Pubblichiamo un intervento di Andy Hines sulla figura di Robert Penn Warren e sul New Criticism. L’articolo è stato pubblicato originariamente su Public Books. Ringraziamo l’autore e la testata.
di Andy Hines
traduzione di Giuliano Velli
1 agosto 2015 — Mentre montava la protesta per la morte di Freddie Gray, Sidette Harry ha segnalato su Twitter un ulteriore aspetto del razzismo istituzionale verso i neri tanto diffuso negli Stati Uniti. La Harry scrive: «Buffo come tanta gente, che si è emozionata guardando The Wire, si ritrovi sbigottita se a emozionarsi è chi The Wire lo vive ogni giorno». Il suo tweet coglie l’ironia del fatto che un’audience prevalentemente bianca possa empatizzare e comprendere un tipo di televisione «autentica», e poi irritarsi, sorprendersi o scadere nell’inerzia davanti alle proteste e al dissenso nelle strade.
La sua ironia ci ricorda un aneddoto presente nel capitolo di apertura di Chi parla per i negri? (1965) di Robert Penn Warren, riedito lo scorso anno dalla Yale University Press dopo essere stato a lungo esaurito. Warren racconta di aver visto, di fronte a un cinema di Baton Rouge, un bianco prendere a cinghiate un giovane di colore. Warren rimase nella sua macchina considerando la possibilità di intervenire, per poi risolversi a non farlo. Non era la paura la causa della sua esitazione, ma «qualcosa di peggiore, un repentino, scioccante senso di isolamento. Non avevo mai avuto una sensazione del genere prima», rammenta, «la sensazione paralizzante di essere un completo estraneo nella mia stessa comunità». Alla fine intervenne un giocatore di football bianco della Louisiana State University. Warren lo definisce un «eroe», non perché sia andato in soccorso del giovane di colore, ma per avergli risparmiato il disturbo di farsi «coinvolgere».
Warren, come chi ha empatizzato per i personaggi di The Wire più di quanto abbia fatto per Freddie Gray, è in grado di sostenere la scena solo da lontano. Anziché intervenire, Warren interpreta il pestaggio del giovane di colore innanzitutto come un evento che fa luce sui suoi complessi psicologici ed emotivi. Anche a cinquant’anni dalla sua pubblicazione, il libro di Warren ci offre un esempio importante, ma fondamentalmente viziato, di come gli americani bianchi percepiscano e agiscano nei confronti della rappresentazione della vita dei neri: di fronte alla realtà delle aggressioni – micro e macro – contro la gente di colore negli Stati Uniti, la maggior parte dell’America bianca è paralizzata, e si aspetta dalle vittime la stessa passività.
Il libro appena descritto, ovviamente, non è quello che Warren si era prefisso di scrivere. Nelle intenzioni dell’autore, Chi parla per i negri? vuole essere una cronaca del proprio tentativo di comprendere in prima persona il Movimento per i Diritti Civili. Warren spera di comunicare al suo lettore, attraverso interviste con quasi cinquanta leader del Movimento, tra cui Martin Luther King, Stokely Carmichael e Malcolm X, l’esperienza diretta di quella che occasionalmente definisce la «Rivolta dei Negri». Scrive nell’introduzione che il libro consiste «soprattutto nella riproduzione di conversazioni, complete di ambientazioni e commenti. Quello che vorrei, in altre parole, è che il lettore vedesse, ascoltasse e provasse, con quanta più immediatezza possibile, quello che ho visto, ascoltato e provato io». Certamente questa può essere una chiave di lettura per Chi parla per i negri? Tuttavia, se il libro va davvero inteso come uno strumento di accesso diretto alla storia, il lettore odierno farebbe meglio ad ascoltare le registrazioni delle interviste di Warren. (Grazie all’archivio in rete di registrazioni digitalizzate, reperti e trascrizioni di interviste, ospitate dal Robert Penn Warren Center for the Humanities presso la Vanderbilt University, chi lo desiderasse può farlo.)
