Pubblichiamo la prima parte di una lunga intervista di Martín Kohan, realizzata il 25 marzo 2006, a Rodolfo Fogwill, autore di Scene da una battaglia sotterranea. Martín Kohan è uno scrittore argentino di cui è stato pubblicato in Italia il romanzo Fuori i secondi (Einaudi, 2008). Qui potete leggere la seconda parte dell’intervista.
Intervista di Martín Kohan a Rodolfo Fogwill / 1
traduzione di Violetta Colonnelli
Si sta per ripubblicare il romanzo di Rodolfo Fogwill sulla guerra delle Malvine, Los pichiciegos [Scene da una battaglia sotterranea; n.d.r.]. L’autore sostiene di aver disseminato questa storia di dati che ci fanno capire come “io mi sono dato una svegliata e tutti gli altri sono dei coglioni”.
Nonostante lavori sulla propria immagine, si definisce uno scrittore “senza strategia”. Le sue solite sfuriate questa volta sono rivolte a Beatriz Sarlo, Ricardo Piglia, ed è ancora più duro con Alan Pauls, l’autore del romanzo Il passato.
Tra pochi giorni sarà in circolazione una nuova edizione di Los pichiciegos, e con la ripubblicazione si desta l’autore, Fogwill, scrittore-personaggio, famoso per la sua gestualità calcolatamente eccentrica e per le sue sparate provocatorie. Oltre che per il suo atteggiamento in bilico tra un senso di attrazione e il rifiuto del parnaso letterario argentino, ammesso che esista, e per i giudizi severi che è solito dare sugli scrittori suoi pari.
Ogni romanzo che si pubblica una seconda volta consente di pensare alle eventuali differenze tra il momento della prima pubblicazione e quello del rilancio. Ma Los pichiciegos è un libro così legato alle Malvine e alla situazione nel 1982, tanto nella scrittura quanto nel significato della sua pubblicazione, che lo si immagina particolarmente segnato dalle differenze dei contesti in cui viene pubblicato. Fogwill, invece, non la pensa così.
Io la penso diversamente. Credo che ci siano libri buoni – beh, buoni… diciamo dello stesso livello de Los pichiciegos – di quell’epoca, che oggi non si possono più leggere. Non mi riferisco a Flores robadas en los jardines de Quilmes di Jorge Asís, o a cose del genere, ma ci sono molti libri che oggi sembrano di seconda mano. Nessun libro di quella letteratura della “desaparidologia”, che era diventata di moda, nessuno di quei libri si può leggere oggi.
Il fatto è che Los pichiciegos è un libro concepito da una certa immediatezza, voleva essere una forma di intervento. Non solo lo hai scritto a ridosso degli eventi, ma hai voluto che il libro uscisse il prima possibile.
In quel periodo io vivevo al decimo piano. Mia madre al quinto. Scendevo da lei, a mezzogiorno, o nel primo pomeriggio, a mangiare qualcosa, e la televisione era sempre accesa. Quella è stata la mia unica relazione con la guerra nelle Malvine. E al lavoro… Io ero uscito di galera, e mi assunsero come direttore creativo nell’agenzia pubblicitaria della famiglia del presidente (Roberto) Viola, che ostentava contratti pubblicitari con le aziende soggette a intervento statale. Il presidente dell’agenzia era un amico di Viola, e il vicepresidente era pure vicepresidente del Banco Central, il generale di brigata Cabrera. In quel momento, l’agenzia era un posto dove s’incontravano i generali a chiacchierare di stronzate, a bere whisky, a parlare di come avrebbero vinto la guerra. Una volta ero su un taxi con il generale Cabrera, passammo davanti alla stazione Constitución, per prendere quella che dopo sarebbe diventata l’autostrada. Io gli dico: “Che bella opera di architettura”. E lui: “Si, è meravigliosa”. “E sa chi ce li ha i progetti di tutto ciò? Lo sa dove sono?” “No”, mi risponde. “Ah, la informo che ce li ha la Lloyd Bank inglese; perché tutto questo è assicurato in Inghilterra. Loro possono decidere di mandare tutto affanculo in un minuto. E voi non sapete neanche dove passano i tubi”. Il tipo rimase di sasso. C’era il generale Saá – un generale in attività – perché suo figlio lavorava in agenzia; era un avvocato, Teófilo Saá. E gli dice: “Generale, se odia tanto gli inglesi, perché beve tanto whisky?”. E il generale dice: “Per pisciarlo”. Erano degli imbecilli, degli ubriaconi di quarta categoria.
