Pochi giorni dopo l’annuncio del Premio Nobel per la Letteratura, pubblichiamo un’intervista di Yupi al nostro César Aira, che secondo molti era tra i candidati favoriti al premio. L’intervista è uscita su La lectora provisoria, che ringraziamo.
di Yupi
traduzione Chiara Muzzi
Ultimo (e unico) comunicato alle accademie
Sono stanco, seccato, indignato. So che il motivo non interessa a nessuno, ma lo dirò lo stesso, perso per perso: la possibilità che il comitato per il Nobel assegni il premio per la letteratura a qualcuno che ha descritto le dittature o ha raccontato quello che già era stato raccontato è sufficiente per farmi sentire eccitato al punto da ululare come un tenore tirolese. Il premio è per la letteratura, mi spiego? Non giornalismo, cronaca, psicologia, sociologia o poesia. Letteratura. Cioè, niente. Qualcosa di simile al piacere di imbandire una tavola alla perfezione e, allo stesso tempo, non fare niente. Chi è capace di imbandire il nulla merita il premio. Mi chiedo allora cosa aspettino a darlo a César Aira. Cosa vogliono? Una prova della sua opposizione alle dittature? Va bene, gliela darò. È l’ultimo sforzo che faccio. E attenzione che faccio sul serio.
Un paio di mesi fa ho assistito a uno dei convegni organizzati in onore di Aira a Madrid. È stato terribile. Mentre l’oratore di turno sosteneva con entusiasmo il fatto che Aira abbia raggiunto le vette più alte della letteratura in castigliano, io pensavo come il personaggio de Los misterios de Rosario: «Ah sì? E tu come ci sei arrivato qua, con gli sci?» Non chiedetemi quanto è durato. Un secondo in più e sarei morto seduto sulla poltrona, cosa che deve essere piuttosto scomoda, senza pensare alla seccatura della rimozione del corpo e le formalità all’ambasciata. Per fortuna mi è venuto in mente che Aira c’era abituato. Il suo discorso finale (8 minuti e 12 secondi) ha restituito quasi tutto il senso, ma nella mia testa un po’ di inutilità è rimasta. Quindi ho dovuto ancora una volta fermare Aira per strada e chiedergli alcune cose. Questa è stata la conversazione che abbiamo avuto mentre fumavamo una sigaretta in un vicolo.
P: Da qualche parte ho letto che durante il governo militare di Lanusse sei stato in carcere. È vero?
CA: È vero.
P: Perché?
CA: Per una manifestazione studentesca all’università.
P: Di quale partito?
CA: Di un gruppo trockista.
P: Quale?
CA: Ce n’erano così tanti che non ricordo il nome. Una volta Fogwill cercò di farmelo ricordare disegnando uno schema di tutti i gruppi e sottogruppi studenteschi di allora, ma fu inutile.
P: In quegli anni l’università era l’unico partito politico.
CA: Ricordo che a volte Perlongher entrava in aula mentre c’era lezione per fare qualche arringa. Era impressionante solo vederlo: i capelli lunghi, le collane che usava… Il professore gli diceva di andarsene subito e Perlongher gli rispondeva: «Me ne andrò quando me lo chiederanno loro», e indicava noi. Una scelta scomoda.
P: Quanto tempo sei stato in carcere?
CA: Restai un mese «a disposizione del Potere Esecutivo», come si diceva allora. Avevo i capelli lunghi e la prima cosa che fecero fu rasarci. Siccome passavano i giorni e non uscivo, mio padre si rivolse a Risieri Frondizi, che era l’avvocato specialista in quei casi. La mia libertà costò a mio padre diecimila dollari, il prezzo di un appartamento in quel periodo. L’unica cosa che disse fu: «Il taglio di capelli più caro della storia».
P: Non pensavo fossi stato in carcere, men che meno per così tanto tempo. Un ricordo?
CA: C’era un assassino molto pericoloso, il Pibe Rodríguez. Gli avevano dato una pena più dura dell’ergastolo, perché non sarebbe potuto uscire dal carcere neanche con un’attenuante. La cosa curiosa era che non mostrava nessun rimorso per i suoi delitti e pensava addirittura a quelli futuri. A proposito di chi non la pensava come lui diceva: «Se esco, la prima cosa che faccio è ucciderlo». Io gli dissi che per me era il contrario, che se mi avessero fatto uscire non avrei commesso un altro delitto. Allora uno dei poliziotti mi disse: «Ragazzo, cerca di non pensare qua dentro».