Nella sua introduzione, David Blight colloca eccellentemente Chi parla per i negri? nel contesto della lunga e organica carriera di Warren come romanziere, poeta e critico, oltre a fornire un ottimo resoconto dell’approccio da lui impiegato nel libro per intervistare la compagine prevalentemente maschile dei leader di colore del Movimento per i Diritti Civili. Blight sottolinea che Warren «può risultare problematicamente superato» sotto alcuni aspetti, tra cui il ruolo preponderante assegnato a sociologia e psicologia come strumenti di razionalizzazione degli stereotipi. Allo stesso tempo evidenzia alcune delle intuizioni più esemplari del libro, che anche il lettore contemporaneo troverà incisive. Tra queste il modo in cui Warren demolisce la soddisfazione passiva che i bianchi provano nel redimersi dal proprio senso di colpa: «La tendenza dei bianchi a immergersi in una calda e piacevole vasca di sensi di colpa, per quanto gradevole possa sembrare mentre si affonda nella schiuma, non aiuta la popolazione di colore». Sebbene la critica di Warren al sentimentalismo bianco sembri cogliere nel segno, tanto più considerate le sue origini sudiste, le forti dosi di ironia presenti in Chi parla per i negri? – ironia che secondo Blight Warren «inspirava ed espirava come fosse aria» – finisce spesso per invalidare le lodevoli conclusioni del testo.
Sebbene l’ironia di Warren ne inficia il valore come saggio storico, il libro come reperto storico rimane incredibilmente istruttivo. Chi parla per i negri? ha indubbiamente tanto da insegnarci su come il pubblico bianco colto è stato abituato a comprendere gli eventi di Ferguson, New York, Baltimora, o dovunque l’incendio scoppierà la prossima volta. Nel tentativo di scrivere un resoconto diretto, Warren riduce l’ineguaglianza razziale degli anni Sessanta a una storia di ascesa, caduta e circolazione di un numero di metonimie-simboli che operano come surrogati della cosa stessa. Così facendo legge il mondo come se fosse argomento di critica letteraria. Nel mettere in pratica il tipo di critica da lui teorizzata, Warren ricerca una voce coerente che unifichi ironie e paradossi del Movimento dei Diritti Civili.
Questo è evidente soprattutto nel tema che dà titolo al libro: l’identificazione di una voce specifica che parli per la totalità dell’America nera. Warren è indubbiamente più interessato a trovare una voce collocabile al centro del movimento di quanto lo sia a trovare una persona; un approccio, questo, in cui riecheggia l’enfasi che Warren, nel suo lavoro di critico letterario, dava all’identificazione e rappresentazione del «soggetto parlante» di un testo poetico. Nel 1960, lui e Cleanth Brooks, nel tentativo di chiarire la relazione tra il tono di una poesia e il suo soggetto parlante, aggiunsero un paragrafo al loro fondamentale manuale Understanding Poetry:
Esistono, tuttavia, molteplici sfumature tra un’identificazione di tipo letterale e un «Io» puramente fittizio, e, ai fini della nostra analisi, il grado di identificazione autobiografica non è necessariamente fondamentale. Ciò che interessa è il fatto che il soggetto parlante della poesia, che sia realmente esistito o immaginario, esprima un certo modo di pensare mediante l’uso specifico che fa del linguaggio.
Warren e Brooks rilevano la disgiunzione della voce del poeta da quella del soggetto parlante della poesia. Questa separazione, che quando viene violata dal lettore produce quello che i loro colleghi W.K. Wimsatt e Monroe Beardsley chiamavano errore intenzionale, può avere senso nella lettura della poesia, ma è di discutibile logica ed efficacia quando l’obiettivo è descrivere il Movimento dei Diritti Civili.
Il risultato dell’attenzione di Warren è l’alienazione dei corpi dei leader del Movimento, la predilezione per la voce sopra ogni altro elemento. Ad esempio, dopo aver descritto La prossima volta, il fuoco, Warren sembra complimentarsi con James Baldwin: «È diventato una voce». Analogamente, nell’introduzione dell’intervista a Martin Luther King, attribuisce a quest’ultimo la capacità di dare al movimento ciò di cui ha più bisogno, «una voce per spiegarsi a sé stesso». Rendere incorporea e al tempo stesso feticizzare la voce nera è stato a lungo lo strumento privilegiato dell’appropriazione e utilizzazione, da parte dei bianchi, dell’estetica e dell’arte performativa dei neri[1]. Considerare le voci di Baldwin e King come rappresentative del «Negro» significa inoltre negare la pluralità esistente all’interno dell’America di colore, asserire che ogni dissenso interno all’insieme alla fine si risolve in una voce rappresentativa. In un certo senso Warren rende il singolare plurale e il plurale singolare. Quest’interpretazione simbolica, piuttosto che sociale o materiale, che Warren dà delle lotte sociali, offusca le condizioni di vita della gente di colore, e finisce per limitare la portata delle azioni che potrebbero essere intraprese per smantellare suddette condizioni.