Come sei riuscito a costruire il registro del romanzo intorno alla situazione dei combattenti?
È stato un esperimento mentale. Mi sono chiesto: “Che cosa conosco bene?”. Conoscevo bene il Mare del sud e il freddo, andando per mare ho sofferto molto il freddo. Conoscevo bene i ragazzi, perché li vedevo. Conoscevo l’Esercito Argentino, come chiunque abbia fatto la naia. Mettendo insieme tutte queste informazioni, ho costruito un esperimento finzionale che è più vicino alla realtà di quanto lo sarebbe stato se mi avessero spedito sulle isole con un registratore e una macchina fotografica, in mezzo alla guerra. Con l’immediatezza dei fatti ti perdi.
Dicevi che certi romanzi invecchiano. Ma anche le testimonianze dei vecchi combattenti invecchiano. Los chicos de la guerra esce quello stesso anno.
Beh, per me l’uscita de Los chicos de la guerra è stata un colpo. Innanzitutto, perché me l’hanno rubato – me l’ha rubato la Editorial Galerna, che sia chiaro – e poi perché ha creato una mitologia molto simile a quella dei Pichis, che avrebbe potuto ostacolare le vendite del mio libro. Ma non l’ha fatto; il libro è arrivato al livello a cui io potevo aspirare.
Però in Los pichiciegos c’è un principio di disillusione nei confronti della guerra e di tutta la mitologia nazionale. Cosa che non c’è nelle testimonianze, anzi.
Non c’è, ma… ci sono stati quattrocento suicidi. Credi che il suicidio sia una cosa qualunque? Beatriz Sarlo ha scritto un articolo su Los pichiciegos, che a me non piace – diciamo che non condivido la sua interpretazione – però dice una cosa molto intelligente. Dice che nelle situazioni limite ogni argentino è un morto, perché è privo della Nazione. Credo che la Sarlo lo abbia scritto dodici anni dopo la sua prima lettura. Poi ha scritto un secondo commento quando Alfonsín non c’era più. L’ha scritto sotto Menem, erano cambiate le sue condizioni. E ha capito che ciò che io stavo scrivendo era contro l’alfonsinismo, che conoscevo perché anch’io lavoravo alla Socma e sapevo come si stava fabbricando la transizione verso la democrazia. In realtà loro scommettevano su Italo Argentino Luder, il candidato dei peronisti, ma il piano culturale della democrazia l’ho scritto io, alla Socma, per Luder. Era uno dei migliaia di documenti che uscivano per i progetti governativi.
È logico che una lettura possa cambiare a dieci anni di distanza. Che successe allora quando Los pichiciegos si ripubblicò nel 1994, e come pensi possa essere letto il libro adesso?
All’inizio, c’erano quattordici esemplari del libro, e poi delle fotocopie, uscite in Brasile. Metti che ognuno di quei quattordici esemplari sia stato letto da tre persone. C’erano settantadue lettori del libro prima che finisse la guerra, prima che il Papa arrivasse in Argentina. Molti di loro erano giornalisti. Quello è il mio credito. Chiunque l’abbia letto nel gennaio dell’ 84, quando il libro arrivò nelle librerie, in pieno periodo di vacanza, quando si diceva che i radicali sarebbero tornati al governo, quando i ragazzi parlavano di cosa votare, credettero che fosse stato scritto dopo la chiamata alle urne. E io, il giorno che iniziò la guerra, dissi: “tutto questo finirà con delle elezioni”. E ancora, un anno prima, avevo pubblicato un racconto – brutto – Música japonesa, un costumbrismo argentino, la storia di un vecchio pensionato che va in ospedale, che odia i radicali nel momento in cui si dice che sarebbero tornati al governo. Beh, io lì vedevo gli incontri di Roberto Viola e Raúl Alfonsín. Ho usato la letteratura come una cassetta della posta, dove depositare dati. L’ho fatto anche con un altro libro, con la guerra sporca dei militari. Deposito molti dettagli in codice, perché vediate che mi sono accorto delle cose prima di tutti, e che tutti gli altri sono coglioni. È la vendetta di chi capisce per primo. E quei dettagli hanno un valore letterario, ovviamente, no?
Hai avuto una posizione nella letteratura abbastanza forte durante la decade menemista. Dicevi: “Voglio scrivere il romanzo del menemismo, così come altri hanno scritto quello della dittatura”. Nel tuo caso poi è stata importante la decisione estetica di scrivere in chiave realistica. Ma Los pichiciegos non è minimamente un romanzo realista.
