Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’intervista a Tomás Eloy Martínez, autore di Santa Evita, appena uscito per le edizioni Sur.
“Romanzo significa licenza di mentire” – Intervista con Tomás Eloy Martínez / 2
di Juan Pablo Neyret
traduzione di Dajana Morelli
Romanzo e reportage
– Farò un po’ l’avvocato del diavolo…
-Sì, certo. È così che bisogna domandare.
– Allora, perché crede che l’abbiano chiamata “il romanziere del peronismo”? Solo per i temi scelti?
– Be’, sì.
– Non è poco?
– Santa Evita e Il romanzo di Perón sono romanzi “pesanti”, dal punto di vista della dimensione e della ripercussione che hanno avuto. Ma, curiosamente, sono due romanzi fatti da qualcuno a cui il peronismo delle origini sembrava uno sbocco politico necessario per l’Argentina, una rottura con il passato che si sarebbe fatalmente prodotta, ma che è stata prodotta da Perón, e questo è il suo merito. Ciò nonostante, in quanto a ideologia, non ho niente a che vedere con il peronismo. Non credo si possa dire che Il romanzo di Perón sia un romanzo peronista. Io non lo direi, ma se a qualche autore viene in mente di dirlo non glielo impedirò, perché il romanzo appartiene al lettore. E non mi sembra nemmeno che Santa Evita lo sia. Al contrario, entrambi i testi mi hanno procurato rimproveri dal peronismo in generale.
-Ci sono effetti di ricezione che fanno sì che si continui a considerare Santa Evita un testo giornalistico, come se fosse il romanzo di non-finzione sul cadavere di Evita che Rodolfo Walsh non ha voluto scrivere – lui ha scelto la finzione, e chiariamo anche sin da ora che Santa Evita non può essere considerato un romanzo di non-finzione. È stato anche classificato come un ampliamento del racconto “Esa mujer”, sempre di Walsh. Inoltre, su El Universal di Caracas, il 18 luglio 1996, un giornalista anonimo, chiaramente non un suo simpatizzante, ha pubblicato un articolo dal titolo “Questo cadavere è un reportage” dove diceva: “Gli editori hanno classificato Santa Evita come un romanzo, con il più grande cinismo di cui si è mai avuto notizia in campo letterario […] Non è un romanzo, è un reportage, in cui le interviste ai testimoni vengono dissimulate con trucchi della migliore specie, e le testimonianze sono state ammassate o distillate”.
-Questo è ingiusto verso gli editori, perché, in realtà, chi ha classificato Santa Evita come romanzo sono stato io. Gli editori non hanno colpa, cosicché non facciamo ricadere su di loro questo tipo di affronto, che è completamente mio. Che “sia un reportage”… Bene, non è un reportage, usa le tecniche del reportage. Nemmeno uno dei reportage che compaiono è vero; né quello del parrucchiere, né quello di Mario Pugliese Cariño, né nessuno di quelli delle visite. Che cosa succede? Ho fatto una ricerca sugli episodi, soprattutto su quelli che io chiamo solchi ciechi della vita di Eva Perón, gli episodi non conosciuti, gli episodi oscuri della storia. Il più clamoroso di tutti, mai delucidato da nessuno storico, è, precisamente, la concentrazione del 22 agosto 1951, quando sulla avenida 9 de Julio viene collocato un immenso cartellone sopra il palco che dà sul Ministero delle Opere Pubbliche che dice “Perón-Perón. La formula del popolo.” In un momento di apogeo del peronismo non potevi mettere nulla di questo tipo senza il consenso, per lo meno, di Perón, e, d’altra parte, di Eva. Vengono invitate un milione e mezzo di persone, la metà di questa gente credo che venga dall’entroterra del paese, gli viene pagato il biglietto, il pullman, il cibo. Solo il governo poteva accettare tutto ciò. Eva Perón non compare per circa un’ora, dall’inizio della cerimonia fino alla fine. Perón sul palco è impaziente. Il popolo inizia a gridare “Evita! Evita!”, cosa che finisce per essere offensiva nei confronti di Perón. È un fatto storico che Perón dica “Interrompete questa cerimonia”, questo è vero. Eva compare d’improvviso. Dove era prima? Da dove arriva? Come arriva fin lì? Chi la porta? E perché dice di no quando tutto è preparato affinché dica di sì? Che cosa la spinge a cambiare la direzione del vento in quel momento?
