Pubblichiamo oggi un altro episodio del diario di viaggio di Marco Cassini, in viaggio negli Stati Uniti per le celebrazioni dei cent’anni di Lawrence Ferlinghetti.
[Clicca qui per leggere la prima e la seconda parte.]
Tre
Sono il primo ad arrivare stamattina al Caffè Trieste. Il barista è insieme alla signora di ieri, la mamma di Julie/Giulia (che quindi lavora qui, e che oggi ha portato un computer e si è seduta al posto di ieri sulla panca: dev’essere il suo posto riservato), stanno tirando fuori i tavolini, forse promette bel tempo o più probabilmente si aspettano il pienone nel giorno del compleanno numero cento del loro cliente più assiduo e più famoso. Gli do una mano a disincastrare le sedie da una pila e sistemarle fuori e quando rientra riesco a cogliere il momento in cui, come nelle scene dei film, da dentro la porta a vetri gira la scritta da Sorry we are closed a Yes we’re open! Del resto non faccio in tempo a entrare e a poggiare la borsa sul mio tavolino d’angolo che si è già creata una fila di cinque o sei persone, chissà se abituali (riconosco il signore elegante in giacca e cravatta e cappello di ieri) o anche loro disperati europei in preda a un jet lag che gli piace assecondare quanto a me. Oggi il signore elegante sotto il cappotto non ha la cravatta, ma porta una camicia azzurra col gilet grigio. Ecco un altro habitué che riconosco da ieri, un tizio sui settanta con barba e codino grigi alla ZZ Top. Al tavolo mosaicato stamattina c’è un probabile finalista al contest Ferlinghetti-look-alike, ma con un cappello con le orecchie alla Holden Caulfield, forse residuo di un altro mascheramento a tema letterario. Un ragazzo che se fosse vestito per fare una comparsa in un film ambientato negli anni Settanta sembrerebbe avere un look eccessivo, caricaturale per quanto è intonato a quattro decenni fa, cerca di saltare la fila che al momento è fatta solo da me (i clienti intanto si sono tutti posizionati in maniera magistrale sulla scacchiera dei tavoli, credo si potrebbe verificare che c’è una mossa del cavallo a separare ognuno di loro, di noi), il barista gli fa notare che c’è una «fila» e lui ordina una budweiser. Oggi opto per un large cappuccino perché ieri ero l’unico a non essermi adattato alle misure locali e avevo chiesto semplicemente un cappuccino e mi sembravo l’ultimo piazzato alla competizione in materia. Il barista mi chiede, correggendomi con un’aria un po’ supponente, dandomi implicitamente dell’ignorante in fatto di caffetteria californiana, «A cappuccino grandey for you, sir?» «Yes, of course, I meant grande», scandisco soprattutto la erre per cercare di segnare un punto a mio favore, per punirlo di aver corretto il mio inglese con un gergo americano simil-italiano hipster che non si addice al posto dove siamo. Da giorni tutti mi dicono qui che San Francisco è a rischio di estinzione, che ci sono gli hipster del mondo Tech che avanzano a un ritmo inarrestabile. Sono decenni che la storia che sento raccontare a San Francisco è questa: prima mi dicevano che c’erano stati gli square a conquistare le frontiere beat, e c’erano stati gli hippy di Haight Hasbury a soppiantare i beatnik della prima ora, poi c’erano stati i cinesi a rubare isolati a Little Italy, infine erano arrivate le banche e le multinazionali a prendersi tutto quello che era dei beatnik, degli hippy, degli italiani, dei cinesi, e ora chissà che accordo di lottizzazione hanno trovato con i soldi delle aziende tecnologiche. Non riesco a concludere questo pensiero spiraliforme perché mentre sottolineo l’expertise del ragazzo al bancone chiedendogli da quanto fa questo mestiere, mi incalza con un indisponente «You mean since when I am a barista?» e allora capisco che non c’è storia. È domenica e le forniture di pastry devono avere qualche modifica, del mio crop circle di pasta sfoglia che nei due giorni precedenti si stagliava sulle vaste praterie della vetrinetta delle brioche oggi non c’è traccia, come non ci sono i cornettoni giganti, ci sono, ovviamente anche loro in formato grandey, dei muffin condominiali, nel mio ci saranno centoventi chocolate chips.
