Gatsby Redford

Il grande Trump.
Donald Trump recensisce Francis Scott Fitzgerald

David Bloom-Yastreblyansky BIGSUR, Recensioni

Questo pezzo è uscito originariamente sulla Sherman Oaks Review of Books e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di David Bloom-Yastreblyansky
traduzione di Monica Crassi

Dunque, c’è la Bibbia – io la adoro la Bibbia, proprio così, cioè sono la persona più religiosa del mondo, non a caso mi sono preso tutti i voti degli evangelici – e poi c’è L’arte di fare affari (a proposito: non credete a tutto quello che vi dicono: l’ho scritto io, dall’inizio alla fine). Ma a dirla tutta ci sono molti altri libri che mi affascinano. Moltissimi altri. Da non credersi. Ho ottenuto così tanto successo, e in età così giovane, che non ho mai avuto molto tempo libero, ma se ne avessi avuto probabilmente avrei scritto più libri miei. UN SACCO di altri libri, credetemi. E quasi tutti sarebbero dei best seller. Le classifiche ne sarebbero piene. Ma uno dei libri più affascinanti di tutti i tempi, un best seller colossale, lo conoscono tutti, è Il grande Gatsby, di F. Scott Fitzgerald. Un libro davvero riuscito, credetemi. Ma perché quella F.? Io l’iniziale puntata la metto in mezzo, tra nome e cognome, penso sia più naturale così; d’altro canto ognuno ha il suo stile.

Ma Il grande Gatsby, con quel suo protagonista in cui chiunque può identificarsi, un uomo d’affari dal successo strabiliante, di origine straniera. Svedese, mi pare, o forse tedesco. Si era cambiato il nome così la gente lo poteva pronunciare anche in America. Un tempo gli immigrati facevano così. Quel piccolo dettaglio che chiamiamo integrazione. Per darvi l’idea di che successo ebbe il libro, pensate che nel film che ne fecero Redford ha voluto interpretare Gatsby. Uno dei film che ne fecero, perché ne hanno fatti diversi. Qualcuno dice che assomiglio un po’ a Redford. Io non so dirlo, giudicate voi, comunque lo dicono alcuni anzi la maggioranza dei massimi esperti nel campo delle somiglianze fra le persone. QUESTO SÌ che posso dirlo.

Il libro comincia, a dire il vero, ancor prima del frontespizio. Con una dedica, «A Zelda, ancora una volta». Sarebbe sua moglie. Zelda. Nome buffo, no? Donna buffa, pure. Perché poi abbia dovuto dedicarglielo più di una volta non lo capirò mai. L’idea è che se uno dedica un libro una volta, quello resta dedicato, e invece no, ha dovuto dedicarglielo di nuovo. In ogni caso, giusto per essere chiari, non ho niente in contrario se l’ha dedicato a una donna. Io adoro le donne. E le donne adorano me. Io tifo per le donne, ok?

La storia in sé comincia poi dopo il titolo, come è giusto che sia, con quella frase del narratore: «Nei miei anni più giovani e vulnerabili mio padre mi diede un consiglio che non ho mai smesso di considerare». Devi proprio prendere fiato per leggere una frase del genere. Anche se vuoi leggerla in silenzio fra te e te, che poi è quello che faccio di solito. Ma ne vale la pena. Ti acchiappa subito. È piena di significato, profonda. Il mio, di padre, mi diede un sacco di consigli preziosi, insieme a una linea di credito con un tasso d’interesse davvero ragionevole. Non vi dirò quali furono i suoi consigli. Se ve lo dicessi, finireste con l’avere tutti il mio stesso successo. Non fraintendetemi: io auguro a tutti di avere successo, ma mica così tanto. Sono stato chiaro? E poi, mio padre quei consigli li ha dati a me. Sono i miei consigli. Il mio consiglio per voi invece è: trovatevi un padre tutto vostro, e trovatevi dei consigli tutti per voi. È così che ho fatto io, e guardate quanto successo ho avuto.

Ad ogni modo, come dicevo, non è che abbia tutto ’sto cacchio di tempo per leggere. Per fortuna ho uno staff straordinario. E ci credo che è straordinario, con quello che mi costa. Anche lo staff dei domestici. Li importo con un visto speciale dalla Romania. Così posso stare certo che siano puliti, che non si facciano ingravidare e che non fumino erba nelle ore di lavoro. E funziona, eh. Credetemi, io li adoro questi romeni. E loro adorano me. Forse starete pensando «ma sono la stessa cosa dei romani?» però no, è un errore comune, lo facciamo tutti. Sono due popolazioni diverse.