Ho cercato una risposta in tutti gli storici, dalla più seria come Marysa Navarro, ma nessuno spiega quel momento. Allora, approfittando di quel solco cieco, invento un testimone. Scelgo il parrucchiere, perché era molto probabile che Eva, che era enormemente vanitosa, si stesse sistemando i capelli e mettendo lo smalto sulle unghie mentre aspettava che si parlasse, perché stava cercando di ammorbidire Perón. Questa è la mia idea, la mia congettura. Allora scrivo una scena congetturale, con il permesso del parrucchiere, Julio Alcaraz, un permesso firmato di fronte al notaio per poter usare il suo nome. E prima di pubblicare il romanzo, gli mostro ciò che ho scritto su di lui, e mi dice con massima modestia: “Io non so dire cose così intelligenti”. (Sorride) L’invenzione è totale. Non c’è una sola riga di verità lì, e solo io so che è vero, voglio dire, che è falso. Ma c’è una nota di verità perché la tecnica giornalistica le attribuisce una verosimiglianza incontestabile. Basta che tu lo dica, e soprattutto se chi lo enuncia è una persona di certa presenza, o con un certo nome, nel giornalismo argentino e dice “Io sono stato qui, ho visto, ho fatto, ho conosciuto questo aspetto della realtà o quell’altro”, perché, ovviamente, chiunque lo prenda per vero. E in questa trappola è caduto anche il critico di El Universal che stai citando. Santa Evita ha una deliberata struttura di testo giornalistico. Così come, per esempio, Soldi bruciati, di Piglia, ha una deliberata struttura di linguaggio giornalistico convenzionale. Nel suo caso cerca di mimetizzare il linguaggio dei quotidiani in molte parti, con una prosa deliberatamente povera.
Sarebbe sbagliato dire “Piglia scrive peggio adesso di prima” perché quella prosa è deliberatamente povera, una prosa fatta con i residui del linguaggio, e la forza del romanzo sta in questo. Ed è anche un testo apparentemente giornalistico, perché è basato su una cronaca giornalistica, ed è narrato come una cronaca giornalistica. Si è basato su una storia vera. Soldi bruciati è un romanzo storico o no? Perché non sarebbe un romanzo storico, vediamo? È basato su un fatto giornalistico vero ed è narrato come se fosse un testo giornalistico. Come lo chiami questo? Che classificazione imporre a questo tipo di effetto?
–Dovremmo cercarne una…
– In Santa Evita si tratta di cercare un effetto di veridicità, non più di verosimiglianza, un effetto di verità. È una specie di gioco con il lettore, perpetuo. Lancio un’esca di finzione nella speranza che il lettore la riceva come verità. Ed ecco che si pone un problema etico, la cui soluzione è scrivere Romanzo sulla copertina, che è una dichiarazione di menzogna, di bugia. La parola Romanzo sulla copertina, che il giornalista di El Universal mette in discussione, è semplicemente una difesa etica: “Signori, non ci credete, non credete all’autore, questo è un romanzo, quindi, è un atto di menzogna”. Lui è caduto nella trappola in un altro modo, ha interpretato come veri fatti che sono falsi, ovviamente senza conoscerli.
– Sembra che Santa Evita finirà per essere la cristallizzazione di quanto si è scritto su Eva Perón, addirittura a partire da “Il simulacro” di Borges…
– Che viene anche nominato…
– E che cosa può succedere tra centocinquanta anni con l’immagine di Evita? Perché in un paese in cui l’immagine di Facundo è quella di Sarmiento, è assai probabile che, se non cambiano le coordinate di lettura, o di visione della realtà, l’Evita che rimarrà sarà quella di Tomás Eloy Martínez.