Il figurante di Sulle strade di San Francisco prende posto, e subito dopo prende sonno, al tavolino di fronte al mio, quello del festeggiato di ieri, mentre addento il mio muffin e scopro con enorme delusione che le centoventi chocolate chips sono in realtà altrettanti pezzetti di blueberry (credo sia mirtillo, ma non ho mai imparato i nomi dei frutti di bosco in inglese, anzi, vorrei alzarmi e protestare col barista gridando disperato che se anche volesse correggermi la dizione non c’è pericolo perché non li conosco nemmeno in italiano i nomi dei frutti di bosco!, cioè se vedo dei frutti di bosco so cosa sono e che sapore hanno, e poi ho in testa tutta una lista di nomi dei frutti di bosco, ma non riesco ad associare le due cose. In pratica, uguale a come mi capita con certe persone che incontro ogni anno alle fiere del libro. La settimana scorsa a Book Pride ho perfino regalato una copia di Santa Evita a una persona con cui ho parlato in maniera affabile per un quarto d’ora buono, senza nemmeno adottare la solita tecnica di fare domande insidiose ad hoc atte a scoprire indizi sulla sua attività provenienza giusto per capire, ormai da anni ho capitolato e ho compreso che è preferibile rinunciare o ammettere un onesto, ragionevole «Scusa, non mi ricordo» rispetto a provarci imbarazzato, ma questa signora qui in particolare sapeva così tante cose di me, della mia casa di Brooklyn, delle cose che scrivo su twitter, della mia famiglia, delle persone della mia vita che chiamava per nome, che o è un genio del furto alla Totò in versione libresca o era mia cugina) anche se in realtà al terzo o quarto morso non sono mica più sicuro se siano mirtilli o cioccolata. Sarà che è domenica e questo dev’essere un muffin di qualche giorno fa. Ma si conserva bene, come i clienti agé di questo bar: non c’è insomma l’effetto Luisona. Adesso è partito il juke box, ma non riesco a distinguere i suoni, coperti dal macinino elettrico, che non sembra disturbare il dormiente qui di fronte, che si riposa beato. Come mai ho così tanta fame? Ieri alla colazione delle sei e mezza è seguito un pranzo alle tre del pomeriggio con riso e pollo al curry, dopo qualche ora di passeggiata sulla Marina, verso il Golden Gate che mi aveva messo un certo appetito, e così la sera non avevo fame. Prima di andare a fare la mia lunga passeggiata (il meteo mi diceva che ieri era l’unico giorno di sole della mia settimana californiana quindi dovevo approfittarne) avevo fatto check out all’hotel delle prime due notti, e il check in al San Remo, mio luogo d’adozione in città ma che non era disponibile venerdì e sabato. Ho lasciato le valigie, e mi sono preso una mappa cartacea, per provare ad ascoltare i consigli di Damon Krukowski e fare una giornata analogica. E del resto, nemmeno le mappe dell’iPhone ti sanno dire quando il percorso lineare che vedi disegnato lì sullo schermino nasconde invece una terribile salita da affanno di quelle tipiche del posto, tanto valeva spegnere il telefono, e usarlo all’occorrenza solo per qualche foto-ricordo. Ma la sera, perché non ho mangiato? Dopo la passeggiata sono stato qualche ora al San Remo a farmi investire dai ricordi: quante volte ci sono già stato, in che anni?, ecco ancora l’alcova con il divanetto e la vetrina con i libri lasciati dai clienti precedenti; la stanza con la lavatrice a gettoni e i distributori di bevande, i corridoi labirintici, la moquette a fiori, il vassoietto sul comodino con la scatolina di California sun dried raisins (mancano all’appello, pare, solo le saponette indiane, ma nei prossimi giorni indagherò). Mi ricordo il 1996 qui, con Roberto Cavallini, fotografo e compagno del mio primo viaggio americano: New York, Milwaukee, Chicago, San Francisco, e compagno anche della assai tardiva prima canna della mia vita (il giorno del mio ventiseiesimo compleanno, altro che beat!), tardiva ma efficace: uno spinellone di erba californiana home-grown grande quanto un sigaro cubano, senza un grammo di tabacco, fumato in tre, il terzo essendo un poeta conosciuto alla City Lights che il giorno dopo ci ha invitato ad accompagnarlo in un viaggio a Sacramento (nome che a me ricorda sempre inevitabilmente due cose fra loro indissolubili oltreché coeve: le mie elementari e medie dalle suore a Napoli, e La famiglia Bradford, una serie tv di quando le serie tv si chiamavano ancora telefilm) dove era diretto per partecipare a una Maratona di poesia di ventiquattro ore. Cosa ricordo di quel viaggio in macchina? Le domande curiose del poeta, ero troppo