Pubblichiamo oggi la prima parte di un lungo approfondimento di Enrique Krause sulla rivoluzione cubana e le sue derive e conseguenze per la Cuba di oggi. L’articolo è apparso su Letras libres, che ringraziamo.
di Enrique Krause
traduzione di Elisabetta Tangorra
Le pieghe della storia sono imprevedibili e non si sa se Fidel Castro verrà assolto o condannato per la sua lunga e sofferta dittatura. Ora che da questo punto di vista la situazione comincia a cambiare, è importante ripercorrere le tappe accidentate di una rivoluzione tradita.
I
Lo scrittore e storico statunitense Waldo Frank fu un convinto sostenitore della rivoluzione cubana. Affascinato dall’America Latina, finì con l’attribuirle, nel corso di trent’anni, alcuni dei tratti caratteristici del profetismo ebraico. La paragonava a una Terra Promessa, nella quale tutte le repubbliche d’America avrebbero ritrovato la propria radice politica, «la visione democratica ebreo-cristiana dell’uomo universale». Nel gennaio del 1959, prossimo ai settant’anni, volle intendere il trionfo della Rivoluzione cubana come il compimento di quelle sue proiezioni. Nell’autunno dello stesso anno il governo cubano, per espressa volontà di Fidel Castro, gli fece firmare un contratto con l’incarico di scrivere una «biografia di Cuba». Frank avrebbe incassato cinquemila dollari e il lavoro si sarebbe intitolato Cuba, isla profética.[1]
Frank seppe ritrarre con efficacia ciò che, ai suoi occhi, fu la rinascita di Cuba: la spartizione delle terre, le campagne di alfabetizzazione, la lotta contro le malattie e la mortalità infantile, la bonifica dei terreni paludosi, l’introduzione delle nuove colture, l’accesso libero alle spiagge da parte del popolo, la costruzione di alberghi, masserie, industrie, alloggi. Lo affascinava soprattutto «l’abbraccio» fra Fidel, il redentore, e il popolo cubano: «la folla aveva in un certo senso la forma di Castro […] si riusciva a cogliere un sentimento di appartenenza, come se lui avesse davvero l’isola fra le braccia, l’isola intera!»[2] Secondo Frank, Fidel non era un dittatore, «ma un artista del potere che senza pietà lo ripudiava, lo vagliava per dargli infine una forma».[3] Di fronte a un simile esempio di creatività e giustizia, secondo Frank le elezioni non erano che una «seccante perdita di tempo» e la libertà di stampa un «inconveniente».
La storia del libro non ebbe un lieto fine per Waldo Frank. Contrariati da alcuni passaggi, nei quali traspariva una critica all’innegabile accumulo di potere personale assunto da Castro, i cubani si rifiutarono di pubblicarlo. Quando una piccola casa editrice di estrema destra, Marzani & Munsell, lo diede alle stampe a New York, le critiche da parte della destra e della sinistra furono feroci. Solo e amareggiato, Waldo Frank morì nel 1967.[4]
La versione di Frank, che in qualche modo redimeva il regime di Castro, fu comune a più di una generazione di giovani latinoamericani (e di molti dei loro maestri) ispirati dalle imprese del Davide cubano che sfida il Golia yankee. L’adesione formale al comunismo non intaccò il vasto appoggio iniziale, ma l’entusiasmo andò gradualmente diminuendo in seguito a notizie e testimonianze sconcertanti provenienti dall’isola: il progetto di installare missili russi, la creazione di campi di lavoro nel 1965, lo schieramento al fianco dei paesi appartenenti alla cerchia sovietica a sostegno dell’invasione russa in Cecoslovacchia nel 1968, la repressione di scrittori dissidenti nel 1971. Nel 1980, l’esodo di 125.000 cubani a Miami danneggiò ulteriormente la reputazione del regime. L’opinione pubblica in America Latina tardò molto a riconoscere il carattere dittatoriale del governo cubano, anzi, in molti casi non lo ammise affatto, o lo relativizzò (e lo relativizza tuttora) accentuando i risultati positivi ottenuti dal regime sul piano educativo e sociale e sottolineando la drammaticità dell’embargo perpetrato dagli Stati Uniti. A quest’ultima categoria appartiene anche il libro Cuban revelations: Behind the scenes in Havana, di Marc Frank, nipote di Waldo, attuale corrispondente per Financial Times e Reuters a Cuba.
