Pubblichiamo oggi un assaggio della lezione tenuta da Johnny Marr all’Università di Salford in cui sprona gli studenti a essere degli outsider e rompere gli schemi. La versione integrale del pezzo è stata pubblicata sul numero di luglio del Mucchio, che ringraziamo per la concessione.
di Johnny Marr
traduzione di Sara Marzullo e Massimo Palma
Non sono affatto una persona cinica. Non odio l’industria musicale. Ho avuto il grande privilegio di lavorare come musicista per più di vent’anni. Lo faccio ancora e spero continui così ancora per un po’, quindi posso dirmi contento di questo lavoro e di far parte del mondo culturale inglese. L’industria musicale inglese, però, non ha mai, e dico mai, creato qualcosa, da quando esiste. Non ha prodotto nessuna innovazione. Ha fatto un sacco di cose buone – ha portato alla ribalta grandi innovatori e fatto in modo che grandi dischi e grandi eventi potessero accadere – ma niente che abbia valore è mai stato creato all’interno dell’industria musicale, inglese o americana. Il cambiamento è sempre venuto da fuori – da quegli outsider che si erano formati nel mondo reale. Queste persone, per necessità, spinte da un rifiuto, dalla frustrazione, o perché avevano il talento e una visione, si sono costruite la loro Arca personale e sono salpate al fianco dell’industria musicale, o l’hanno persino preceduta. Si sono creati un loro mercato. Hanno provveduto da soli al loro dipartimento di ricerca e sviluppo. Lo hanno fatto, e lo fanno ancora, suonando in minuscoli locali, di fronte a una manciata di persone, dandosi una mano con gli altri gruppi, guidando su e giù per il paese stipati dentro ai loro furgoni. Lo fanno negli studi di registrazione che hanno messo in piedi da soli. Usando Soundcloud e Facebook. Non partecipano a X Factor.
Si è sempre trattato di persone che arrivavano da fuori. Prendete Les Paul e quanto ha cambiato il modo di registrare le chitarre: era stato bollato come uno svitato. I Beatles sono forse l’esempio più lampante, scartati dalla Decca per la loro formazione chitarristica. Non c’è un tizio che si è inventato Bob Marley, né una persona che se n’è uscita coi Sex Pistols, Kurt Cobain o Jay-Z – sono stati loro a inventarsi da soli e sono stati rifiutati. Erano degli outsider.
Il primo oggetto non convenzionale che abbia mai visto è stato Spiral Scratch dei Buzzcocks, quella sì che era arte irregolare. Ricordo che avrò avuto tredici o quattordici anni e che anche solo guardare quel disco bastava a sconvolgerti. Sono passati più di quarant’anni, ma non c’è stato nient’altro come quello, è assurdo. Guardate la copertina: una polaroid scattata ai Piccadilly Gardens in cui compaiono quattro ragazzi pelle e ossa di Manchester. Parliamo di un tempo in cui le rock star e i musicisti – e chiunque si trovasse all’interno dell’industria musicale – erano visti come divinità, in cui ogni cosa era circondata da un’aura reverenziale. Quel disco era pazzesco: spogliato da tutte le sciocchezze, lo avevano ridotto al minimo, era essenziale, diretto. Lontano anni luce da tutto quello che c’era in giro in quel periodo. Il suo suono era il risultato di una delle primissime produzioni di quello che sarebbe stato di lì a poco una leggenda, Martin Hannett, un outsider di Manchester.
I primi outsider che ho frequentato erano i punk rocker di Manchester. L’idea che abbiamo oggi del punk è piuttosto caricaturale, fa quasi tenerezza – le creste, i pantaloni stretti, le spille da balia – ma quella roba arrivò più avanti; le persone con cui stavo io erano avanti: a loro non interessava leggere i settimanali di musica perché quella era una roba da borghesi. Figli della classe operaia, erano degli sfacciati provocatori: assomigliavano a Spiral Scratch, andavano veloci e dritti al punto. Venivano dalla strada ed era lì che li trovavo ogni volta: tutti i sabati si radunavano fuori dal Virgin Record di Marker Street, ma non penso che gli interessasse entrare dentro. Un’altra volta li beccai al Wythenshawe: io ero andato a vedere gli Slaughter and the Dogs e loro se ne stavano là fuori ad aspettare. Poi li rividi ancora mentre me ne stavo fuori da un concerto dei T-Rex. Sarei voluto entrare e restando insieme a questi tizi avevo trovato il modo di farlo anche senza biglietto. Erano più grandi e la traccia che hanno impresso su di me non è mai svanita.
Nel corso degli anni ho capito che c’è questa idea di dover essere dentro l’industria musicale, come si trattasse di un posto o di un insieme di posti reali. Lo pensa chi vorrebbe farne parte, o crede di doverne far parte. Si immagina l’industria musicale come un mondo rivestito da strati di morbida moquette, pieno di luci soffuse, macchinoni, con truccatori da tutte le parti, un sacco di soldi che, ovviamente, arrivano dritti nelle tue tasche e tutto è fantastico. Ma quella che sto descrivendo è forse la casa di Simon Cowell – e non sono neanche sicuro che sia così. La gente crede che l’industria musicale sia un luogo mistico, dove si è felici. Ma questo è un mondo che dura dodici settimane e finisce la vigilia di Natale. Non esiste una porta di ingresso per l’industria musicale. Esiste l’idea che ci sia questa porta da qualche parte: gli aspiranti musicisti e quelli che provano a diventare delle star di solito pensano che ci si arrivi così, che una delle strade sia conoscere qualcuno all’interno, uno Svengali che conti abbastanza, un tizio che puoi avvicinare perché ha un piede nel mondo in cui vivi tu e uno nel mondo che si nasconde dietro quella porta, dove risplende un’accecante luce bianca. La verità è che i manager incredibili e innovativi che sono riusciti a fare la differenza non erano mai riusciti a farla prima di allora. È stata una prima volta per tutti: Malcolm McLaren, Joe Moss, il manager degli Smiths, e Brian Epstein: gestivano tutti negozi. Mi pare facesse lo stesso anche Paul McGuinness degli U2.
Queste persone hanno cambiato l’industria musicale. Senza di loro non avreste mai sentito parlare di queste band.
© Johnny Marr, 2007. Tutti i diretti riservati.
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