P: Dimmi qualcosa di Fogwill.
CA: Il caro Quique se n’è andato redepente, come diceva Catita.[1] Cos’altro posso dire.
P: Non so.
CA: Mi è sembrato esagerato quello che è successo alla sua morte. All’improvviso tutti erano suoi amici intimi. Chi non era stato in terapia intensiva aveva fatto colazione con lui quella mattina, o cenato con lui la sera prima, o gli dava da leggere i suoi manoscritti o viaggiava con lui. Sembrava una gara a chi gli era più amico. In un certo modo fu lui a volerlo.
P: Non posso crederci che non ci sia più.
CA: Tempo fa ho mostrato a un’amica americana, la scrittrice Rivka Galchen, le fotografie nella biografia di Osvaldo [Lamborghini, ndr]. Mi sentiva ripetere mentre le scorrevo: «Un grande amico, morto», «Un grande amico, morto». Immagino che arrivati a una certa età succeda a tutti.
P: Fogwill ti raccomandò per la pubblicazione di Ema, la prigioniera.
CA: Fogwill aveva entusiasmi improvvisi, che lo dominavano completamente. Un giorno ero a casa sua e arrivò Renata, sua moglie, e gli chiese chi fossi. Fogwill le disse: «Come fai a non conoscerlo? Lui ha insegnato a scrivere a Borges!» La donna mi guardava senza capire, perché io non avevo ancora pubblicato neanche un libro.
P: Anche Osvaldo Lamborghini ti trattava come un grande scrittore anche se non avevi ancora pubblicato niente.
CA: Infatti Fogwill lo conobbi tramite Osvaldo. Las ovejas fu l’unico testo che Osvaldo rifiutò. Gli piaceva smisuratamente tutto quello che scrivevo, ma quello no. Disse che «la caduta del Padre» alla fine del racconto era una lapide che schiacciava tutto.
P: La parodia di Borges alla fine?
CA: Sì. In realtà è una copia, non feci altro che trascrivere il finale del suo saggio Nuova confutazione del tempo cambiando i nomi di Schopenhauer, Berkeley, etc., con Betty, Moussy e altri.
P: Osvaldo era come si diceva in giro?
CA: Con me, purtroppo no. Non lo vidi mai né ubriaco, né drogato, né violento.
P: Se lo si legge sembra più un gaucho borgesiano.
CA: Le mie prime due letture importanti da giovane furono Borges e Vallejo. Se fossero sostanze chimiche, mescolandole cosa otterremmo? Osvaldo?
P: El fiord è una specie di Aleph.
CA: Ricardo Strafacce ha una teoria convincente su questo parallelismo. Dice che l’Aleph ha una scrittura molto sobria tranne in una scena, quando il protagonista vede in cantina «le lettere impudiche, incredibili» di Beatriz. Mentre El fiord è tutto sesso e sporcizia tranne per una scena sobria, l’ultima.
P: A bruciapelo: Alejandra Pizarnik.
CA: La adoravo. Cercavo di imitarla in tutto, anche nella calligrafia. Ancora oggi scrivo con la calligrafia di Alejandra. Avevo una penna stilografica Sheffer e gliela diedi in cambio di uno di quei pennarelli economici che si comprano per strada. Mi ricordo che Arturo [Carrera, ndr] era indignato, diceva che mi ero lasciato imbrogliare.
P: Si poteva presagire il suo suicidio?
CA: Non ne sono sicuro. Credo che fu un tentativo di suicidio finito male.
P: Lo dici perché fece vari tentativi?
CA: Sì. Nessuno cerca di uccidersi se si vuole uccidere davvero.
P: Saer. Come prese quell’articolo che scrivesti su di lui negli anni Ottanta?