Ispirato dall’esempio del nonno, Frank giunse a Cuba nel 1984, come lui stesso racconta, «alla tenera età di 33 anni, [quale] instancabile crociato della giustizia sociale». Vive a Cuba da allora. Nel 1995 sposò un’infermiera cubana, testimone e protagonista dell’efficiente servizio sanitario cubano. Con loro vivono le due figlie dei rispettivi precedenti matrimoni e, a proposito della loro formazione scolastica, Frank scrive: «gli insegnanti sono stati esempio di dedizione, professionalità e serietà in tempi difficili. Il curricolo è stato più che adeguato. C’era poca propaganda».
Cuban revelations si occupa principalmente della realtà economica cubana degli ultimi vent’anni. Comincia con un breve ma intenso ritratto di Fidel Castro nell’esercizio del potere assoluto, dal 1994 all’agosto del 2006, quando una grave malattia compromise la sua partecipazione al governo. Nel 1993, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la perdita del sussidio (65.000 milioni di dollari fra il 1960 e il 1990, il 40% a titolo di prestito, il resto in regalo), Cuba subì un collasso economico con conseguenze senza precedenti. Frank non trascura di elencarne alcune: ossa rotte operate senza anestesia, la vendita all’asta degli ultimi ed esigui averi delle famiglie (libri, gioielli), l’irreperibilità dei prodotti di prima necessità (sapone, fiammiferi, assorbenti) e la ricomparsa della prostituzione libera. Iniziò così il «periodo speciale in tempo di pace», un eufemismo che indicava un adeguamento ideologico (l’abbandono parziale del marxismo-leninismo, il risalto dato al nazionalismo antistatunitense e alla figura di Martí) accompagnato da alcune concessioni di Fidel sul piano economico, come la circolazione dei dollari e il permesso di realizzare attività commerciali (mercati agricoli, piccoli ristoranti), iniziative che erano state proibite dal 1968, quando si proclamò l’estinzione di ogni tipo di impresa privata.
Ciò che Frank non riferisce è la diretta responsabilità che ebbe Fidel Castro nella crisi del 1993. La disastrosa politica della rectificación, intrapresa fra il 1986 e il 1990 come reazione alla perestroika di Gorbachov (che detestava), provocò l’incremento del razionamento, il divieto dei mercati agricoli, la restrizione dell’autogestione e riportò in auge la concezione guevarista del lavoro volontario. Tutte misure che andavano in senso contrario rispetto all’attuale direzione di Raúl Castro. Secondo l’opinione di Carmelo Mesa-Lago (esperto ampiamente stimato per gli studi sulla società cubana, professore emerito presso l’Università di Pittsburgh, del cui lavoro, però, Frank non fa menzione), la rectificación fu forse l’errore economico più grave e oneroso attuato dal governo di Fidel, perché impedì a Cuba di assestarsi, come ha invece potuto fare di recente, per ammortizzare la revoca del sussidio sovietico ed evitare lo spaventoso onere del «periodo speciale di pace».[5]
Ciò che Frank trovò di grande rilevanza fu l’assenza delle rivolte popolari. L’unico conato di violenza risale all’agosto del 1994: la serie di manifestazioni nota come el Maleconazo. «Senza lacrimogeni né poliziotti in tenuta antisommossa» scrive Frank, «la calma venne ristabilita grazie all’arrivo (in camion) di lavoratori armati di tubi di metallo». E alla fine arrivò Fidel per controllare la situazione. Quella stessa estate (per alleggerire la pressione interna, ma soprattutto per fare pressione sul governo statunitense, affinché venisse definito un accordo formale sul problema migratorio) Fidel acconsentì all’esodo in massa dei cubani, noto come la crisis de los balseros, di coloro, cioè, che affrontavano il mare in zattera. Frank definisce la scena «piuttosto spettacolare», ma di fatto fu molto di più: la disperata irruzione della parte più vulnerabile della popolazione, gli afrocubani provenienti dalla zona orientale dell’isola, pronta ad attraversare le venti pericolose miglia che separano l’isola da Miami a bordo di zattere improvvisate, costruite con vecchi pneumatici, tavole di legno e lenzuola.