ingenuo per capire che ci stava proponendo di partecipare a dei video sadomaso e mi sembrò solo buffo quando ci chiese se eravamo interessati a fare una particina in un film che stava producendo in cui gli uomini si dovevano mettere nudi e con la museruola in delle gabbie; gli effetti bellissimi della mia prima canna (mentre Roberto seduto accanto al guidatore mi diceva «Marco ma anche a te ti si stanno moltiplicando le orecchie?», io dal sedile di dietro vedevo solo, chiudendo gli occhi, un’immagine di me nella forma dell’omino del logo di City Lights, ma con la testa a forma di fetta di limone che ballonzolava al ritmo del ballonzolamento della macchina sulla freeway californiana. Per dire che poi, in venti e passa anni di canne successive, non ho mai avuto un’esperienza psichedelica pari al mio battesimo del fuoco – se si eccettua quella volta con Martina in cui il mio soggiorno di via Baccina era in discesa, se venivi dal divano, o in salita, se venivi dalla finestra, e io e lei passavamo l’uno attraverso il corpo dell’altra e se andavamo in discesa temevamo di non fermarci in tempo prima della finestra e se andavamo in salita ci veniva l’affanno: ma anche questa è un’altra storia – e d’altro canto non ho mai avuto da quella sera di Sacramento un’esperienza così tragica come l’aver provato il gelato alla vaniglia affogato nella root beer. Amici, le droghe, dice qualcuno, fanno male, ma non solo invece fanno bene se prese con moderazione e con la compagnia giusta: fanno senz’altro meglio del gelato alla vaniglia affogato nella root beer: don’t try this at home!) e tornare ogni sera in hotel a impilare i libri comprati (quell’anno era solo letteratura beat, ma l’anno successivo alla City Lights avrei comprato A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, che era nello scaffale degli staff picks e che avrei pubblicato l’anno successivo – e a proposito di staff picks e di libri pubblicati, ieri ho immortalato un commovente quartetto di consigli della libreria: ci sono due libri che SUR ha già pubblicato in italiano, uno che esce proprio fra qualche giorno e uno che abbiamo appena acquisito e che uscirà nel 2020), e fare i programmi di viaggio dell’indomani con l’atlante stradale (l’analogico come unica opzione) e avere il problema dei contanti contati perché fino ai miei circa trent’anni non ho avuto una carta di credito, e poi quella volta che al San Remo, ma doveva essere due anni dopo, il mio terzo compleanno consecutivo a San Francisco e ascoltavo (ancora nell’era analogica) una radio – una radio!, mi ero portato una radio in viaggio?, era una radiosveglia perché non c’erano i cellulari per svegliarsi? – e dentro la stanza c’era «Blue Train» e fuori la nebbia (non mi aveva avvertito Mark Twain, e non era per questo che nell’agosto del novantasei mi ero dovuto comprare quel maglione viola?, l’inverno più freddo della mia vita ecc. ecc.) e avevo litigato con qualcuno e si sentiva una sirena e delle grida per strada e io mi sentivo nel 1957, no, no, ero nel 1957, perché stavo nell’epicentro della letteratura e della storia e della musica che leggevo e imparavo e ascoltavo e stavo aspettando di uscire per andare in un caffè a sentire un concerto, era una delle prime edizioni del San Francisco Jazz Festival, in questi viaggio ho portato con me come feticcio la maglietta che comprai allora ma dice solo SFJF senza la data, e mi sarei seduto a un tavolino al quale poco dopo si sarebbe avvicinata una signora per chiedermi se poteva dividere il posto, il locale era affollato, e parla che ti riparla le dico che ho appena pubblicato in italiano i diari di Chet Baker e lei mi dice di conoscere un sacco di musicisti e restiamo a chiacchierare a fine concerto e ci facciamo una passeggiata al Washington Square Park e ci sediamo su una panchina e io le racconto qualcosa di me e lei mi dice che suo marito è morto l’anno prima e poi beviamo una birra nel parco e passiamo da City Lights che è sera tardi (una libreria aperta fino a notte!) e lei mi regala una copia di Infinite Jest, e riparla che ti triparla mi dà il suo numero di telefono perché vuole portarmi in macchina al Golden Gate e da lì andare verso fuori città, farmi vedere la zona dove abita e la mattina dopo la chiamo e mi risponde una voce di qualche persona di servizio che dice in un fiato «williamsresidencygoodmorning» e faccio due più due più due più due, aggiungo per sicurezza altri due e capisco che la signora in questione è la moglie di Tony Williams (avevo letto nell’autobiografia di