Dopo il profilo diJulio Cortázar Julio Cortázar pubblichiamo la prima parte di un saggio di Anna Boccuti, dell’Università di Torino, che analizza le consonanze fra lo scrittore argentino e il nostro Dino Buzzati nel quadro della letteratura di genere “fantastico” nel Rio de la Plata e in Italia. Ringraziamo l’autrice per questo interessante testo che proseguirà con altre due “puntate”.
di Anna Boccuti
1. Canone e anti-canone del fantastico: Buzzati e Cortázar
La tradizione del fantastico, come è noto, non ha goduto a tutte le latitudini della stessa fortuna: in Italia, sino alla prima metà del Novecento, essa è infatti stata relegata ai margini del canone dalla preferenza per la rappresentazione di tipo mimetico. Ciò, tuttavia, non ha impedito la proliferazione di testi di letteratura fantastica che in un certo senso proseguono, innovandola, l’eredità del meraviglioso così solida nelle lettere italiane. Il primo a cogliere questa sotterranea vivacità è stato Italo Calvino, le cui riflessioni – formulate in vari scritti critici risalenti agli anni Ottanta del Novecento – costituiscono un inevitabile punto di riferimento per la critica attuale di ambito nazionale e internazionale, ormai da qualche anno ormai intenta a scoprire ed esplorare il fantastico italiano [si vedano i testi di Guidotti, Morales, Amigoni e AA.VV. citati in Bibliografia; ndr.].
Questa revisione critica ha portato all’individuazione di un anticanone al quale, secondo Giulio Ferroni, apparterrebbero gli autori dediti allo sperimentalismo nelle forme narrative, più disponibili alla commistione di generi e alle incursioni nei territori delle frontiere letterarie, come quelli del fantastico, ed è dunque in questo anticanone che andrebbe situato un autore come Dino Buzzati, difficilmente accomunabile ad altri nel panorama italiano.
Eppure, il riconoscimento di una costellazione di autori nella quale poter collocare lo scrittore bellunese costituisce, a mio avviso, un momento critico fondamentale per poterne illuminare diversamente l’opera grazie alla comparazione con gli autori a lui più affini. A questo scopo, risulta indubbiamente utile guardare anche alle tradizioni letterarie in cui il fantastico si è affermato come uno dei modi di rappresentazione più felici e frequentati, tra le quali spicca nel Novecento quella rioplatense. La scelta non è peregrina: è proprio uno scrittore argentino, il maestro del fantastico Julio Cortázar, a rendere in più occasioni omaggio a Buzzati, contribuendo così a un suo primo riscatto dall’‘isolamento’ critico. Cortázar, oltre a includerlo nella lista di autori che Morelli (alter-ego letterario dell’autore argentino nel romanzo Rayuela del 1963) sente di dover ringraziare, cita il bellunese anche nel saggio “Notas sobre lo gótico en el Río de la Plata”, indicandolo nella famiglia degli ispiratori del fantastico rioplatense insieme a “Edgar Allan Poe, […] Beckford, Stevenson, Villiers de l’Isle Adam, el Prosper Mérimée de La Venus de Ille y de Lokis, ‘Saki’, Lord Dunsany, Gustav Meyrinck, Ambrose Bierce”.
Cortázar, quindi, inaugura così un processo di fondazione di un canone del fantastico in cui inserisce, senza indugi, il nostro Buzzati, capovolgendone il destino di autore anticanonico a cui la letteratura italiana sembrava averlo relegato.
Al di là di queste pur eloquenti testimonianze, la possibilità di stabilire rapporti di parentela letteraria tra i due autori deriva dall’analisi dei meccanismi del fantastico nelle loro opere; meccanismi che, in testi come quelli analizzati in questo studio, determinano un processo analogo di costruzione del racconto.
In entrambi gli autori, infatti, il fantastico quotidiano caratteristico del Novecento è ottenuto attraverso il ricorso a vuoti “fantastici”, forme diverse di reticenza che contribuiscono ora a rendere labile la causalità fra gli eventi, ora a rivestire di ambiguità e indefinitezza l’intero discorso fantastico. (Ritengo necessario chiarire l’accezione in cui uso la parola reticenza: non mi riferisco alla figura retorica così come compare nei manuali di retorica, cioè nell’interruzione di un discorso già iniziato e poi bruscamente interrotto, segnalato con dei puntini di sospensione, e dunque a livello della frase, ma piuttosto ad un’indeterminatezza semantica o ad ellissi, a volte anche totali, del tema del discorso, ovvero a livello macrotestuale.) Come sottolinea, fra gli altri, Rosalba Campra in Territori della finzione, ciò che viene taciuto acquista in questi testi ancora più rilevanza di ciò che viene esplicitamente narrato: il non detto, pertanto, non è solo parte di una strategia finalizzata alla creazione di suspense, ma si afferma come il senso stesso del racconto fantastico, che coincide per l’appunto con tali indicibilità e inesplicabilità:
La versione attuale del fantastico pone il problema a un grado più alto: non solo se il fatto che si racconta è fantastico, ma perché questo fatto debba essere considerato fantastico e, ancora, quale sia questo fatto. La domanda fondamentale scivola quindi da “che cosa vuol dire ciò che viene detto” a “che cosa si dice attraverso il non detto”. (…) la trasgressione si esprime attraverso fratture dell’organizzazione dei contenuti, non necessariamente fantastici. In altre parole, la sua [del fantastico] manifestazione si può rintracciare fondamentalmente nel livello sintattico: l’apparizione del fantasma è stata sostituita con l’irresolubile mancanza di nessi tra gli elementi della pura realtà.