La voce di quei cubani, mossi a quanto pare dalla povertà e dalla fame più che dal desiderio di una libertà politica, non trova spazio nel libro di Frank. Per il resto, il libro manca del benché minimo accenno documentale o informativo, tantomeno critico, circa il controllo sistematico che l’apparato statale esercitava sulla vita dei cubani e il fatto che qualunque espressione libera di scontento fosse quindi inibita, in questo come in altri frangenti. Ciò che si legge, invece, è una lunga conversazione che Frank intrattenne con una giovane studentessa di psicologia, alla quale aveva dato un passaggio nel novembre del 2007. «Pensi che Fidel potrà andare avanti?» La ragazza rispose: «Se deve proprio arrivarne un altro, dovrebbe essere esattamente come lui, con le sue stesse idee, con la sua stessa personalità». Frank non la pensava diversamente: definisce Castro come «l’ultimo rivoluzionario romantico» e arriva a paragonarlo addirittura a Nelson Mandela (paragone assurdo, visto l’impegno profuso da Mandela a vantaggio dei valori democratici, del voto e dei diritti umani).
Senza chiarire secondo quali fonti, Frank afferma che la «zona grigia» dei trasgressori era pari al 30%. Ma aggiunge che lo scontento non aveva nulla a che vedere con l’applicazione dittatoriale dell’«ideologia purista», che anzi elogia esplicitamente, né con la paura di repressione o denunce. Lo scontento, afferma, era dovuto alla povertà materiale. Qualcosa non funzionava, ammette, se il costo di una bottiglia d’olio alimentare equivaleva alla paga di tre giorni di lavoro. E, per spiegarlo, propone un’analogia, secondo la quale Cuba sarebbe una company town statunitense il cui spaccio non funziona bene: «ci volevano ore di lavoro per comprare mezzo chilo di riso o di fagioli, una testa d’aglio, un cetriolo, un solo mango, un po’ di cipolla o qualche pomodoro».
Ci si aspetterebbe da Frank qualche accenno concreto sugli stenti (di un individuo o di una intera famiglia) all’interno di questa company town. Però non c’è. Per trovare un’immagine dell’estrema miseria e della disperazione, bisogna andare a consultare il blog di Yusnaby Pérez, giovane ingegnere disoccupato, e i suoi post su Twitter, Facebook e Instagram, che raggiungono decine di migliaia di persone. Armato di telefono cellulare, tramite un provider spagnolo, Yusnaby si impegna a ritrarre uomini e donne che, con i sacchetti di plastica in mano, vagano per le strade tentando di resolver il sostentamento (resolver è un verbo essenziale nella quotidianità di Cuba); una mensola con bottiglie riciclate contenenti razioni irrisorie di riso, fagioli, piselli; gli edifici disastrati della vecchia Avana; una ragazza madre con quattro gracili figli a carico, che vive con venti dollari al mese; i professionisti in pensione, che vendono banane o accendini per le strade; i giovani che fuggono in Florida, sfidando l’insidioso mare del Golfo. Cuban Revelations non mostra questa dimensione della vita cubana, la nasconde.
Il libro di Frank non fa alcun riferimento alla vasta e nutrita bibliografia accademica sulla Cuba di oggi. Il suo è un ampio reportage di ricerca giornalistica, basato prevalentemente su documenti di politica interna, provenienti dall’ermetico sistema politico, e sulla testimonianza della gente comune, che vive diverse condizioni sociali. A partire dal 2007 Frank ha percorso un viaggio annuale di 1.500 chilometri, da La Avana al versante orientale dell’isola, con lo scopo di osservare i cambiamenti nella vita economica del Paese, alla luce delle riforme introdotte da Raúl Castro, dopo la sua inaspettata ascesa al potere nell’estate del 2006, quando Fidel Castro, vittima di una grave malattia intestinale, fu costretto a mantenersi sempre più lontano dalle occupazioni che, per quasi mezzo secolo, furono di suo esclusivo dominio.
Raúl non è mai stato come Fidel, né ha avuto la sua stessa personalità. Silenzioso, pragmatico, militaresco nella disciplina, ha contato sull’appoggio di dirigenti leali nell’esercito e nel partito e ha dato il via a un’epoca di riforme, ponderandone la portata, i tempi e l’impatto. Fra il 2007 e il 2009 operò cambiamenti amministrativi (come la chiusura delle mense gratuite), forse anche solo simbolici, ma importanti per i cubani (come, per esempio, la possibilità di accedere agli hotel, da sempre prerogativa dei soli turisti). La cosa più significativa, però, è stata la sua politica interna ed estera, minuziosamente ricostruita da Frank. A partire da un discorso di Raúl e da un documento elaborato da una commissione accademica, gli 800.000 membri del Partito Comunista furono invitati a dialogare sulle problematiche dell’economia cubana. Fu l’inizio di una discussione che durò quattro anni, imposta dall’alto e limitata al funzionamento economico di Cuba come company town, non alla sua struttura politica né, tanto meno, alla sua ragione d’essere.