E lo staff operativo è addirittura ancora più straordinario. In tutta onestà, è quasi ridicolo quanto lavorano. Anche il fatto di leggere i libri nelle ore libere, sembra incredibile ma è tutto vero. È così che ho fatto successo su Twitter, per esempio. Non avete idea di quanta ricerca deve fare il mio staff. Poi i tweet li scrivo io di mio pugno, ovviamente, perché mica è facile copiare il mio stile, ma loro mi danno una mano sulla ricerca. Io lo adoro il mio staff.

Insomma a quanto pare questo tizio, Gatsby, non solo è ricco e bello in modo assurdo, è tipo il re di Long Island, cioè di questo posto che è una specie degli Hampton ma, mi pare di capire, sulla costa settentrionale, perché è una storia di fantasia. Come gli Hampton ai vecchi tempi però: prima che arrivasse tutta la gente dei media e dell’editoria. D’altronde la storia si svolge ai vecchi tempi, se non fosse chiaro. È la cosiddetta Età del jazz, e Gatsby ne è il re. Organizza le feste più fiche: fichissime. Per gente di altissimo livello, tutti circondati da donne meravigliose, è chiaro. Eppure, anche se è il Re del jazz, ha un cuore tenero e generoso.

È innamorato, e la donna che ama lo riama, ma purtroppo lei è sposata. Con un altro uomo ricchissimo. Una situazione davvero carica di tensione! E quello che succede alla fine, be’, non ci potrete credere: Gatsby muore! Ucciso da un marito geloso, che non è nemmeno il marito della sua amica! L’amica del marito, l’amica del marito della sua amica, è il marito di quella lì che lo uccide: non uccide l’uomo che si scopava sua moglie, ma uccide Gatsby! E non è affatto giusto. Personalmente non trovo giusto che il libro finisca in questo frangente. Il libro secondo me non dovrebbe finire fino a che non riusciamo a capire che cavolo sta succedendo.

Mi dispiace doverla mettere in questo modo, ma l’autore ha dimostrato una vera e propria mancanza di senno in tutta la faccenda. Capisco che abbia un grande talento ma così è proprio tutto sbagliato. Non si uccide così un personaggio come quello, a cui vanno tutte bene. Non ha il minimo senso. E le donne poi: alla fine cascano sempre in piedi. Lo so, lo so: è come nella vita reale, ma insomma. Non è un motivo sufficiente.

E dal mio punto di vista, questo sbaglio l’ha pagato caro. Scott F. Fitzgerald, dico: l’autore. Ha pagato caro il suo errore. Sì, il libro ha venduto benissimo, ma è stato il suo ultimo vero successo. Penso che la gente l’ha letto, si è fatta convincere come me dai consigli del padre del narratore, e poi quando Gatsby muore c’è rimasta male. Tutti avranno pensato «mi piaceva un sacco quel personaggio, ma perché doveva morire?» E poi non ne hanno più voluto sapere dei libri di Fitzgerald. Ha sparato la sua ultima cartuccia, a dirla tutta. Sono cose che succedono. Non a me, ma ad altri succede.

E così il resto della sua vita non è stato un bel film. Beveva troppo, alla moglie le ha dato di volta il cervello. E a lui è venuto l’esaurimento nervoso, letteralmente. Ci ha pure scritto su un libro. L’ha chiamato The Crack-Up, cioè L’esaurimento nervoso. Non ci è andato molto per il sottile. Avrebbe fatto meglio a intitolarlo L’arte dell’esaurimento nervoso? Boh. Chi sono io per dirlo.

Ma in definitiva, credo che lui l’abbia capito qual è stato il suo errore. Perché se ne era andato a Hollywood, a lavorare per l’industria dell’entertainment, e stava scrivendo un altro libro su un imprenditore dal talento smisurato. In maniera del tutto appropriata l’aveva intitolato The Last Tycoon, ossia L’ultimo magnate. È ambientato a Hollywood e il protagonista è un produttore, il capo di uno studio, il tipo più fico di tutto il mercato cinematografico, spettacolare. Basato sulla vita di coso, il famoso produttore.

E questo personaggio qui non muore. Invece è morto lui, F. Scott Fitzgerald! Nella vita vera, muore lui. Riuscite a seguirmi? Io ci riesco, ma magari voi avete qualche difficoltà. Comunque, sta di fatto che non riuscì nemmeno a finirlo, il libro! È proprio quello che la gente di lettere chiama «ironia». L’ironia del fato. Una roba del genere non ci riesci mica a inventarla.

© David Bloom-Yastreblyansky, 2016. Tutti i diritti riservati.

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