CA: Saer lo conobbi dopo aver pubblicato proprio quell’articolo sulla rivista El Porteño. Era stato a Buenos Aires subito dopo aver vinto il premio Nadal. Ci incontrammo a una festa all’ambasciata francese e mi disse che aveva letto l’articolo e che gli sembrava il migliore che fosse stato scritto su di lui, «soprattutto quando mi attacchi». Da quel momento diventammo buoni amici, andai varie volte a casa sua a Parigi. Poi prese le distanze e mi criticò energicamente parlando di «neotilinguismo»,[2] e credo di sapere perché lo fece. Poco tempo fa sono stato a Santa Fe e mi ha stupito vedere che hanno il culto di Saer, di «Juani», quell’atmosfera in cui senti sulla pelle che non puoi parlare male di qualcuno… Spero che a me non succeda mai.
P: Non molto tempo fa in un’inchiesta argentina sul primo decennio del Ventunesimo secolo ti hanno votato come lo scrittore più influente e quello di influenza peggiore.
CA: Ero primo in entrambi i casi. Cosa importa. Ma mi è sembrato assurdo che non sia stato scelto come miglior libro del decennio Borges di Bioy Casares. Quale altro libro avrebbe potuto vincere?
P: In molti hanno cambiato idea su Bioy dopo aver letto il libro.
CA: Un amico dice che Borges di Bioy gli serve per giudicare il suo interlocutore. Se dice che non gli piace, lo scarta subito.
P: Un ragazzo mi ha detto dopo averlo letto: «Ma riusciva a formulare una frase geniale al minuto?»
CA: Lo sai perché i peronisti sono peronisti secondo Borges?
P: No.
CA: Perché li pagano.
P: Inconfutabile.
CA: L’aspetto interessante è il meccanismo. Non è una frase che s’inventò Borges. Quando gli chiesero perché lo dicesse, rispose che aveva chiesto a un gruppo di peronisti in strada perché fossero peronisti, e che gli avevano risposto: «Perché ci pagano».
P: Qualche mistero al volo. Il primo dice che a diciassette anni vincesti un concorso letterario a Buenos Aires.
CA: Sì, era un concorso della rivista Testigo. Vivevo ancora a Pringles, ero alle superiori. Arturo vinse il concorso di poesia e io quello di narrativa.
P: Perché non hai mai scritto poesia?
CA: Non credere, da ragazzo ho scritto molte poesie. Non ho continuato perché mi sono accorto di non essere un poeta e avrei scritto, nel migliore dei casi, solo finta poesia.
P: Te ne sei accorto? In che modo?
CA: Grazie all’abisso che c’era tra me e Arturo e a una prova che ho fatto. Un giorno ho dato da leggere ad Arturo alcune mie poesie per sapere cosa ne pensasse, ma ho fatto passare per mia una poesia di Raúl Gustavo Aguirre, che sapevo che lui non aveva letto. Arturo mi ha detto che le mie poesie gli erano piaciute molto, soprattutto una: quella di Aguirre.
P: Nei tuoi romanzi c’è sempre una luce poetica.
CA: Una volta un critico ha detto che sono un poeta in prosa. Spero che sia vero.
P: Ancora leggende. È vero che quando avevi vent’anni la casa editrice Galerna ti propose di pubblicare un romanzo e tu chiedesti, alla Kafka, che ti restituissero il manoscritto?
CA: Fu meno eroico. Conoscevo Abelardo Arias, che consigliò un mio romanzo a Galerna, e Alberto Manguel, l’editore di Galerna di allora, accettò di pubblicarlo. Era già pronto per andare in stampa, ma un giorno stavo passando con una ragazza vicino alla casa editrice e per fare il brillante, probabilmente per stupirla, le dissi di accompagnarmi e chiesi di restituirmi il romanzo.
P: Bella situazione per Abelardo Arias.
CA: Una ragazzata. Comunque non si persero granché.
P: Quanti romanzi hai scritto prima di Ema, la prigioniera?
CA: Non so, forse una trentina.
P: Sono da qualche parte o li hai buttati?
CA: Qualcuno credo di averlo, dovrei guardare. Ho uno scatolone che non ho mai più aperto con molte cose scritte in quel periodo. Dovrebbe essercene qualcuno.
P: Un libro che continua a fare il suo percorso è il Diccionario de Autores Latinoamericanos, che mi fa venire in mente una sola domanda: li hai letti tutti i libri citati?