Le modeste riforme degli anni Novanta (che furono poi ritrattate da Fidel all’inizio del ventunesimo secolo) avevano comportato un lento recupero. Ma Cuba emerse da quella crisi solo in seguito all’ingente supporto dato dal governo di Chávez. Il sussidio annuale consistente in sovvenzioni di petrolio, investimenti e denaro contante (soprattutto per i servizi medici) avrebbe superato l’entità del sussidio sovietico: nel solo 2010 ammontava a quasi 13.000 milioni di dollari. Non è un caso che nel suo viaggio annuale Frank percepisse i primi segnali di una ripresa, indotta dal denaro del Venezuela: forni elettrici cinesi, luce, gas, biciclette. Poi però arrivò l’estate del 2008, con i suoi devastanti uragani naturali (Gustav e Ike) e finanziari (la crisi di Wall Street, il crollo dei mercati economici, la caduta del prezzo del petrolio) di fronte ai quali Raúl reagì compiendo un ulteriore passo avanti nel processo di autocritica, tanto comune nella tradizione sovietica: era necessario salvare la Rivoluzione correggendone i «vizi», gli «errori» commessi. Prontamente gli unici giornali di Cuba, Granma e Juventud Rebelde, fino a poco prima guardiani dell’ortodossia, entrarono nel pieno del dibattito pubblico, fustigando la burocrazia. Secondo la sua stessa diagnosi, il governo di Raúl concluse che il problema non era la struttura né il modello politico, ma l’«atteggiamento».
La strategia di legittimazione ebbe la sua controparte nella politica estera. L’Unione Europea, che aveva tagliato ogni legame di cooperazione con Cuba a causa dell’arresto di dissidenti nel 2003, ristabilì i rapporti. Papa Benedetto XVI visitò l’isola nel 2012 e predispose l’affrancamento dei dissidenti condannati all’esilio in Spagna. Anche l’America Latina appoggiò la causa. L’esito positivo dell’operazione aveva anche lo scopo di indurre un cambiamento nella politica degli Stati Uniti nei confronti di Cuba.
A partire dal 2010, Raúl introdusse una serie di riforme strutturali: razionalizzazione delle imprese statali, licenziamento degli impiegati inutili; incremento dell’impiego non statale (chiamato cuentapropismo, di chi, cioè, amministra in proprio) e incentivi alle cooperative autonome di natura agricola e non; libera compravendita di automobili e abitazioni. Nella seconda metà del 2010, Raúl lamentò il fatto che Cuba fosse «l’unico paese al mondo in cui la gente potesse vivere senza lavorare» e denunciò «l’approccio eccessivamente paternalista, idealista e ugualitario istituito dalla Rivoluzione, nel tentativo di perseguire la giustizia sociale».
Nel suo libro, Frank illustra l’assurdità di molte pratiche burocratiche. Spiega la struttura delle riforme, annota i progressi percepiti ed evidenzia alcuni ostacoli. In questo lungo e minuzioso reportage sta, in sostanza, il contenuto principale del libro. Era necessario cominciare a smontare il colosso delle 3.700 imprese statali, che gestivano ogni ambito dell’economia cubana (nichel, hotel, tabacco, zucchero, agricoltura, banche, trasporti, commercio estero, ecc.) attraverso una quantità di accordi tra i vari ministeri e il Partito Comunista. Secondo un dato ufficiale, il 50% di tali aziende lavorava in perdita. Per affrontare il problema, si pianificò la creazione di holding più autonome dal governo. (Frank non si chiede chi le avrebbe gestite, ma era evidente: i figli dell’entourage politico e militare). Parallelamente, il governo dovette riconoscere l’inflazione ai dipendenti. Secondo cifre ufficiali del 2011, circa 1.8 milioni di lavoratori risultarono in esubero. Presso il Ministerio de la Construcción, per esempio, 20.000 impiegati si occupavano di problematiche legate alla sicurezza e solo in 8.000 andavano a metter giù i mattoni. Bisognava trasferire queste persone alle imprese non statali, dunque al cuentapropismo o alle cooperative non agricole o di servizi.
