di Raul Schenardi
Ieri “il manifesto” ha concluso la settimana dedicata alla presentazione di racconti inediti di autori latinoamericani pubblicando “Semplice piacere puro piacere” di Cristina Rivera Garza, tratto dalla sua raccolta La frontera más distante (Tusquets, 2008), scelto e tradotto da Francesca Lazzarato.
La prima volta che sentii nominare Cristina Rivera Garza fu nel 2003 durante l’intervista che feci a Carlos Fuentes e che fu poi pubblicata su “Pulp”. Ricordando il ruolo di scopritore di talenti (da García Márquez a Vargas Llosa) che Fuentes aveva svolto alla fine degli anni Sessanta, gli domandai quali nuovi autori latinoamericani attirassero la sua attenzione. Lui, dopo aver fatto i nomi dei messicani Volpi, Padilla e Palou, e degli argentini Silvia Iparaguirre, Piglia, Fresán e Aira, mi parlò con entusiasmo di Nadie me verá llorar, romanzo che considerava fra “i più belli e inquietanti della letteratura messicana, una vera rivelazione”, scritto dalla sua connazionale Cristina Rivera Garza, che aveva ricevuto nel 2001 l’importante premio Sor Juana Inés de la Cruz.
In seguito scrisse in merito: “Ci troviamo di fronte a una delle opere di narrativa più importanti della letteratura non solo messicana, ma in lingua spagnola, di questa fine secolo. Non mi soffermo – do per scontato – sulla bellezza e l’esattezza della prosa della Rivera Garza. In questo romanzo dalle lunghe sottane nere, Cristina Rivera Garza immagina, come nessuno lo ha più fatto in Messico dopo José Revueltas, le opzioni tragiche e le lacerazioni psichiche fra la teoria e l’azione rivoluzionaria. Lo fa con tale intensità, con tale grandezza, che insieme alla protagonista Matilda dobbiamo, come lettori, inginocchiarci quando Diamantina muore, Cástulo scompare e Matilda prega per loro e da quel momento in poi ricorda i loro nomi solo in segreto, come se la sua anima fosse il pantheon di ogni eroismo fallito”.
Sempre nel 2003, nel suo prologo all’antologia Palabra de América, che raccoglie gli interventi al congresso dei “giovani” scrittori latinoamericani riuniti a Siviglia, anche Guillermo Cabrera Infante le riservò parole di elogio per quel romanzo.
Insomma, dopo presentazioni del genere mi procurai il libro, lo lessi con entusiasmo e lo suggerii a vari editori. Qualcuno lo giudicò “bello ma troppo triste”. Pazienza. Daniela Di Sora della Voland invece non ebbe esitazioni e ne acquistò i diritti affidandomi la traduzione. (Qui si può leggere la recensione di Francesca Lazzarato pubblicata a suo tempo sul “manifesto”: http://rassegnastampabolano.blogspot.com/2010/10/nessuno-mi-vedra-piangere-di-cristina.html), La storia straziante del rapporto fra Matilda Burgos, ex prostituta internata in un manicomio, e Joaquín Buitrago, fotografo morfinomane e pecora nera della famiglia, sullo sfondo di una Città del Messico in preda all’euforia del progresso (la vicenda è ambientata nei primi decenni del Novecento), ha rivelato il talento di una scrittrice singolare, anticipato dai racconti di Ningún reloj cuenta esto (Tusquets, 2002), e confermato poi dalle opere successive: La cresta de Ilión, pubblicata da Voland l’anno scorso con il titolo Il segreto (qui la recensione della Lazzarato: http://rassegnastampabolano.blogspot.com/2010/10/il-segreto-di-rivera-cristina-garza.html), Lo anterior (2004), La muerte me da (2008), e il recente Verde Shangai (maggio 2011), tutti pubblicati da Tusquet. Senza contare le raccolte di saggi: Los textos del Yo, La Castañeda, Ningún crítico cuenta eso, El disco de Newton).
Oltre che emergere con grande trasparenza dalle sue opere, la poetica e l’atteggiamento di Cristina Rivera Garza nei confronti della scrittura emergono con chiarezza nelle sue dichiarazioni, come in questa intervista concessa a Jorge Luis Herrera: “… lo scrittore apre spazi per creare maggiore oscurità. Nel mondo c’è un eccesso di luce, un eccesso di chiarezza, un eccesso di comunicazione, un eccesso di messaggi ricevuti. Non scrivo per raccontare storie, né per comunicare né per convincere i miei lettori che quel che dico è giusto. Scrivere è un processo che può includere questi elementi, ma non in modo esenziale. Non c’è nulla di più estraneo all’atto di narrare che l’attuale ossessione per la comunicazione – per l’aspetto più univoco e semplice del linguaggio. Scrivere non è trasmettere un messaggio né chiarire problemi. La scrittura, in ogni caso, è un processo di produzione del reale”.