Miles Davis che doveva farlo sgattaiolare nei locali di nascosto perché all’epoca in cui entrò nel suo gruppo era minorenne, aveva diciassette anni – anche se ricordavo che Miles, Miles!, lo definì il fulcro attorno a cui il suo gruppo creava il suo sound) e insomma con la signora Williams la sera prima io mi ero vantato di aver pubblicato in italiano i diari di Chet Baker. Ma nel frattempo qui al Trieste è di nuovo tempo di compleanni: non quello di Ferlinghetti però, non ancora, e oggi non c’è solo una fetta ma un’intera torta che raggiunge il festeggiato, e tutti di nuovo applaudiamo, e cantiamo tanti auguri, e il festeggiato ringrazia tutti, sembra il giorno della marmotta, e stavolta la torta è per tutti, ognuno riceve una fetta e una forchettina di plastica, e allora mi sento in colpa dato che sono più di due ore che sono qui e la vignetta del New Yorker attaccata con lo scotch, parecchi anni fa sembrerebbe, sulla vetrinetta dei cornetti (che, by the way, ormai si è popolata: era solo un’illazione, o un’illusione, quella secondo cui nella Terra delle opportunità il giorno del Signore c’è qualcuno che non lavora) dice «ordinano un caffè e poi stanno qui per ore», ci deve essere un’ironia forse nel disegno che però non guardo con attenzione perché vengo distratto dalla vignetta accanto, una delle mie preferite di sempre, anche perché è riprodotta su un biglietto di auguri speditomi chissà quanti anni fa da Suzanne Vega all’epoca in cui avevo pubblicato un suo libro (e chissà se a un tavolino di questo bar c’è un Mitchell Froom con cui posso vantarmene) cioè il rigatone con gambe e braccia che parla al telefono e grida (grida lo penso io, solo perché è italiano e nello stereotipo americano degli italiani noi parliamo sempre ad alta voce e facciamo, sempre, qualsiasi cosa stiamo dicendo, il gesto delle dita unite a piramidina) «Fusilli, you crazy bastard!», una delle vignette che mi fa più ridere e che mi fa ridere ogni volta che la vedo, e che i visitatori della mia casa di Brooklyn avranno visto attaccata alla bacheca di sughero nel soggiorno; e insomma mi sento in colpa e ordino un altro cappuccino, piccolo stavolta, dico small e lui non mi corregge, mi chiede invece «how was the first cappuccino?», e dato che ho paura a dire parole che lui possa di nuovo correggere gli faccio il gesto del pollicione e mi sento ridicolo perché è un gesto che trovo cretino e cerco di non fare mai. E così pur non essendo riuscito a finire ancora il muffin gigante, attacco la torta di compleanno, e mi ricordo che dovevo scrivere di perché avevo fame stamattina, ma poi nel raccontare di essere stato investito dai ricordi sono stato investito dai ricordi e mi sono distratto. Eravamo a me nel pomeriggio al San Remo (San Remo, Trieste, Vesuvio caffè: si capisce che, come dice l’adesivo che ho visto in giro nel quartiere e che prende in giro The North Face, rendendo tricolori le tre striscette curve del logo e aggiungendoci la silhouette della penisola, qui siamo a The North Beach, avamposto italiano fiero delle sue origini) tornato dalla passeggiata, ho letto, mi sono addormentato per quanto?, una mezz’ora credo, e poi ho letto ancora, e poi alle nove ho deciso di uscire, per cercare di fare tardi e fregare il fuso orario, e mi sono messo in cerca di un posto dove andare a bere un bicchiere di vino e magari mangiare qualcosa. Giro all’angolo dell’hotel attratto da due fili di lampadine che vanno da un angolo all’altro della strada, come panni stesi luminescenti, ma prima di arrivare a vedere se l’oro promesso da quelle lampadine è solo qualcosa che luccica (bulb fiction?) l’attenzione si è già spostata verso una cassetta di legno attaccata al muro di un edificio a due piani, è una piccola postazione di book crossing, giro la testa a destra e sinistra assecondando le diverse direzioni delle scritte sui dorsi e prendo senza esitazioni un Collected poems di Philp Larkin, cerco subito «They Fuck You Up» nell’indice e non lo trovo, penso che allora non sono davvero collected (poi mi ricorderò che non è quello il titolo della poesia, ma me lo ricorderò solo diverse ore dopo, prima di andare a dormire, ma poi non ho controllato) e mentre lo cerco si avvicina una ragazza nera dondolante sulle zeppe altissime delle sue scarpe rosse, tira fuori da un bustone parallelepipedoso di quelli da supermercato, con un manico rotto, da cui escono lembi di vestiario, una visiera da tennista, e chissà cos’altro, sì anche un libro, lei lo prende e lo mette lì nella cassetta, mi parla ma a una