Pur lamentando il danno estetico che la piccola incursione capitalistica aveva inflitto all’aspetto delle città più antiche, come Santiago de Cuba, Frank si compiace della straordinaria profusione di chioschi, carretti di bibite e caramelle, piccoli ristoranti familiari e venditori ambulanti che urlavano a gran voce nelle strade e nei vicoli di Cuba «pomodori, cipolle, yucca, aglio». Una visita a una cooperativa di taxi gli rivela le tensioni dovute a quella fase di transizione: prima, per pochi pesos, gli impiegati passavano parte del loro tempo senza far niente e riuscivano anche a portare la famiglia al mare con tutte le spese pagate. Adesso invece bisogna lavorare. Era difficile abituarsi alle nuove regole e alle tasse, tanto più, lamentavano i contadini della cooperativa con i quali era andato a parlare, se la burocrazia contraria alle riforme li assillava per il timore di perdere il posto di lavoro.
Frank ritiene che a Cuba sia già avvenuto un cambio di mentalità che ha lasciato alle spalle il vecchio sistema sovietico, per procedere in modo irreversibile verso una forma di economia mista e decentralizzata. Carmelo Mesa-Lago, che ha monitorato da vicino le riforme di Raúl Castro, è meno ottimista.[6] Le riforme sono simili a quelle che Raúl aveva già suggerito al regime nei quattro decenni precedenti. In linea generale, però, evidenzia tre aspetti incoraggianti: le riforme vanno nella giusta direzione, non hanno precedenti nel regime della Rivoluzione e (in assenza del peso ideologico di Fidel) sembrano irreversibili. Se analizzate nello specifico, però, peccano di una eccessiva cautela e lentezza e affrontano ostacoli (di tipo legale, burocratico, professionale, creditizio) che ne limitano severamente l’impatto.
Coloro che godevano dell’usufrutto della terra, per esempio, (circa 174.275 persone, secondo i dati ufficiali), erano impossibilitati a incrementare in modo significativo la produzione, per diversi motivi: i loro contratti erano a tempo determinato (ogni dieci anni lo Stato poteva rinnovarli o meno, a sua discrezione), avevano l’obbligo di vendere parte dei propri prodotti allo Stato (il quale, poi, stabiliva il prezzo del raccolto), era concesso investire al massimo il corrispondente dell’1% sull’entità dell’appezzamento di terreno (e la dimensione massima era di 67 ettari. Questo disincentivava, ovviamente, la crescita della produzione). Gli altri ostacoli erano la mancanza di esperienza e di credito e il divieto di mettere a contratto dipendenti non appartenenti alla famiglia, oltre che di vendere liberamente prodotti di prima necessità, come carne, latte, riso, fagioli, patate, arance. Non è un caso che i risultati dei cuentapropistas si rivelassero deludenti.
Alla fine del 2014 erano stati licenziati circa 600.000 dipendenti statali (il 10% della forza lavoro, il 36% del traguardo ufficiale, che doveva contarne 1.8 milioni nel periodo 2014-2015). La creazione di posti di lavoro non statali fu insufficiente ad assorbire tutti. I lavoratori in proprio, i cuentapropistas autorizzati, appartenevano in gran parte al mondo dei mestieri indipendenti (pagliacci, mimi, bagnini, potatori di palme). Ai laureati (dottori, architetti, insegnanti) non era concesso esercitare liberamente la propria professione: un architetto poteva guidare un taxi, ma non poteva praticare liberamente la sua professione (il che rappresentava uno spreco del capitale umano formato dalla stessa Rivoluzione). Secondo Mesa-Lago, il governo cubano dovrebbe seguire l’esempio del Vietnam o della Cina, in cui la presenza della proprietà privata è molto maggiore, come pure la possibilità di intraprendere contrattazioni e in generale è più rilevante la libertà commerciale concessa ai singoli e alle aziende.