No, non è realista; però c’è un realismo molto forte, che è il peso dell’essenza sulla realtà, in qualche modo. L’essenza argentina sulla realtà. Io non ho scritto il romanzo del menemismo; molti dicono che Vivir afuera lo è, ma no, non sono riuscito a coglierlo. Il menemismo, in Los pichiciegos, è rappresentato dal personaggio del turco. Resistenza e cocaina, cocaina, cocaina. Non ha nemici. Quel personaggio prefigura il menemismo. E Beatriz Sarlo lo riconosce, in pieno menemismo.
Lasciami tornare alla questione del realismo.
Per me è molto più reale l’inaccessibile e l’invisibile, come il genoma umano, piuttosto che la condizione della corruzione politica. Io dico: noi abbiamo un genoma storico, per così dire, e io ho lavorato sul quel genoma, con il microscopio della finzione, dell’immaginazione narrativa. Proprio cosi.
Facendo il paragone con Vivir afuera o La experiencia sensible, si può capire meglio fino a che punto Los pichiciegos è un romanzo fortemente referenziale, che però non per questo assume una rappresentazione realista.
No, affatto. L’ho scritto con dodici grammi di cocaina in due giorni e mezzo. La realtà non esisteva per me. Resistevo quando dormivo quattordici ore, andavo a lavorare, dopo tre giorni senza dormire, e a quel punto mi scontravo con la realtà. Allora mi dicevano: “Non è venuto alla riunione ieri”, e io non sapevo dove fossi stato. Capisci? Non avevo realtà. In effetti Los pichiciegos si potrebbe leggere come un’allegoria del sistema culturale argentino. Le raccomandazioni, gli scambi, i voltagabbana, la sottomissione a un potere autogenerato. Perché i Re Magi si autogenerano, per le amicizie fortuite. Oggi abbiamo un governo – il nucleo del potere – che è generato attraverso le amicizie, il caso. Tu guarda come sono composti i ministeri, d’improvviso ci può essere qualcuno –un Taiana qualunque – che può essere la figura di una carriera politica o sociale significativa, ma in generale, sono figure di un dipartimentino che si riuniva quindici anni fa in un paesino di provincia. Come con il poema Gran Menem, che ho pubblicato un anno prima che iniziasse la campagna pubblicitaria di Menem con lo slogan“Questo l’ha fatto Menem”. E sembrava proprio uno di quegli spot. Quando lo leggevo, in quel momento, prima che uscisse – perché lo leggevo in pubblico – si ammazzavano dalle risate, credendo fosse il delirio di un matto.
E perché dici che non ha funzionato quell’idea che avevi di fare il gran romanzo del menemismo?
Perché Vivir afuera è un romanzo quasi intimista, direi. Ora lo leggo e non ci vedo nessuna dottrina, è scritto da uno che aveva già alle spalle quindici anni – beh, si, ora anche di più – di assenza dalla realtà mediatica; io non ho guardato la televisione per quindici anni, non so neanche chi sono le persone che tutti nominano. Senza quegli elementi, sei molto lontano dalla realtà pubblica.
A maggior ragione in quegli anni in cui i media avevano un peso schiacciante.
Certo. Io per esempio nell’Ottanta ero un mediatico internazionale. Leggevo la stampa inglese, brasiliana e il Times… e con quello stavo apposto. Mi aiutò a capire la guerra delle Malvine quando iniziò. In quell’epoca, con quel background, capivi tutto. Capivi tutto. È così che iniziò Los pichiciegos. Io stavo scrivendo un romanzo che si intitolava “Amore a Roma”, sulla Loggia Propaganda Due, la P2, di Licio Gelli. Ero molto agitato, dovevo finire in tre giorni; un giorno alle sei di pomeriggio – venivo dall’ufficio – arrivai da mia madre che era malata, aveva un cancro, e mi disse: “Abbiamo affondato una nave!”. E allora io scrissi, in quel romanzo, “Mamma ha affondato una nave”. E così prese il via Los pichiciegos.
Non t’inquieta il fatto che Los pichiciegos possa rimanere al centro della tua intera opera?
No, me ne frego. Cioè, se succedesse, me ne fregherei. Ma no, non mi preoccupa. E poi credo che lo coprirei con altre cose, sai? Per esempio con un’opera teatrale e un’opera da camera. Sto mettendo su… non so… non un’opera da camera, una scena da camera, con Il pomeriggio di un fauno, di Mallarmé, ambientata nel fiume Paranà. Hai visto che Juan L. Ortiz è Mallarmé? Sono tornato alle fonti e ho scritto una storia di una violenza, che è la storia del Fauno e le Ninfe, di Mallarmé. Con i clichés di Mallarmé. Le voglio immortalare, quelle donne, dice il chamamecero. Capito? Io ho queste alternative, un giorno scriverò una cueca, non so, o una zamba.
