Pubblichiamo oggi un interessante intervento dell’insigne ispanista, nonché traduttore, Giovanni Caprara, docente presso l’Università di Malaga, sulla «chimera della traduzione perfetta». (Fra l’altro, chi legge lo spagnolo troverà un link a un’interessante intervista dell’autore ad Andrea Camilleri: Traducción, experimentación, lengua y dialecto.)
Il testo era già comparso il 4 maggio sul blog della rivista L’Indice. Ringraziamo l’autore e la testata.
di Giovanni Caprara
Già a suo tempo, chiare furono le parole di Cervantes:
«… y lo mismo harán todos aquellos que los libros de verso quisieren volver en otra lengua: que, por mucho cuidado que pongan y habilidad que muestren, jamás llegarán al punto que ellos tienen en su primer nacimiento.»
In arte, e specialmente nell’arte della traduzione, non è mai esistita la “unica”, “vera”, “sacrosanta” verità, la versione eccellente per intenderci. L’eccellenza non esiste nemmeno per un autore, figuriamoci poi per un traduttore. Spesso succede però che il traduttore, per necessità di cose, debba “cedere” a una versione piuttosto che a un’altra, debba cioè “decidersi”, o meglio, privilegiare un’unica versione (anche se in cuor suo non lo farebbe). Poi inizia la guerra, la scelta fatta entra in discussione: c’è sempre un’altra possibilità, migliore, quella degli altri, del critico, del lettore. Di chi senza fretta, senza aver letto l’opera, è capace di analizzare senza sapere cosa c’è dietro quella interpretazione, dietro quella scelta. E si giudica, l’operato di un traduttore è messo in discussione per un errore. Il critico, il lettore, a distanza, con calma, riscrive la sua interpretazione, ne dà la soluzione, cerca alternative, e si arriva alla conclusione che la traduzione non è una scienza certa, perché non è facile trovare due traduzioni uguali, due idee che coincidono.
Eugène Nida, esperto biblista, suggeriva di tradurre usando “equivalenze dinamiche”, facendo in modo cioè che il testo tradotto potesse riprodurre (nei lettori) lo stesso effetto già prodotto in precedenza nei lettori contemporanei all’originale. È come dire, e questo lo suggerisce Lorenzo Fabbri che insegna Linguistica e Traduttologia e Letteratura italiana dell’Otto-Novecento a Paris III, che il “santo bacio” che San Paolo invita a scambiarsi nelle scritture possa trasformarsi, in un contesto culturale moderno, a noi vicino, in cui gli uomini non hanno l’abitudine di baciarsi tra di essi, in una “calorosa stretta di mano”. È questo quello che vogliamo?
La lingua perfetta, “meravigliosa chimera”, il “frivolo sogno” leopardiano, non esiste. Dunque, non esiste nemmeno la traduzione perfetta. Sarebbe interessante, però, rileggersi ogni tanto Il compito del traduttore di Walter Benjamin. Il filosofo tedesco ipotizzava l’esistenza di una lingua “pura” capace di presupporre tutte le altre lingue del mondo, “una lingua appartenente all’Oltrestoria e di cui tutte le lingue storiche non sono che frammenti”.
«… E la traduzione sarebbe per lettori che non capiscono l’originale? Sembrerebbe che ciò basti a spiegare la differenza principale fra l’uno e l’altra in campo artistico. Inoltre, sembra questa l’unica ragione possibile per dire ripetutamente “la stessa cosa”. Ma cosa “dice” una poesia? Cosa comunica? Molto poco a chi la capisce. Essenzialmente la poesia non è comunicazione, non è enunciato. Pertanto la traduzione che pretendesse comunicare non comunicherebbe altro che la comunicazione, cioè l’inessenziale. È questo, infatti, il segno di riconoscimento delle cattive traduzioni».