Cosa sarebbe di Cuba se il Venezuela subisse un collasso economico o politico? Sarebbe molto grave, ma forse non sarebbe una catastrofe, ritiene Mesa-Lago. Anche se nessuno è in grado di quantificare con precisione l’entità del sussidio del Venezuela a Cuba, occultato dai 15.000 milioni di dollari con i quali si è dato il via al connubio commerciale, si sa che il Venezuela assorbe al momento il 35% del deficit globale di Cuba, cifra significativa, ma non paragonabile al 72% che assorbiva l’URSS. Anche se il Venezuela soddisfa il 40% della domanda di petrolio cubano, Cuba raffina parte del greggio e ha diversificato i propri soci commerciali, quanto basta per scongiurare un collasso simile a quello subito negli anni Novanta. Il governo cubano ha attribuito all’embargo statunitense la causa dei propri problemi. Mesa-Lago ha invece sempre dichiarato, e il suo giudizio è perentorio, che «la causa fondamentale dei problemi di Cuba è la politica economica degli ultimi cinquant’anni». E anche se un cambiamento nel rapporto con gli Stati Uniti dovesse comportare il miglioramento del quadro, nulla sarebbe più urgente (anche per preservare i risultati sociali) della necessità di rinnovare il modello economico.[7]
«La maggior parte dei cubani è dissidente non “dissidente”», scrive Frank. Il dissenso degno di rispetto, il dissenso senza virgolette, «cerca di cambiare le cose attraverso il rinnovamento e il miglioramento del sistema, non tramite l’alleanza esplicita con l’establishment politico di Miami e di Washington, che auspica solo un cambio di regime». Il dissenso fra virgolette è considerato, invece, un «misto di animi coraggiosi, operatori sociali e ciarlatani in cerca di soldi e carte di credito». Per questo si rallegra del fatto che gli emissari dell’Unione Europea si neghino a riceverli. Frank definisce lo sciopero della fame, che alcuni praticano fino alla morte, come una «tattica». Questo trattamento denigratorio, per dirla con franchezza, non fa che svilire la legittimità, l’autenticità e il coraggio dei dissidenti che, in passato come nel presente, hanno messo a repentaglio la propria libertà e perfino la vita in una protesta profondamente sentita e giustificata. Riguardo al misterioso incidente automobilistico in cui perse la vita Oswaldo Payá (il principale leader dissidente dell’isola, il cui progetto di graduale democratizzazione interna, chiamato «Proyecto Varela», raccolse 25.000 firme e ricevette un vasto consenso internazionale), Frank usa solo un’espressione: «è morto». Las Damas de Blanco, che manifestano per la liberazione di coloro che «a loro modo di vedere» sono prigionieri politici, gli provoca una certa frettolosa commiserazione. L’intenso lavoro sociale, intellettuale e militare dei laici legati alla Chiesa non compare affatto nel suo libro.
Frank sostiene che in una società meticcia come quella cubana, il problema del razzismo non esista. Quattordici anni fa in Una nación para todos, lo storico Alejandro de la Fuente dimostrò che, a partire dalla crisi degli anni Novanta, i pregiudizi e le tensioni razziali sono riapparsi nella mentalità comune, nelle opportunità professionali, nei media, nei circoli politici, nelle inchieste, nell’umore corrente e nelle direttive matrimoniali di Cuba.[8] Frank non ne parla, e non menziona nemmeno le organizzazioni di opposizione, come Arco Progresista o Unión Patriótica de Cuba, che rivendicano i diritti della popolazione afrocubana, sempre più alienata da una dirigenza bianca.
Il dissenso si diffonde anche in rete. Eppure, trattandosi proprio di «dissenso», Frank non gli dà voce. È il caso di Yoani Sánchez. Dal 2007, il suo blog Generación Y (tradotto in diciassette lingue), la sua identità Twitter (@yoanisanchez, che nel marzo del 2015 contava 657.000 follower) e il suo recente giornale digitale 14ymedio documentano casi di abuso, corruzione, inefficienza, cattivi servizi, censura, ecc., e riferiscono anche le fatiche dei cubani dediti a resolver, attraverso le vie impervie del mercato nero. Yoani è la discepola caraibica di Orwell, una filologa che mette a nudo il doublespeak della gerontocrazia cubana. Frank non ha mai parlato con lei e nel suo libro la menziona a mala pena.
Nessun cubano può connettersi direttamente con Yoani Sánchez, Yusnaby Pérez o con gli altri blog del dissenso che, logicamente, circolano in modo furtivo mediante dispositivi usb che passano di mano in mano. Alcuni di questi blogger sono sorvegliati, interrogati e anche incarcerati. Un corpo di polizia specializzato supervisiona in aeroporto computer, cellulari e tablet che vengono in entrata. Negli internet café ufficiali (nel 2013 ce n’erano 800) i prezzi di connessione sono proibitivi per qualunque cubano (4.50 dollari all’ora) e il personale burocratico prende nota delle carte d’identità degli utenti, degli indirizzi e dei contenuti delle loro ricerche.[9] Navigare su Facebook è proibito.