Io pensavo per quanto riguarda la tua scrittura.
Non mi inquieta. La mia inquietudine in realtà viene dal fatto – ti sto facendo una confessione – che la forza mia, e quella degli altri, che c’era in Los pichiciegos non tornerà mai più, perché non tornerò mai ad avere quarant’anni, ne ho sessantaquattro, sono un vecchietto. Veramente, non c’è niente da ridere. Come con le donne, no? Sono andati i tempi delle triplette a letto, è finita. Ora al massimo una volta al mese. Eh si. E che ci vuoi fare, la realtà è questa. Quella forza non ritorna.
Comunque è interessante perché continui a pensare alle condizioni della tua scrittura. Io avevo pensato più che altro ai luoghi dei libri letti, non alla tua scrittura.
Io non ho una strategia, e continuerò a non averla. Non dimenticare che ho pubblicato Una pálida historia de amor e La buena nueva de los libros del Caminante con avanzi di carta spillati. Non ho mai avuto una strategia. E se non ce l’ho avuta all’inizio, non ce l’avrò certo ora.
Non l’avrai nella scrittura, però sai che per quanto riguarda la cosiddetta immagine dello scrittore, o figura dello scrittore, sei considerato un ottimo stratega.
Sì, sì. Ma diciamo che è una strategia incosciente, come quei pugili che sono campioni senza aver avuto una formazione tecnica. Guarda in Francia. In Francia io sono arrivato per mano di Alejandro Agresti, perché lì mi conoscono per il suo film – Buenos Aires viceversa – e ora mi invitano a un congresso a Toulouse, per parlare della memoria… Dev’essere finanziato dalla lobby dell’Olocausto, perché in verità vogliono parlare degli ebrei morti in Polonia, uccisi dai tedeschi. E vabbé. Dài, tanto, io vado a fare il mio discorso, ovviamente; non vado mica a pronunciare il discorso del governo francese.
Parlerai della lobby dell’Olocausto?
Certo, è ovvio.
Riguardo alla figura dello scrittore, mi sorprende la tendenza a prestare più attenzione a ciò che succede storicamente con i libri: come funzionano in un determinato momento, in un altro, se si consumano, se non si consumano, se guadagnano o perdono validità. E si esclude la costruzione della figura dello scrittore, che nel tuo caso è così forte. C’è un logoramento anche in questo, o pensi che non ci possa essere?
Se non si è consumata in venticinque anni, non lo farà adesso.
Una definizione molto forte che circola sempre sul tuo conto gira attorno alla figura del franco tiratore. Questa parola è molto spesso associata a te. Continui a pensarti esattamente uguale?
Continuo ad essere un franco tiratore senza saperlo. L’altro giorno ho pubblicato un articolo in La voz del Interior, su un festival musicale nello stabilimento più chic sulla spiaggia di José Ignacio, in Uruguay. E i più attivi del paese, la Giunta Comunale, si sono procurati una copia, e mi hanno mandato un messaggio per dirmi che erano contentissimi, felici: pare che sono intervenuto in una questione interna di proprietà di cui io non ho la minima idea.
E tu sei andato a mettere il dito nella piaga.
Diciamo che ho toccato il tema dei paradisi artificiali della borghesia, in cui si celebrano la vita sana, ecologica, senza velocità, senza rumori, senza tossine, senza poveri, nonostante la povertà, la tossicità, lo smog e tutto il resto siano prodotti della loro smania di lucro. E se lo sono dovuti leggere. Però erano contenti.
© Martín Kohan, 2006. Tutti i diritti riservati.
[Leggi qui la seconda parte dell’intervista]
[i] Una raccolta di interviste ai soldati della guerra delle Malvine a cura dello scrittore e giornalista argentino Daniel Kon. Dal libro è stato tratto un film omonimo, diretto da Bebe Kamin, uscito nel 1984.
[ii] Sociedad Macri.
[iii] Politico e avvocato costituzionalista argentino.
[iv] Jorge Enrique Taiana, politico argentino, ex Ministro degli Esteri.
[v] Il chamamé è la musica tradizionale tipica della provincia argentina di Corrientes; la sua influenza arriva per altre zone del nord argentino.
[vi] Un ballo tradizionale tipico di Argentina, Cile, Bolivia, Colombia e Perù.
[vii] Un ballo tipico folkloristico del nord dell’Argentina.
Condividi