Il traduttore questo lo sa, e vive la sua attività nella dimensione del “frammento”, è consapevole delle scelte non prese, delle strade non battute, ma soprattutto è consapevole che ci sarà sempre una versione diversa dalla sua, forse migliore, forse no. Sono tutte possibilità mancate? Davanti a versioni inverosimili il traduttore si danna l’anima, ma è chiamato ad operare delle scelte. A volte può succedere che il traduttore decida di lasciar “intuire” a chi lo legge che era possibile un altro percorso, che era possibile quindi riprodurre la stessa cosa magari con altre parole. La sua scelta è, e deve essere, soltanto una. Si creano delle imprecise ambiguità, a volte volute, altre desiderate, altre purtroppo provocate, che fanno eco ad altre ambiguità (che comunque a volte esistono pure nell’originale).
La maggior parte dei traduttori conosce (c’è chi lo ha vissuto sulla propria pelle) l’espressione “traduttore, traditore”. Ma nel senso buono del termine! Non ci inganniamo: il traduttore vuole la buona riuscita del proprio lavoro, vuole che chi legge capisca (e non intuisca…). Ognuno ha le proprie esperienze personali da raccontare, dei vissuti riconducibili ai vissuti di altri traduttori, ma non per questo simili. Nel corso della vita professionale di un traduttore si presentano spesso difficoltà condivisibili: esperienze già vissute da altri colleghi, situazioni che si ripetono, problemi che si vivono, purtroppo spesso, “in privato”.
Quante volte ci siamo imbattuti in traduzioni illeggibili, in traduzioni di pessima qualità? Altrettante volte, però, abbiamo letto testi incomprensibili, senza senso, sgrammaticati. Addirittura è capitato che i traduttori abbiano perfino manipolato l’idea del testo originale, commettendo errori grossolani. Molte volte, però, è successo anche che i traduttori hanno, anzi, abbiamo anche corretto, salvato un’opera dalla disgrazia! E chi non fa errori… Ma non per questo possiamo dire che i traduttori siano tutti, e anzi siano gli unici responsabili della buona o cattiva sorte di un libro. Tornerò su questo più avanti.
Allora: non generalizziamo. Non “spariamo sul pianista” (si legga, traduttore). Come succede per ogni creazione (letteraria) anche nel caso della traduzione c’è bisogno di un “controllo”, di una rilettura. Sempre! Chi non lo fa, se ne deve assumere la responsabilità. Sono certamente d’accordo con chi dice che ci sono anche altri responsabili nel processo di “editing” di un libro, indipendentemente dal genere.
La mia esperienza in traduzione è riassumibile in tre punti:
1. Come traduttore letterario
Ho avuto la grande fortuna di lavorare sia in Italia che in Spagna con piccole case editrici e devo dire che mi è andata sempre benissimo. Cioè, ho sempre avuto una rilettura delle mie traduzioni fatta da persone preparate che ci tenevano al testo, ci tenevano perché credevano nel progetto e volevano che il testo fosse chiaro e ben leggibile. Persone che facevano gli interessi della casa editrice. Non credo che queste correzioni siano state fatte per sfiducia nei miei confronti, piuttosto ho sempre pensato che quattro occhi vedono e leggono sempre meglio di due! E devo dire che la rilettura è servita. Sfido chiunque, in caso contrario, a tradurre trecento pagine. Ma siamo proprio sicuri che quando il risultato di una traduzione è pessimo, ciò si deve al fatto che non vi sia stato un lavoro di revisione/correzione? È possibile che certe scelte, che poi spesso risultano essere anche errate, certe “sviste” siano da imputare a più persone e non soltanto al traduttore…
2. Come ricercatore
Per anni, prima di diventare di ruolo, sono stato ricercatore presso l’Università di Malaga. L’argomento della mia Tesis de Doctorado, riducendolo all’essenziale per non farla troppo lunga, verteva sulle versioni in castigliano dei romanzi di Andrea Camilleri (che ho conosciuto e intervistato personalmente a Roma nel 2007). Grazie a Camilleri ho avuto anche modo di conoscere il suo pensiero sulle traduzioni e sui traduttori. Per chi fosse interessato a questo argomento, consiglio di leggere l’intervista completa sulla rivista “Trans” (Universidad de Málaga). Nel mio studio sono riuscito a dimostrare che le versioni tradotte in spagnolo non erano all’altezza dell’originale. Ho trovato casi davvero discutibili in cui la versione tradotta lasciava abbastanza a desiderare.
