L’inseguitore, forse il più celebre racconto di Julio Cortázar, è in libreria, in una nuova traduzione e in edizione illustrata, arricchito dalle splendide tavole di José Muñoz.
Dai monologhi improvvisati del protagonista ai tecnicismi del linguaggio musicale, Ilide Carmignani racconta l’esperienza di traduzione e ritraduzione del testo. Questo articolo è apparso in versione ridotta su La Stampa.
di Ilide Carmignani
Raccontano che quando Onetti, il grande scrittore uruguayano, lesse L’inseguitore, andò in bagno e spaccò lo specchio con un cazzotto. Poi scrisse una lettera a Cortázar, lui che scriveva così poche lettere, esprimendo tutto il suo entusiasmo. Da allora L’inseguitore è diventato forse l’opera più famosa di Cortázar, insieme a Rayuela (Il gioco del mondo), di cui rappresenta una sorta di folgorante anticipazione.
Inserito nel 1959 all’interno del volume Le armi segrete, L’inseguitore è molto lontano dai racconti neo-fantastici pubblicati fino ad allora, con case occupate, pesci in acquario e sacrifici aztechi. Cortázar, stanco del gioco letterario fine a sé stesso, sente il bisogno di indagare il rapporto che lega l’arte alle vicende umane e altre tematiche esistenziali che col tempo lo porteranno all’impegno civile. Dichiarerà in seguito: «Se non avessi scritto L’inseguitore non avrei potuto scrivere Rayuela. L’inseguitore è un piccolo Rayuela. Ha già dentro i problemi di Rayuela. I problemi di un uomo che scopre di colpo, Johnny in un caso e Oliveira nell’altro, che una fatalità biologica lo ha fatto nascere e lo ha gettato in un mondo che lui non accetta […] entrambi hanno un destino tragico perché sono contro».
La svolta ha una genesi complessa, Cortázar rivela che è stato a lungo assillato dalla storia ma che non riusciva a trovare il protagonista, un personaggio che non fosse «una marionetta al servizio di un’azione fantastica». All’inizio pensa a uno scrittore, perché «uno scrittore è un tipo problematico», ma scarta l’ipotesi, troppo banale, poi pensa a un pittore, ma senza molto entusiasmo, finché un giorno del 1955 legge sul giornale che è morto Charlie Parker, il leggendario sassofonista che ha rivoluzionato il jazz, ed è l’illuminazione. Nasce Johnny Carter, misto come nome di due famosi sax contralto, Johnny Hodges e Benny Carter, ma in debito per tutto il resto con l’amatissimo Bird. Cortázar scrive di getto la prima scena, si blocca, è insolito che non riesca ad andare avanti, ci riprova l’indomani, invano, si inquieta, e alla fine butta l’incipit in un cassetto. Finirà L’inseguitore solo parecchio tempo dopo, quando per un contratto da traduttore alle Nazioni Unite dovrà passare qualche mese a Ginevra, città che lo annoia profondamente.
L’amore di Cortázar per il jazz era del resto molto antico. Già nel 1938, all’interno del suo primo libro, Presencia, pubblicato con lo pseudonimo di Julio Denis, gli aveva dedicato un sonetto, Jazz appunto, e nel 1952, nel Giro del giorno in ottanta mondi, aveva riservato varie pagine a Lester Young, Clifford Brown, Louis Armstrong, Thelonius Monk e allo stesso Charlie Parker.
Omaggio appassionato e insieme riflessione critica sul rapporto fra vita e arte, L’inseguitore si concentra sugli ultimi giorni del jazzista, dipinto come un Orfeo furioso, un po’ Prometeo e un po’ Sisifo, profeta ribelle e al tempo stesso vittima. L’ossessivo inseguimento con cui Johnny riesce per un attimo, attraverso la musica, a uscire dal tempo segnato dagli orologi e a raggiungere una dimensione che va oltre l’esistenza umana, gli concede tratti eroici, quasi divini. Johnny suona il sax come solamente un dio può suonarlo «supponendo che abbiano abbandonato la lira e il flauto», fa impazzire la gente che lo ascolta e, quando registra «Amorous», un amico commenta che se Dio quel giorno era da qualche parte era in quella sala di incisione. E tuttavia, l’impossibilità di appropriarsi definitivamente di ciò che insegue sprofonda il protagonista nella disperazione, lo spinge a ogni tipo di eccesso, primo fra tutti la droga. Johnny Carter è per Cortázar «un uomo che non pensa, che sente. Che sente e reagisce attraverso la sua musica, i suoi amori, i suoi vizi, la sua disgrazia, tutto».
Se il protagonista dell’Inseguitore è Johnny, a narrare la vicenda in prima persona è l’amico Bruno, critico musicale e biografo del sassofonista, che rappresenta l’altra faccia della creazione artistica, quella tutta intellettuale di chi con qualche fremito d’invidia analizza, classifica, sanziona, e pragmaticamente si cura, non senza una certa avidità, delle ricadute economiche, e condanna ogni eccesso con molto buonsenso e timore borghese. Insomma, adottando una terminologia cortazariana, Bruno è senz’altro un fama e Johnny un gran cronopio.