velocità tale che devo chiederle più volte di ripetere cosa ha detto, mi ha chiesto se ho già messo il mio libro lì perché vuole sapere se le piacerà, le confesso che avevo appena preso Larkin ma non avevo lasciato nulla in cambio, che lo avrei fatto domani, o forse dopo aver letto Larkin, dico come scusandomi per fare l’angioletto davanti a un giudice, lo rimetto a posto, mi chiede se sono uno scrittore e le dico di no, lei mi fa un rapido elenco di altre stazioni di book crossing dei dintorni e insomma inizia una serata in cui per circa tre ore non riuscirò a bere il mio bicchiere di vino ma dovrò aiutarla a portare il suo borsone senza un manico da un posto all’altro del quartiere, in cerca di una fetta di pizza, sembra esserci l’assalto ai forni, ovunque ci sia scritto pizza by the slice c’è la fila, dev’essere un attacco collettivo di fame chimica, perché ormai passate le dieci qui l’ora di cena è finita da un pezzo, facciamo pure una fila in un Tony che vende l’ultima fetta al tizio in fila davanti a noi e ci toccherà provarne altre tre, quattro, prima di terminare la caccia la tesoro giusto davanti a City Lights, in un postaccio nobilitato però da un altro scaffaletto di book crossing alla cui vista Angel si esalta e sorride tantissimo, con i suoi quattro nei a losanga sullo zigomo evidentemente disegnati con l’uniposca, e le offro anche un succo d’arancia, e questo 2019 odissea nella pizza dura un’infinità perché ci sono così tante tappe da far sembrare la serata una sceneggiatura slabbrata di un filmetto pretenzioso sulla beat generation: lei che cerca le fermate dell’autobus, lei che si lascia convincere a fare una tappa in un posto dove vorrei finalmente bere il mio vino ma mi dice che non vuole perché suo padre aveva problemi di alcol e questo le ha rovinato la vita (e così capisco con effetto delay il suo sospirone di poco fa quando le ho citato il verso di Larkin) e dove quindi invece di bere parliamo col proprietario per chiedergli il motivo per cui c’è il (o più probabilmente una riproduzione del) disco d’oro di Tony Bennett, e il motivo è semplice, che Tony viene sempre a mangiare qui, e quando mi chiede di dove sono ovviamente la risposta «Ooooh Itallllliaaa! Bela Romah! The most beautiful city in the world», ma gli chiedo di più su Tony (e siamo al terzo Tony di questo racconto) e dice, sorridendo tantissimo ed emanando da quel suo sorriso con molti denti e davvero molto dennishopperiano un odore di marijuana che non è un odore ma una nube onniavvolgente, dice che l’ultima volta Tony era stato qui con i Rolling Stones e Lady Gaga, «what a night, oh boy», e poi il mondo si ferma perché lui è rimasto colpito dalle scarpe di Angel e deve farle dei complimenti molto teatrali, ai quali lei reagisce imbarazzata dirottando l’attenzione sulla pelliccetta di barboncino bianco della signora bionda seduta al bancone e lei deve bussarle sulla spalla per dirle «I love your outfit, lady», a cui la signora risponde, con una naturalezza da sceneggiatura scritta invece benissimo: «Me too, girl, me too». Be’ ci sono stati molti altri motivi per cui ieri ho finito col mangiare a mezzanotte passata solo mezza fetta di pizza e questi motivi hanno a che fare con Angel che cercava la fermata del suo autobus ma anche la pizza ma anche le cartine per rollare una canna (non le ha trovate) e regalava mucchietti di erba pescati da una busta di plastica affondata tra i vestiti del suo borsone della spesa a chiunque le desse informazioni o dicesse che non aveva cartine o le indicava una pizzeria, ne ha offerta ad almeno un paio di persone che era evidentissimo non ne avessero ancora bisogno poi mi ha portato a vedere i murales nel vicoletto (Jack Kerouac alley) tra City Lights e il Vesuvio e voleva portarmici con così tanto entusiasmo che ho finto di non averli mai visti prima e abbiamo commentato i disegni e le scritte e i colori e l’ho aiutata a pronunciare in spagnolo «Un pueblo con recuerdos es un pueblo rebelde», poi ho capito che il vagabondare avrebbe potuto durare per tutta la notte o per tutta la settimana o per tutta la vita e ho dovuto dirle «Ciao Angel» dopo averla portata all’ennesima fermata sperando fosse quella giusta, quella dell’autobus giusto che la riportasse nella casa giusta, se davvero aveva una casa, se davvero aveva una casa dove andare, se davvero aveva un autobus da prendere, se davvero si chiamava Angel e se davvero l’ho incontrata.
© Marco Cassini 2019. Tutti i diritti riservati.
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