Frank non affronta questi aspetti del problema. Ciò che trova esasperante è la lentezza della connessione. L’argomento gli serve per mettere in mostra la sua abilità retorica: «Come si spiega che la nazione senza dubbio più progredita della zona in termini di formazione, salute, pace sociale e difesa dei valori civili disponga delle peggiori comunicazioni?» Ancora una volta, Frank segue il solito modello per cui ammette l’esistenza di un problema serio, ma immediatamente lo relativizza, ponendo in evidenza i risultati ottenuti del regime, inclusa quella «pace sociale» procurata da una dittatura (dittatura, parola che non compare nel suo vocabolario). Alla domanda retorica da lui stesso formulata, Frank risponde che ciò che spiega la mancanza di libertà in internet è il timore – a suo giudizio giustificato – che l’apertura delle comunicazioni possa scatenare una guerra cibernetica, una sorta di Baia dei Porci della rete. Secondo Frank, i cubani soffrono per il controllo istituzionale delle comunicazioni, ma non ignorano l’influenza dell’embargo statunitense al riguardo: «il cubano medio ritiene che entrambe le cose concorrano a escluderlo dallo spazio cibernetico».
Questa pari responsabilità nel dramma cubano rappresenta la tesi centrale di Frank, non solo per quanto concerne il problema legato alla comunicazione, ma alla natura stessa del regime: Il partito comunista cubano reprime i suoi oppositori? Nessun dubbio. L’embargo statunitense è stato pianificato per portare i cubani a un livello di disperazione tale da indurli a far crollare il governo? Non c’è alcun dubbio.
I tentativi di sovversione degli Stati Uniti contro la nascente Rivoluzione cubana diedero il via allo sviluppo dei servizi segreti e allo stato di polizia cubano (anche se in realtà i primi passi in questa direzione furono mossi da Cuba, nella figura di Raúl Castro e del suo precoce accordo con le autorità sovietiche competenti). Eppure la repressione sfrenata condotta per più di cinquant’anni contro la vasta opposizione politica e sociale dell’isola non si può considerare equivalente. L’inaccettabile embargo statunitense non giustifica la violazione dei diritti umani più elementari.
«La vita è un libro, bisogna semplicemente voltare pagina e andare avanti», disse un ufficiale vietnamita alludendo al trattamento subito da chi, nel suo paese, aveva parteggiato per gli Stati Uniti. La frase colpì Frank al punto che la scelse come epigrafe delle sue conclusioni. Tuttavia, se applicata a Cuba, questa frase è un invito all’amnesia, cosa che converrebbe soprattutto a Fidel e a Raúl Castro, le cui decisioni in cinquant’anni di dittatura non sono state soggette a nessuna sanzione, se non la propria autocritica, vale a dire che non sono state sanzionate affatto.
Se tale massima venisse applicata, nessuno ricorderebbe che, prima della Rivoluzione, Cuba produceva l’80% del proprio fabbisogno alimentare. (Oggi la stessa proporzione viene importata per un valore pari a 2.500 milioni di dollari.) Se si «voltasse pagina» nessuno si chiederebbe perché la produzione industriale fra il 1959 e il 1989 sia precipitata del 45% e la produzione di zucchero dell’80%. Queste, come tutte le altre cifre che riguardano la realtà economica, non sono conseguenza dell’embargo. E, senza negare i ragguardevoli progressi ottenuti dal regime in campo educativo e sanitario, nessuno oserebbe ricordare oggi ciò che qualche storico marxista finì con l’ammettere e cioè che Cuba negli anni Cinquanta, nonostante la dittatura di Batista e le disuguaglianze sociali, regionali ed etniche dell’epoca, mostrava chiari indici di crescita economica e progresso sociale: occupava il terzo posto nella zona per prodotto interno lordo (superato da Venezuela e Uruguay), l’alimentazione era fra le più ricche di proteine (dopo Argentina e Uruguay) ed era uno dei paesi leader nei servizi sanitari e educativi (sebbene il regime attuale abbia ulteriormente incrementato entrambi questi aspetti).[10] Voltare pagina, infine, significherebbe ignorare l’immensa responsabilità personale di Fidel nella rovina economica di Cuba e sottovalutare gli effetti che la sua lunga dittatura ha avuto su intere generazioni di cubani.