– Non aspiro a tanto. Invece avevo questa aspirazione nel caso di Perón. E, se ci pensi, qui peccherò assolutamente di immodesto: Il romanzo di Perón ha cambiato in buona misura l’immagine che lo stesso peronismo aveva di Perón. Adesso Perón è visto più come il Perón del Romanzo di Perón piuttosto che il Perón delle Memorie dettate da lui stesso. Be’, anche Perón ha dei meriti per questo, ci ha lasciato l’eredità di Isabelita [María Estela Martínez] e di José López Rega… Ma nel caso di Evita non credo che questa sia l’immagine, perché la figura dominante del mio romanzo è il cadavere. Persino il filo conduttore è la storia dei solchi ciechi, che sono tre o quattro: l’incontro con Agustín Magaldi; i sette o otto mesi nei quali Evita scompare di scena nel 1943, in cui non si sa nulla di lei e che il romanzo cerca di delucidare attraverso le informazioni di Kaufman; il famoso episodio della rinuncia, e un episodio di molto più remoto, quello dell’infanzia, quando va a trovare il padre morto. Sono tutte ricostruzioni, in questo caso, e congetturali, ovviamente. Sono congetture sulla storia, diciamo. Per questo insisto…
Uno dei primi lettori di Santa Evita, quando era ancora un manoscritto, è stato Gabriel García Márquez. Per tutta una mattina abbiamo smontato il testo come se fosse un meccanismo di orologeria. García Márquez pensava che non ci fosse un solo romanzo, ma tre: il racconto dei solchi ciechi, il racconto del cadavere e il racconto del narratore che racconta come aveva scritto quelle storie. Inoltre, gli sembrava che il terzo capitolo includesse una considerevole dose di poesia. Pensandoci bene: El Universal di Caracas accetterebbe, in una delle sue cronache, paragrafi come “le anime hanno forza di volontà propria: sono disgustate dalla velocità, l’aria libera, l’ansia”? O quest’altra: “Contro la fugacità, la lettera; contro la morte, il racconto”? O forse “Se questa storia assomiglia alle ali di una farfalla [..] dovrà anche assomigliarmi, ai resti di mito che ho mano a mano cacciato nel cammino, alla me che era Lei…”? Eccetera. Il cronista anonimo al quale hai alluso scrive sui giornali, ma non ha la benché minima idea delle linee di divisione esistenti tra giornalismo e letteratura. E per quanto riguarda il romanzo storico, c’è un professore americano, Seymour Menton, credo, che ha dato una definizione quasi paleontologica del romanzo storico, fissando persino il numero di anni che permettono di considerare un romanzo come storico o non storico. Lui esclude Il romanzo di Perón da questa serie, fortunatamente, perché reputa che non siano passati abbastanza anni. Ma, diresti che La festa del caprone, di Mario Vargas Llosa è un romanzo storico, per esempio? O sono meditazioni, ricreazioni o invenzioni sul telaio della storia? Anche nel romanzo di Vargas Llosa c’è un essere vivo, Joaquín Balaguer, che è appena morto.
Borges e il best seller
-Rispetto alla relazione tra storia e verità, ci sono frasi del suo discorso che si possono relazionare ad altre di Borges. Per esempio, rispetto ad Evita, “Smise di essere ciò che disse e ciò che fece per diventare ciò che si dice che disse e ciò che si dice che fece”. In “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, Borges dice che la storia “non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne.”
-Allo stesso modo, si può dire che le memorie di un uomo non sono le memorie di ciò che fece, ma di ciò che lui ricorda. Senza dubbio, siccome ho letto bene Borges, quella frase può essere rimasta nel mio inconscio, come molte altre frasi di Borges, e, quindi, processata e distillata, è diventata un’altra cosa in Santa Evita. Ma non credo di aver pensato a Borges quando ho scritto quella frase.
–Non lo dico per questo. Ma, forse, Borges è permanentemente presente.
-Beh, Borges è presente in tutti noi. Ho promesso di mandarti un testo su Borges e il lascito nella letteratura argentina. Borges dedica la prima parte di quella conferenza [“Lo scrittore argentino e la tradizione”, del 1951, pubblicata su Sur nel 1955] a sottolineare il suo ripudio del nazionalismo, che ha a che vedere con il suo ripudio del peronismo, e nella seconda parte cerca di dare una definizione di che cosa significa essere argentino e, inoltre, che cosa significa essere un intellettuale argentino. In questo caso, dice che il pudore e la riservatezza sono le forme di espressione classiche dell’argentino. E consistono, soprattutto, in quello che lui vuole fare della sua letteratura. Lui vuole fare una letteratura distante, priva di qualsiasi effetto sentimentale, “effettucci”, come dice bene. E inorridisce, per esempio, quando gli segnalano che “Il rimorso” è una poesia sentimentale. Detesta la parte sentimentale del tango, ma quando lo ascolta piange anche. Allora, c’è una contraddizione. Molta letteratura argentina, durante gli anni ’60 e ’70, lo prende alla lettera e crea una letteratura priva di qualsiasi sentimento. E la letteratura argentina per molto tempo è questo. Lo sono i romanzi di Sergio Chejfec, quelli di Marcelo Cohen. I romanzi di molta gente giovane sono una letteratura in cui l’aspetto sentimentale è malvisto. Lo sono i romanzi di Saer, anche di César Aira. Non ti direi la stessa cosa di quelli di Piglia, né di quelli di Manuel Puig, per esempio, nei quali c’è sì un’espressione di sentimenti, soprattutto in Soldi bruciati, non tanto in Respirazione artificiale…