CA: Ne ho letti parecchi e, se ci penso, mi stupisco dell’energia che avevo allora. Prima leggevo in modo più organico, prendevo appunti, facevo schede. Sono soddisfatto del libro. Credo che riesca a presentare a grandi linee la letteratura latinoamericana prima del Boom. Prima di García Márquez, Vargas Llosa e altri, la letteratura latinoamericana era la Amalia di Mármol, La voragine di Rivera, molti autori che furono cancellati dal Boom. Forse l’ho fatto inconsciamente anche per bilanciare l’attuale predominio della teoria. Quando andavo all’università io, non c’era tanta teoria letteraria, s’insegnava piuttosto storia della letteratura, una cosa che mi sembra importante.
P: È la prima volta che dici di essere soddisfatto di un tuo libro.
CA: Mi hanno chiesto varie volte di ampliarlo o di aggiornarlo, ma ho detto di no. Voglio che rimanga così com’è, quasi come se fosse uno dei miei romanzi.
P: Sembra un bilancio.
CA: Tempo fa un mio caro amico di La Plata, Esteban López Brusa, mi ha detto: «Ho la sensazione che ormai per te i giochi siano fatti». Sì, sì, gli ho detto, ma in realtà: no, no. Non dirò di non avere ancora iniziato, ma vivo con la preoccupazione di non fare in tempo a scrivere quello che voglio.
P: Ti staranno cercando, meglio concludere. Sei stato bene?
CA: Molto bene, sono stati tutti molto gentili, sono solo un po’ stanco. Con tutti questi convegni a cui mi invitano, la stampa, i tesisti che mi mandano domande, si moltiplicano le occasioni per parlare di me e di pensare a quello che ho fatto e perché l’ho fatto… Inizio ad avvertire un eccesso di riflessione. Magari è un bene, perché per contrasto mi fa sentire ancora di più la libertà antiriflessiva dei miei romanzi.
P: Non ti piacciono ma accetti di partecipare a molti convegni.
CA: Lo faccio per viaggiare, per uscire dalla routine di Buenos Aires. Ma se guardi i programmi dei convegni… alla fine sono tutti uguali. Se questo non è demotivante, niente lo è.
P: Perché è tanto terribile la «letteratura dell’io»?
CA: Per la mancanza di immaginazione e di conflittualità. Nei testi della «letteratura dell’io» lo spazio è ostruito dalla mancanza di immaginazione e all’autore non rimane altro che il tempo, la più deprimente delle categorie mentali. Non possono raccontare altro se non quello che gli succede, al presente, e siccome in generale non gli succede niente, il risultato è nullo.
P: Che strano il silenzio su Laiseca.
CA: Con Laiseca si commette una grave ingiustizia. È imperdonabile che si scrivano tante tesi su Bolaño e non ne sia mai stata scritta una su di lui, e che non compaia in nessun programma di nessuna università. Secondo me lui e Osvaldo sono gli unici geni autentici apparsi después de Borges, come dice quella vecchia canzone.
P: Ultima domanda, che sarebbe dovuta essere la prima. Sei più stato a Pringles?
CA: Ci sono stato quest’estate. Sono andato a casa di Arturo, la sua vecchia casa. È lì che si è svolta la cena de La cena.
P: Non dirmi che la madre del romanzo è tua madre.
CA: Sì, la prima parte del romanzo è accaduta proprio come la racconto.
P: Ogni volta che c’è in un tuo romanzo, la figura della madre depressa e combattiva ti viene benissimo.
CA: Mi fai venire in mente un aneddoto. Anni fa ero con Fogwill qui a Madrid e lui era tutto preso dal cambio di valuta, faceva calcoli, imprecava, diceva che ci avevano imbrogliati. A un certo punto gli dissi di smetterla di lamentarsi perché sembrava mia mamma. Replicò immediatamente: «No. Io sono tua mamma».
[1] Personaggio dello spettacolo Y… se nos fue redepente, creato dalla famosa scrittrice satirica e attrice argentina Niní Marshall. [n.d.t.]
[2] Da tilingo: persona che crede di essere elegante, colta e intelligente, ma rivela piccolezza e inconsistenza.
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