Un esempio (ma sono tanti), estratto dal celeberrimo romanzo Il cane di terracotta, pubblicato da Sellerio nel 1996 e tradotto in spagnolo nel 2003 dalla casa editrice Salamandra.
Il cane di terracotta, p. 52 | Tu sei una testa di minchia che mi dice minchiate. Queste sono cose di picciotti segaioli”. |
El perro de terracota, p. 56 | Eres una cabeza de chorlito que sólo sabe decir chorradas. Esto es propio de chavales insensatos. |
La fedeltà alla quale mi riferisco serve a capire il testo sia dal punto di vista dell’autore che da quello del testo stesso. Nel corso della mia esperienza come docente di lingue ho compiuto parecchie incursioni nella traduzione e sono arrivato alla conclusione che purtroppo il problema non risiede soltanto nella lingua di partenza (quella dell’originale) ma piuttosto in quella d’arrivo (quella della traduzione). È preoccupante scoprire che spesso i traduttori non conoscano la loro lingua, cioè, che non si sappia più scrivere.
Una cosa, però: se facciamo questa critica nei confronti della preparazione linguistico-culturale dei traduttori, dovremmo fare lo stesso anche per alcuni autori. La sintassi dei romanzi di oggi, per esempio. Siamo tutti convinti che i nostri autori italiani, sappiano scrivere? Quindi: non attacchiamo soltanto i poveri traduttori.
Tradurre non è certo cosa facile. Si richiede una certa dose di “coraggio” e capacità di ricerca. Spesso, d’accordo con chi sostiene che la traduzione (letteraria) debba essere vissuta soprattutto come un “gioco”, sorgono dubbi enormi sul come portare a termine questa “missione”. È preferibile in certi casi una traduzione letterale o no? È consigliabile un’alternativa, cioè, è meglio essere fedeli alla lingua fonte (piuttosto che alla lingua meta), oppure, al contrario, è preferibile veicolare comunque il testo in modo tale che il suo significato giunga al lettore meta nel miglior modo possibile? Oppure, e rifacendomi all’esempio di cui sopra: si deve manipolare, o meglio, si deve sperimentare con la lingua tradotta, oppure è preferibile non “toccare” il testo? Molti traduttori fortunatamente sostengono che la cosa importante è “trasferire” comunque l’idea presente nel testo originale (anche se questa idea ha a che vedere con l’elemento linguistico) , e che dunque non importa il mezzo, o il modo, basta che l’idea giunga al destinatario affinché la traduzione abbia un senso e assolva la sua funzione di veicolare un messaggio e che questo messaggio giunga al lettore nel modo più “originale” possibile.
La traduzione, come spesso si dice, non potrà mai essere all’altezza dell’originale. Va bene: ma allora, e per la stessa ragione, è pur vero che l’originale può non essere all’altezza della traduzione. Può succedere. E come la mettiamo a questo punto?
Se mi è consentito fare un confronto musicale, Lucio Dalla è stato e resterà unico, unico nel suo genere, nel suo modo di parlare, di cantare, di suonare, di muoversi, di vestirsi, di portare gli occhiali, di guardare la telecamera, di sbuffare, di sudare. Qualcuno potrà provare a copiare il suo stile, ma con quali risultati? E non credo nemmeno che sia possibile rinunciare alla traduzione, e se ciò sarà possibile, tra mille anni, forse, vorrà dire che tutti parleremo un’unica lingua. Orrore!!! Il problema è che ci stanno già provando, a farci parlare la stessa lingua…
Un’ultima considerazione (forse errata, ma potrebbe servire per allargare ancor di più questa discussione): perché quando un romanzo vende, o si dice che è bello, che piace al pubblico, tutti si chiedono “chi è l’autore?”, mentre quando un’opera non vende, è criticata da tutti, non piace, qualcuno si chiede “ma chi è che l’ha tradotta?”
A ciascuno il suo, mi verrebbe da dire…
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