Chi parla per i negri? è un’opera di critica letteraria travestita da opera storica. Per questo motivo il libro esamina la vita come fosse letteratura, cadendo così vittima di un errore metodologico,. Tuttavia confondere la vita con la letteratura – o la letteratura con la vita – è un’azione possibile solo quando la letteratura è concepita come separata dal mondo. Non è una coincidenza che Warren facesse parte di quei «New Critics» che hanno fatto di questa distinzione un elemento fondamentale degli studi letterari nell’accademia statunitense. Durante gli anni Quaranta e Cinquanta, i New Critics promuovevano ampiamente, nonostante non fosse un concetto da loro stessi introdotto, l’idea che l’opera d’arte è ontologicamente distinta e separata dal mondo. Oltre a Warren, altri New Critics come Cleanth Brooks, Allen Tate, e John Crowe Ransom portarono l’oggetto letterario (e il metodo del «close reading», essenziale a decifrarlo) al centro degli studi letterari nelle università e accademie statunitensi a predominanza bianca.
Nonostante nell’ultimo decennio gli studiosi abbiano rivolto la loro attenzione verso il «distant reading», «surface reading» o «closed but not deep reading», molti studenti nelle classi universitarie di oggi incontrano, come era successo ai loro genitori, una versione modificata del New Criticism. Sebbene siano stati in molti a mettere in discussione e ampliare il ristretto canone di scrittori, maschi e bianchi, abbracciato dai New Critics, destituire di validità le premesse metodologiche del New Criticism si è rivelato molto più difficile. Anzi, anche schieramenti ideologicamente opposti alle politiche conservatrici dei New Critics continuano a basarsi su metodi simili. È famosa la definizione, data da Edward Said, del post strutturalismo come di un «new New Criticism», ed è stata suggerita da molti critici l’idea che l’orientamento metodologico del New Criticism abbia effettivamente aperto le porte ad approcci più eterodossi di studi culturali[2]. Le numerose sfide lanciate al close reading non fanno che confermarne il predominio. Il fatto stesso che un metodo apparentemente aperto debba essere sfidato dimostra che il close reading non è, né è mai stato, politicamente neutro.
Uno dei più mal celati segreti nell’ambiente degli studi letterari è che i New Critics coincidevano sostanzialmente con i Southern Agrarians, un gruppo che proponeva per il Sud degli Stati Uniti il ritorno alle radici economiche anteguerra, fondate sull’agricoltura. Gli Agrarians riuscirono, in un certo senso, a fabbricare un sentimento di nostalgia per l’economia delle piantagioni, la quale era tenuta in piedi dal lavoro degli schiavi, senza tenere in considerazione il problema della razza. Il loro programma venne delineato nella raccolta di saggi I’ll Take My Stand, pubblicata nel 1930. Considerato che il contribuito di Warren alla raccolta difendeva la segregazione – in Chi parla per i negri? sostiene di non aver più letto quel saggio dopo la pubblicazione – è chiaro come l’assenza totale di attenzione per l’ineguaglianza razziale in I’ll Take My Stand non sia casuale. Una forma sfacciata di razzismo verso la gente di colore si rivela nella raccolta sotto forma di un’omissione storica. Se l’obiettivo degli Agrarians era di inventare una memoria del Sud, il mezzo per raggiungerlo era la rimozione della sua istituzione più brutale e delle sue vittime. Al fine di salvare la tradizione letteraria, i New Critics compiono un’analoga rimozione, in questo caso considerando irrilevante ogni circostanza storica estrinseca all’opera letteraria. Non solo la narrativa del Sud dell’anteguerra, ma qualsiasi tradizione letteraria che facesse riferimento a storie coloniali di sfruttamento e oppressione, veniva resa «innocua» a beneficio dei lettori moderni.