Il resto delle figure che popolano la scena parigina dell’Inseguitore adombrano più o meno tutte personaggi reali. Cortázar conosce piuttosto bene la biografia di Parker. Non sappiamo di quali fonti si sia servito ma emergono molti dettagli: l’infanzia poverissima, l’educazione religiosa, la vita promiscua, la droga, i vari matrimoni, i sax smarriti o spaccati o dati in pegno, le prove e i concerti saltati, i periodi trascorsi nelle cliniche psichiatriche di Camarillo e Bellevue, l’incendio della camera d’albergo, la fine a New York. L’ex moglie Chan diventa Lan, la figlia morta Pree diventa Bee, la baronessa Pannonica (detta Nica) de Koenigswarter, amica e mecenate, diventa Tica, e così via per altri critici e musicisti.
Ma il jazz per Cortázar non è solo una passione musicale, lui che pure aveva un’immensa collezione di vinili, frequentava i concerti e suonava la tromba (maluccio, secondo Alberto Jonquières, l’autore delle famose foto del 1967 in cui lo scrittore appunto suona la tromba). Per Cortázar il jazz è anche un prototipo di creazione artistica, un modello per il linguaggio letterario. Nel Giro del giorno in ottanta mondi, proprio a proposito di Charlie Parker, Cortázar parla dei take, e cioè delle registrazioni di uno stesso tema nel corso di un’incisione, sottolineando come nei take la creazione implichi la critica, tanto che ci si interrompe spesso per ricominciare; il take successivo però non è mai una versione migliorata del precedente, se davvero è bello diventa qualcos’altro, e così conclude: «Il meglio della letteratura è sempre il take, rischio implicito nell’esecuzione, margine di pericolo che fa il piacere della guida, dell’amore, con ciò che comporta di perdita sensibile, ma anche con quell’impegno totale che su un altro piano offre il teatro, la sua impareggiabile imperfezione di fronte al perfetto cinema. Io non vorrei fare altro che take».
L’improvvisazione del take, che cancella le differenze fra artista e critico, è anche in grado di unire in un evento irripetibile chi fa musica e chi ascolta o, se vogliamo, chi scrive e chi legge, trasformando il lettore in un compagno di viaggio «compartecipe e cosofferente», un complice che vive nello stesso momento e nello stesso modo l’esperienza attraverso cui sta passando l’autore.
Non stupirà quindi che L’inseguitore si sviluppi sotto più aspetti come un’improvvisazione. Johnny non solo vive improvvisando, seguendo i suoi impulsi, ma parla come se improvvisasse. Le sue conversazioni con Bruno, così come i lunghi monologhi, suonano sconnessi, disarticolati, pieni di riprese e di varianti: riflessioni filosofiche sulle differenze – diremmo noi – fra Kronos e Aion, digressioni sul passato, divagazioni oniriche, citazioni implicite e spesso libere che vanno da Dylan Thomas all’Apocalisse. Ma anche Bruno, voce narrante del testo, rompe a suo modo gli schemi temporali attraverso un uso insolito dei verbi: le varie parti dell’Inseguitore privilegiano infatti tempi diversi scissi dalla loro sequenza oggettiva – passato prossimo, presente, futuro, passato remoto – rafforzando la sensazione ora di immediatezza, ora di inevitabilità, ora di ricordo.
Il jazz influisce inoltre sull’aspetto ritmico della pagina, lo swing del fraseggio palpita nel testo appoggiandosi a volte sulle congiunzioni della paratassi, a volte sulle ripetizioni, a volte inglobando le battute dei dialoghi, a volte tagliando a sua misura la sintassi. Un ritmo più complesso da restituire di una semplice struttura metrica, senza il quale però la prosa di Cortázar non sarebbe la prosa di Cortázar.
Si ripete sempre, secondo una metafora un po’ logora, che il traduttore mette i piedi nelle orme dello scrittore, e mettere i piedi nelle orme dell’Inseguitore ha voluto dire anche questo per me, seguire disorientata il flusso dei suoi take, sentendosi sicuramente più «compartecipe e cosofferente» del lettore che non ha la responsabilità di passare ad altri la sua lettura. Poi, con l’ossessività tipica del mestiere, spero di aver pian piano ritrovato la strada.