O ancora, in un’altra occasione: “Voglio romanzi semiermetici. Romanzi che producano la distanza esatta fra lo scrittore del testo e il lettore della scrittura di quel testo. Su carta o nello spazio virtuale della blogosfera aspiro a produrre e leggere romanzi che possano velare (nel senso di occultare e proteggere, e anche di vegliare e custodire) il mondo nel momento stesso in cui producono i significati dentro i quali esiste quel mondo”.
L’anno scorso ho avuto il piacere di incontrare Cristina nell’ambito del Babel Festival a Bellinzona. Per chi non lo conoscesse, dirò solo che si tratta di un festival dedicato a “letteratura e traduzione” – diretto da un poeta (che è già una bella garanzia), Vanni Bianconi –, che mette a confronto ogni anno scrittori di un paese e i loro traduttori italiani. (Qui il sito del festival: http://www.babelfestival.com/) Lo scorso anno il paese ospite era il Messico, e insieme alla Rivera Garza c’erano Paco Ignacio Taibo con Bruno Arpaia, Guillermo Arriaga con Stefano Tummolini, Fabio Morabito con Stefano Strazzabosco, Juan Villoro con Maria Cristina Secci, Mario Bellatín con Vittoria Martinetto, Margo Glantz, oltre a Goffredo Fofi, Ilide Carmignani e Maurizio Braucci che hanno tenuto conferenze su Roberto Bolaño.
All’indirizzo http://babelfestival.com/it/index.php/babel/podcast/ si trova, fra le altre, la registrazione della nostra chiacchierata di un’ora e mezzo, che spazia dai due romanzi tradotti in italiano (con la lettura di alcune pagine) ai temi cari alla letteratura di Cristina, fino alla sua intensa attività su Internet, dove gestisce dal 2004 un blog aggiornato con frequenza dal titolo emblematico: No hay tal lugar, ovvero, volendo parafrasare, Non esiste un luogo del genere (http://cristinariveragarza.blogspot.com/).
Più suggestiva la traduzione suggerita da uno studioso coreano dell’opera di Cristina (che è stata edita appunto in Corea, oltre che in Portogallo, Germania e Stati Uniti): “No hay tal lugar è la traduzione che Alfonso Reyes propone per la parola utopia, seguendo Quevedo. … La parola greca topos significa luogo, posto; il prefisso u è la negazione. Perciò utopia è il non-luogo, il non-posto. Utopia, l’utopico: ciò che non è in nessun luogo”. Si può leggere qui http://www.ucm.es/info/especulo/numero36/cibliter.html il saggio “No hay tal lugar: La ciberliteratura de Cristina Rivera Garza”, di You-Jeong Choi, che analizza il particolare rapporto di questa scrittrice con la scrittura per il web. Come afferma Cristina: “Dirò che da tempo ho voluto fare questo: seguire i progetti della scrittura errante. Senza brogliacci. Senza correzioni. Senza versione finale… In quel momento mi intrigava, così voglio credere, la democrazia irriverente della blogsfera – il fatto di scrivere alla pari e insieme a uomini e donne per i quali la scrittura non era una professione né un’occupazione ma un piacere, un esercizio, a volte una sfida, qualcosa che si è trovato a caso nel ciberspazio. Mi intrigava il mordace anticapitalismo della scrittura per il blog”.
E così, dopo gli aforismi su twitter, recentemente ha sperimentato anche la “webfotonovela”: http://increiblementepequena.tumblr.com/
Infine, vale la pena ricordare che Cristina Rivera Garza è nata a Matamoros, nella zona di frontiera con Brownsville, Stati Uniti, ha vissuto per molto tempo sulla frontiera Tijuana-San Diego e ora vive su quella Toluca-Città del Messico, sicché si comprende facilmente come questa esperienza l’abbia segnata, anche se lei la vede in un modo più complesso: “Credo che dove c’è differenza c’è frontiera, Città del Messico è piena di frontiere interne, non c’è comunità umana complessa che non abbia le sue frontiere. Non credo che l’esperienza della frontiera possa essere riducibile a uno spazio geografico, perché ogni luogo dove vi è differenza e alterità è un luogo di frontiera, intenso, allucinante. Dobbiamo uscire da noi stessi e incontrare l’altro per scoprire che lì c’è una frontiera”.
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