Ma questo è un lascito che colpisce tutta la letteratura argentina, così come lo strutturalismo colpisce e prosciuga tutto il romanzo francese. Tanta secchezza fa quasi scomparire il romanzo francese. Ci sono assai pochi esempi di grande romanzo francese dopo gli anni ’50, perché il lascito strutturalista antireferenziale è molto potente. Lo stesso accade con la letteratura argentina, è un lascito enormemente potente quello di Borges, un lascito che si merita: fino a qui arriva la letteratura, il resto è un’altra cosa. Io credo che il romanzo sia il genere della libertà, e in questo senso qualsiasi confusione generica è possibile, qualsiasi elemento bastardo, marginale della realtà è introducibile nel romanzo. E quando stabilisco una distinzione tra giornalismo e letteratura, credo che il giornalismo abbia tre lealtà e la letteratura solo una, ecco la maggiore differenza. Il giornalismo ha sempre presente il ricettore; e se non lo ha presente, è finito, perché il ricettore è il destinatario. Questa è una prima condizione: chi è il mio lettore. Ciò condiziona il linguaggio che utilizzerò: utilizzerò questo linguaggio perché ho questo ricettore. Puoi creare un recettore su misura per il tuo linguaggio, è possibile, Borges lo fa; la critica, per esempio. Quando Borges fa giornalismo, fa questo: creare un ricettore. Si torna a fare lo stesso sulla rivista Primera Plana. La seconda fedeltà del giornalista è una lealtà verso ciò che lui capisce in buona fede che è la verità, ovvero, la realtà. Una narrazione, con dati oggettivi, di ciò che suppone sia la verità. Ciò nonostante, ci sono sempre manipolazioni possibili della verità: mettendo un fatto al di sopra di un altro, intitolando in un modo invece che in un altro. La verità è sempre, fatalmente, relativa. E la terza fedeltà è verso la sua coscienza, la sua scrittura e, soprattutto, il suo nome. Poiché, siccome l’unico patrimonio reale che possiede un giornalista è il suo nome, la difesa del suo nome è condizionata da ciò che fa.
Ma, invece, l’unica fedeltà del romanziere è verso se stesso, verso la sua stessa libertà. Perché, se per un secondo il romanziere pensa al lettore, rovina il testo, perde questa libertà. Il romanziere non può mai pensare al lettore. Può giocare con un lettore potenziale, può pensare “Adesso gioco con i miei lettori argentini, che credono di sapere tutto di Evita”. Ma quando termini un libro, non pensi mai al lettore. Ricordo molto bene che alla casa editrice Planeta mi avevano anticipato cinquemila dollari per farmi terminare Santa Evita. E, il giorno che ho finito, ho detto a mia moglie: “Speriamo che questo libro riesca almeno a pagare i cinquemila dollari che devo restituire alla casa editrice”. Perché non hai idea a quanta gente arriverà il tuo testo, non sai se è un totale insuccesso. Io finisco sempre un testo con la stessa sensazione di insicurezza: Sto parlando a qualcuno?” E molte volte, prima di finirlo, dico: “E a chi importa?”. A me importa, ed è questo che lo sostiene, che lo mantiene.
–Ora, come si coniuga questa insicurezza, propria di qualsiasi scrittore, con il fatto di essersi trasformato in un best seller troppo grande?
– Un best seller malgré moi, mio malgrado. Io, a volte, mi chiedo: “La gente si sbaglia?”. Non credo. Non posso crederlo. Ho fatto molta fatica, richiede molto lavoro, mi dà piacere. È l’unica cosa che so, scrivo solo ciò che mi dà piacere scrivere, non scrivo ciò che non mi dà piacere. Scrivo, in realtà, per piacere, e inoltre, più piacere sento, più sento che va bene il testo. Ho scritto molte cose con dispiacere, che sono i romanzi che io chiamo “morti”, le prime versioni dei libri. Inoltre, sono sempre, curiosamente, diverse. La prima versione di El vuelo de la reina era totalmente diversa dalla versione definitiva.
–Le conserva?
Le conservo, ma sono così brutte che, fortunatamente, nessuno osa pubblicarle. Sono molto, molto brutte. Ma le conservo solo come testimonianza dell’insuccesso. Per esempio, adesso mi hanno chiesto da El País un racconto, un racconto domenicale. Non avevo nessun brutto racconto, né tempo per scrivere. Allora ho deciso di prendere un estratto da un brutto romanzo, strutturarlo, concentrarlo come un racconto, e così è stato pubblicato. Ci sono pezzi che non sono male, che sono riscattabili, di quei romanzi, ma piccole parti. I romanzi nel loro insieme sono morti.
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