Verso la fine del lavoro, come di consueto, ho letto le traduzioni in altre lingue, e cioè The Pursuer (1963) di Paul Blackburn, e L’Homme à l’affût (1963) di Laure Guille-Bataillon, entrambi amici personali di Cortázar, suoi traduttori storici e per qualche tempo addirittura agenti. Laure Guille-Bataillon mi ha più volte atterrito con la sua audacia, dando colpi di forbice là dove il disorientamento nel testo si faceva davvero grande e confermando ancora una volta la vecchia tesi secondo la quale il traduttore non si concede mai tante libertà come quando ha a fianco lo scrittore. Io non ho osato farlo. Blackburn da parte sua, al di là dell’impostazione naturalizzante, orientata sulla cultura di arrivo, tipica del mondo anglosassone, compie una scelta altrettanto ardita, che confesso ho avuto la tentazione di imitare. Solo la tentazione. Mi spiego meglio: Cortázar, che evidentemente non aveva molta dimestichezza con le droghe, lega la tossicodipendenza di Johnny e i conseguenti eccessi, come dar fuoco al letto dell’albergo, alla marijuana e non all’eroina, di cui notoriamente faceva uso Charlie Parker. Blackburn, per evitare che il lettore patisse l’incongruenza o sorridesse davanti a tanta ingenuità, sostituisce senza tremare una droga con l’altra. Ho consultato infine anche la traduzione tedesca di Rudolf Wittkopf, Der Verfolger (1978), più aderente all’originale e vicina a noi come strategie di mediazione.
All’ultimo, quando la mia traduzione era finita, per non subirne l’influenza in una fase ancora acerba della mia lettura, ho esaminato la precedente traduzione italiana, pubblicata nel 1963 da Rizzoli (poi ripresa da Einaudi) a opera di Francesco Vian, più noto come Cesco Vian, nato nel 1912, ispanista. È necessario conoscere la ricezione, perché è attraverso quell’interpretazione che l’opera si è diffusa nella nostra cultura, fosse anche solo per discostarsene. Non è la prima volta che ritraduco ma stavolta, forse per gli anni trascorsi, mi sono immaginata spesso quel traduttore, allora più o meno coetaneo mio, chino sulle stesse parole nei tempi lontani del boom economico, tormentato forse dagli stessi dubbi, oppure sicuro di sé là dove io in questi tempi di crisi economica esitavo ed esitavo. Cinquant’anni che hanno cambiato l’Italia e l’italiano, e così «egli» suona ormai piuttosto polveroso. Cinquant’anni che hanno cambiato sotto certi aspetti anche il modo di tradurre, ad esempio le ripetizioni, che in un autore sorvegliato come Cortázar non si sinonimizzano più.
Una scelta difficile è stata senz’altro quella del titolo. Cambiare un titolo che accompagna da tempo un’opera è una responsabilità, provoca confusione nel lettore, ma mi è parso, e la redazione di SUR ha condiviso il mio parere, che il testo non ci lasciasse altra scelta. Secondo i dizionari spagnoli, ad esempio quello della Real Academia, il verbo perseguir significa in prima accezione «inseguire», in seconda «dare la caccia» e solo in terza «perseguitare», mentre «perseguire» è la quarta e ultima accezione. El perseguidor diventa quindi naturalmente L’inseguitore, tanto più che nel testo Johnny persigue en vez de ser perseguido, «insegue invece di essere inseguito», visto che certo non perseguita nessuno anzi i suoi sono, puntualizza Cortázar, «gli imprevisti del cacciatore non dell’animale braccato».
Per il linguaggio musicale, che come tutti i linguaggi settoriali riserva ai profani grandi insidie, mi sono affidata a un sassofonista che essendo anche traduttore poteva cogliere perfettamente le problematiche di mediazione linguistico-culturali, e cioè Stefano Chiapello, che è arrivato a inviarmi la registrazione di «Lover Man» («Amorous» nel libro) indicando il secondo esatto in cui iniziava «la selvaggia caduta finale, quella nota sorda e breve che mi è sembrata un cuore che si rompe». Per tutto il resto ho avuto a fianco a sostenermi nella revisione Francesca Erba, l’angelo custode che da Adelphi mi accompagna in tutti i libri di Roberto Bolaño, e Giulia Zavagna, caporedattrice SUR ma soprattutto traduttrice di tre bei volumi del carteggio cortazariano.
Non so come me la sono cavata, giudicheranno i lettori. Posso solo ripetere questo. Valery Larbaud in Sotto la protezione di san Girolamo, diceva che il traduttore deve essere umile, così da non voler riscrivere il testo, e al tempo stesso deve essere orgoglioso perché tradurre è un’impresa da far tremare le vene dei polsi. Fruttero e Lucentini invece, nei Ferri del mestiere, sostenevano che il traduttore deve avere, insieme e a freddo, lo sguardo d’aquila di Napoleone e la maniacale pignoleria del più infimo furiere. Cito loro perché io francamente non lo so, ci vogliono troppe cose, non ultima una grande passione perché, come scriveva Cortázar stesso in Carta carbone, quello del traduttore è «un mestiere infernale non appena si mette un pezzettino di cuore in ciò che si fa».
© Ilide Carmignani, 2016. Tutti i diritti riservati.
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