Gli studiosi hanno spesso definito il New Criticism astorico, ma è una definizione che si spinge troppo in là. Brooks and Warren infatti, in Understanding Poetry, ipotizzano che la letteratura può fare parte della storia, ma aggiungono una precisazione importante:
Sebbene si possa considerare una poesia come un’istanza di documentazione etica, o storica, è la poesia in sé stessa, se la letteratura va studiata come letteratura, che rimane sempre l’oggetto dello studio. Oltretutto, anche se l’interesse è per la poesia in quanto documento storico o etico, va fatta una considerazione a priori: è necessario comprendere la poesia come costruzione letteraria prima che possa offrire qualsiasi reale illuminazione come documento.
Nel linguaggio dei New Critics, «documento» sta per oggetto che possiede una valenza storica. La letteratura, però, non ha valore storico, ma di tradizione. Ovvero, la letteratura ha una rilevanza universale e una propria temporalità, mentre i documenti sono rilevanti solo in riferimento a un particolare qui e ora. D’altra parte, ciò che indica il passaggio precedente è che la comprensione del qui e ora necessita di un approccio generalmente riservato all’universale. Un New Critic, ad esempio, nella recensione di Uomo invisibile di Ralph Ellison, scrisse che l’invisibilità affrontata dal protagonista è «il destino di tutti gli uomini del nostro tempo»[3]. Un concetto che sarebbe valido qualora l’invisibilità fosse considerata in astratto come fenomeno generale, ma il soggetto del romanzo di Ellison è l’invisibilità nel contesto dei movimenti politici dei neri, e l’insicurezza della gente di colore che vive in una società razzista. La critica letteraria ha avuto indubbiamente la tendenza a interpretare le opere che affermano «black lives matter», come se affermassero «all lives matter».
Più in generale, Warren e Brooks hanno spianato la strada all’uso dei metodi di critica letteraria sui «documenti». Questo sottile sviluppo allarga i confini della critica letteraria e, come ho accennato prima, permette l’espansione del canone. Nel momento in cui il mondo intero diventa testo letterario, qualsiasi tipo di empatia, comprensione o mutamento politico deve passare attraverso il circuito dell’interpretazione.
Leggere i documenti con la lente della critica letteraria potrebbe non sembrare una grande rivoluzione, ma è l’idea che sta alla base di Chi parla per i negri? e dell’approccio di Warren all’interpretazione del Movimenti dei Diritti Civili. Seguire questo approccio crea una distanza tra il critico e l’oggetto di cui si occupa, anche nel caso in cui il critico non è effettivamente separato dagli eventi. Nell’aneddoto sul pestaggio a Baton Rouge, Warren mette in scena la separazione tra l’evento in sé e il suo osservatore passivo. Warren interpreta il secondo ruolo, arrivando così alla conclusione che lo studente della LSU che interviene, prima che la giovane vittima di colore, stia salvando Warren stesso. Lo studente salva Warren dalla possibilità di dovere divenire parte del mondo. Dalla sua posizione protetta di «critico dell’evento», Warren conclude che questo evento riguarda la sua psiche e non le condizioni di vita dei neri. Un pestaggio diventa una cosa astratta, che rimanda a una ferita esistenziale interiore e apparentemente universale, la condizione ineluttabile dell’intellettuale, del poeta o dello scrittore.
Chi parla per i negri? si spinge oltre. In chiusura del libro, Warren considera le sue interviste come la prova di una verità che trascende i confini storici: «non c’è dubbio che i bianchi debbano ammettere il “fallimento” della loro cultura e della civiltà occidentale». Per il Warren di Chi parla per i negri? le radici del fallimento della cultura bianca non sono da imputare, come invece era stato per il giovane Warren, all’industrializzazione e alle forme di capitalismo avanzato. Al contrario, se la società bianca fallisce è perché i valori che predica, «il rispetto del valore dell’anima individuale e della persona, il rispetto dei diritti umani, la conquista di un ideale comune di libertà, il conseguimento della giustizia, la pratica della carità cristiana», permangono solo nell’ambito delle idee, non nella pratica. Eppure, le quattrocento e più pagine in cui Warren si confronta costantemente con le condizioni di vita dei neri sembrano riproporre questo fallimento: il libro si conclude con un’astrazione universale riguardo i bianchi e la loro civiltà, e a farne le spese sono il qui e ora del Movimento per i Diritti Civili e la vita sociale dei neri. Chi parla per i negri? dimostra cosa succede quando un libro insiste sul fatto che il vissuto reale non è una rappresentazione. L’insistenza di Warren sul fatto che il suo libro è un resoconto diretto fuorvia il lettore portandolo a considerare il razzismo verso i neri negli Stati Uniti come una lotta di simboli astratti.