Ma forse la frase dell’ufficiale vietnamita dovrebbe essere applicata proprio a Frank, che nel prologo di Cuban revelations descrive così il nonno Waldo: «è stato un uomo benvoluto e condannato per il coraggio di essere diverso». A Cuba, dove lo misero a tacere, e negli Stati Uniti, Waldo Frank pagò cara la sfacciataggine di difendere Castro e di criticarlo, al tempo stesso, per le sue tendenze dittatoriali. Nelle sue memorie,[11] Waldo ricorda che, prima di imbarcarsi nella scrittura del libro su Fidel, poteva «scrivere di qualunque argomento, piccolo o grande […] finché la mia difesa di Castro mi privò di quella libertà. La corrente contraria fu forte. Si abbassò la marea e mi ritrovai solo sulla sabbia».
Frank non corre rischi a Cuba, dove secondo quanto lui stesso ha ammesso, ha seguito una regola d’oro: «fai il bravo con loro, affinché loro facciano i bravi con te». Nel suo primo libro, Cuba looks to the year 2000 (pubblicato nel 1993), Frank difese fermamente la leadership politica, economica e morale di Fidel Castro, compreso il suo processo di rectificación. Nell’introduzione a quell’opera aveva apportato alcuni dati biografici, che rivelavano la sua posizione in quegli anni: «nel gennaio del 1990 percorsi venti stati negli Stati Uniti per parlare di Cuba. Avevo alle spalle cinque anni di esperienza e mille articoli scritti come corrispondente per l’America Latina (radicato a Cuba) per il People’s Daily World».[12] Dopo aver sostenuto a spada tratta il regime sovietico a Cuba, ora Frank si mostra convinto riformatore. Ma oltre a notare che, per qualche motivo (come nella canzone di Bob Dylan) «the times they are a-changin’», la sua analisi generale delle riforme cubane non contiene alcuna riflessione sulla propria vecchia fede nel controllo statale né sul suo successivo cambiamento di idee.
Marc Frank non ammette mai in modo esplicito (né tantomeno documenta) l’enorme prezzo che hanno dovuto pagare intere generazioni di cubani: isolati dal mondo, soggetti a sorveglianza e preoccupati di essere puniti, relegati alla sola verità ufficiale, impossibilitati a esercitare le libertà civili essenziali, a protestare liberamente o a emigrare senza correre rischi enormi. Questa lacuna nel suo affrontare la lunga storia passata e presente del popolo cubano (non solo quella dei dissidenti) è, di per sé, una rivelazione per omissione. Nel caso di Cuba, non si può semplicemente «voltare pagina e andare avanti».
[1] Losada, Buenos Aires 1961.
[2] Rafael Rojas, Translating utopia: The Cuban Revolution and the New York Left, Princeton University Press, Nueva Jersey, in corso di pubblicazione.
[3] Michael A. Ogorzaly, Waldo Frank, prophet of Hispanic regeneration, Bucknell University Press, Lewisburg 1994, p. 156.
[4] Rojas affronta il rapporto fra Waldo Frank e la Rivoluzione cubana nel capitolo «Naming the hurricane», in Translating utopia, cit.
[5] Carmelo Mesa-Lago, Economía y bienestar social en Cuba a comienzos del siglo XXI, Editorial Colibrí, Madrid 2003, pp. 28-30.
[6] Carmelo Mesa-Lago, «Los cambios institucionales de las reformas socioeconómicas cubanas» in Richard Feinberg e Ted Piccone, El cambio económico de Cuba en perspectiva comparada, Institución Brookings, Centro Studi sull’economia cubana, Universidad de La Habana 2014, pp. 49-69.
[7] Carmelo Mesa-Lago, «Balance económico-social de 50 años de la Revolución en Cuba» in América Latina Hoy, n. 52, Universidad de Salamanca 2009.
[8] Una nación para todos: raza, desigualdad y política en Cuba, 1900-2000, Editorial Colibrí, Madrid 2001.
[9] Frédéric Martel, Smart. Internet(s): la investigación, Taurus, México 2014, pp. 408;
Emily Parker, Now I know who my comrades are: Voices from the Internet Underground, Farrar, Nueva York 2014, «Straus and Giroux», pp. 120-181.
[10] Rafael Rojas, «Problemas de la nueva Cuba», El País, 26 luglio 2008; Mesa-Lago, «Balance económico-social de 50 años de la Revolución en Cuba».
[11] Buenos Aires, Editorial Sur 1975.
[12] Marc Frank, Cuba looks to the year 2000, International Publishers Company, Nueva York 1993, p. 3.
Condividi