature e fili elettrici e aveva una porta senza lucchetto che si poteva sfondare con un calcio. Yein faceva ogni tanto la donna delle pulizie nella zona degli alberghi. Aspettava. Luis trovò un cliente interessato a comprare tutto quello che poteva portar via dal magazzino. Poi, per tre giorni alla settimana si fece vedere nei posti dove si ritrovavano le bande, strizza al culo, tatuaggio coperto. A un tipo affabile, vecchio stampo, raccontò che volevano andare in California, chiese di metterlo in contatto con qualcuno che li portasse dall’altra parte del confine. Ci azzeccò. Il fratello dell’uomo faceva proprio quello: un ciccione con la schiena tatuata, braccia grosse come due putrelle, baffetti curati da cantante melodico. Gli chiesero il doppio di quello che pensava di ottenere per il saccheggio del magazzino. Accettò senza discutere.

Ordinò a Yein di fare i bagagli (qualche vestito, niente pentole). Decisero di non pagare l’ultimo affitto per avere in tasca un po’ di soldi. Dovette rubare alcuni mobili per avere più merce a disposizione e trattare con il cliente per ore perché chiedeva uno sconto per l’acquisto in blocco.

Con un rottame di macchina raggiunsero la stazione ferroviaria, dove non si fermarono. Li radunarono insieme ad altri, pezzenti e disperati quanto loro, qualche chilometro più in là, in una curva nascosta dagli arbusti. Il treno si fermò lì, come se li aspettasse. Li fecero salire su un vagone. «Questa è la prima classe, amico. Peggio stare sopra», disse il ciccione prima di chiudere di colpo la porta di lamiera ondulata.

Altri uomini tatuati li facevano salire, scendere, trasbordare. Dovettero viaggiare aggrappati alle scalette o stesi sul tetto dei vagoni con gli altri poveracci. Al confine con il Messico, quelli di «prima» vennero rimessi in un vagone da soli. Cento persone dove avrebbero dovuto viaggiare in quaranta. Avanzarono lentamente, c’erano centinaia di stazioni e in tutte qualcuno metteva dentro la testa. Non più uomini tatuati ma facce patibolari, scure, da poliziotto, armati di radio in cui urlavano messaggi. Gli davano acqua (ma anche no), cibo andato a male (o niente), a volte li picchiavano, se qualcuno protestava o non abbassava lo sguardo lo prendevano di mira e lo portavano via.

Il secondo giorno, cominciarono a volere le loro donne. Sposate, sole, vecchie o bambine furono condotte dentro un canale o in una guardiola e violentate. Anche Yein. Suo marito non osò nemmeno alzare lo sguardo dalle scarpe quando la fecero scendere.

Faceva buio. La trascinarono in un container di lamiera. C’era puzza di paglia, fango e sperma. Nessuno dei tizi la toccò. Le abbassarono i pantaloni e fecero entrare un ragazzo. Poco più di un bambino. Poteva avere tredici come diciassette anni. Un uomo malaticcio, forse suo padre, diede una banconota ai carcerieri. Si mise in un angolo. Leggeva una rivista, il tizio al suo fianco, il fucile appoggiato alla parete. Il ragazzo era piccolino, imberbe. Aveva i peli solo sul ventre. Venne ancor prima di penetrarla. Le schizzò addosso. La costrinsero a leccarglielo. La faccia del ragazzino era indescrivibile. La bocca ansimava con una smorfia che poteva significare qualsiasi cosa. Tutte le cose.

Aspettarono che si rivestisse, la caricarono di nuovo sul treno. Luis non la guardò. Le tese la bottiglia d’acqua. Due ore dopo, Yein gli sputò in faccia. Lui non fece nemmeno il gesto di pulirsi. La saliva gli colò lungo il naso, cadde per terra.

Stava sorgendo il sole.

© Antonio Ortuño, 2013. Tutti i diritti riservati.

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