Il New Criticism e il «close reading» sono stati così a lungo dominanti nei dipartimenti di inglese, compresi i corsi di scrittura obbligatori per quasi tutti gli studenti, che molti americani con istruzione superiore sono stati educati a vedere il mondo secondo quest’ottica. Non è mia intenzione suggerire che ci sono milioni di dogmatici del New Criticism che vagano per il paese, e che la loro aderenza ai dogmi della critica letteraria li induca a perpetuare il razzismo verso i neri. L’impatto del New Criticism è stato più sottile, ambientale, e Chi parla per i negri? lo illustra alla perfezione. Warren non afferma mai che quella che compie è un’analisi critica di tipo letterario delle sue interviste. Anzi, ciò che spera di fare è esattamente l’opposto. Tuttavia, le «ambientazioni e i commenti» del libro risentono dell’influenza di una forma approssimativa e modificata del suo approccio critico. I teorici della cospirazione lo considererebbero probabilmente un artificio deliberato, ma Warren non sembra così subdolo. La sua tendenza a leggere la vita attraverso la critica letteraria, invece, anticipa e prefigura come la critica oggi si diffonda e si palesi fuori, e spesso dentro, le aule universitarie: in modo parziale, idiosincratico e asistematico.
Il razzismo è certamente caratterizzato da manifestazioni sistematiche, ma anche da manifestazioni idiosincratiche. Un libro come Citizen di Claudia Rankine richiama l’attenzione su questo secondo tipo di manifestazioni, apparentemente più effimero, ma altrettanto forte. Chi parla per i negri? suggerisce che anche i tentativi di capire il proprio razzismo possono, sfortunatamente, generare altri casi di razzismo. Si sarebbe tentati di ritenere che Chi parla per i negri? fosse per Warren il libro della redenzione, dimostrando la sua capacità di mettersi alle spalle i propri giorni di Agrarian e le origini sudiste. Ma questo tipo di lettura si concentra, proprio come il suo libro, non sulle lotte della gente di colore che vive in una società razzista, ma sullo sforzo dei bianchi di essere buoni, onesti e antirazzisti. Almeno per i bianchi, questo è uno sforzo importante. Ma altrettanto importante è che la gente di colore viene incarcerata e uccisa dalla polizia a un ritmo allarmante. Rivendicare comprensione ed empatia per The Wire ma non per i neri che vivono a Baltimora vuol dire privilegiare la battaglia morale dei bianchi, battaglia che è sempre stata privilegiata. Warren cercò di mostrare come quelle due battaglie siano intrecciate, ma leggere il mondo come fosse un analogo di The Wire, sfortunatamente, non gli ha permesso di portare a compimento il suo tentativo. Cinquant’anni dopo, come ha osservato Sydette Harry, poco è cambiato.
© Andy Hines, 2015. Tutti i diritti riservati.
[1] Due opere fondamentali sui minstrel show e il loro ruolo nella formazione dell’identità bianca sono: Love and Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class (Oxford University Press, 1993); e David Roediger, The Wages of Whiteness: Race and the Making of the American Working Class (Verso, 1991).
[2] Catherine Gallagher scrive: «Negli anni Sessanta e negli anni Settanta, i dipartimenti di inglese erano eclettici e teoricamente aperti, non a dispetto del New Criticism, ma grazie ad esso». Gallagher, «The History of Literary Criticism», Daedalus, vol. 126, no. 1 (1997), p. 142.
[3] Richard Chase, «A Novel Is a Novel», The Kenyon Review, vol. 14, no. 4 (1952), p. 682.
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