Buzzati e Cortázar organizzano le ellissi nei loro testi in modo simile, benché le modulazioni del fantastico e la funzione che esso svolge nei racconti dei due autori raggiungano invece esiti diversi. Possiamo anticipare che Cortázar esaspera i postulati del fantastico buzzatiano, mettendo in scena una crisi che è tanto ontologica quanto gnoseologica, di fronte alla quale sembra non esserci via di scampo. A differenza dei personaggi di Buzzati, che contemplano impotenti lo scacco dell’uomo di fronte all’assurdo, spettatori consapevoli della frattura reale/irreale, razionale/irrazionale, i personaggi di Cortázar finiscono per perdere la coscienza di tale frattura ed essere annientati dalla dimensione irrazionale e fantastica, che risulta contigua a quella del reale. Questo è ciò che avviene anche in “Non aspettavano altro”, di Buzzati, apparso nel volume Il crollo della Baliverna (1954) e “Cefalea” di Cortázar, pubblicato nella raccolta Bestiario (1951), racconti che presentano somiglianze meno ovvie rispetto ad altri nella produzione dei due autori e che, proprio per questo motivo, ritengo più stimolante analizzare in questa sede.
2. “Non aspettavano altro”: la verità mostruosa
La strategia strutturante di “Non aspettavano altro”, come ho anticipato, è quella del silenzio, dell’ambiguità data dall’indefinitezza, elaborata anche a livello del linguaggio, come prova l’uso di pronomi o sostantivi indefiniti frequenti anche nei titoli dei racconti, per esempio “Qualcosa era successo” o “Una cosa che comincia per elle”. (Sulle modalità con vengono ricreate incertezza e suspense al livello linguistico nel discorso buzzatiano, cfr. il testo di Mignone citato in Bibliografia.)
Il fantastico è infatti costruito sui vuoti e sull’attesa che questi vuoti vengano colmati dallo svolgimento del racconto, ma tale aspettativa viene puntualmente disattesa e gli esiti di tale silenzio protratti sino alle estreme conseguenze, come in “Non aspettavano altro”: nonostante il titolo suggerisca l’inevitabilità degli eventi che hanno luogo nel racconto, le loro cause sono razionalmente inspiegabili e di fatto non trovano una spiegazione neanche nel finale. (Questo racconto può essere assimilato ad altri, nella produzione dello scrittore bellunese, in cui l’evento fantastico scaturisce dall’assurdo logico che sperimentano i protagonisti del racconto, come ad esempio “I sette piani” o “Questioni ospedaliere”.)
Non c’è alcuna ragione logicamente accettabile, infatti, per la serie di catastrofici eventi nei quali sono coinvolti Anna e Antonio, giovane coppia in cerca di refrigerio dal torrido caldo estivo nella cittadina in cui sono di passaggio. Al silenzio subentra una lingua incomprensibile, che rende impenetrabili, tanto ai malcapitati protagonisti come ai lettori, le leggi che reggono la realtà mostruosa del racconto.
L’opposizione tra due spazi, quello dei protagonisti e quello degli “altri” – ovvero, l’IN della normalità, in cui si situano oltre ai protagonisti, anche il narratore e, chiaramente, il lettore e l’ES dell’anormalità mostruosa, secondo il modello lotmaniano –, è tracciata in modo marcato e reiterata nell’intero racconto. Sin dall’inizio, infatti, una serie ridondante di indizi segnala l’ostilità del luogo verso i protagonisti, ma sono gli insisti riferimenti agli sguardi e ai bisbigli da parte degli abitanti del paese a fungere da segnali che preparano l’irruzione dell’anormalità:
Gli sguardi dei presenti erano più che mai concentrati sulla coppia e quando i due giovani si avviarono alla scala per risalire sulla via, il bisbiglio per un istante tacque.
Il bisbiglio viene in un certo senso a sostituirsi alla parola, esso è la parola taciuta che i protagonisti non riescono a sentire e sul cui contenuto è portato a interrogarsi anche il lettore.
La catastrofe narrativa – “quel crack inatteso e inaudito, terribile e definitivo” che, secondo Bonifazi, dopo una lunga tensione dall’andamento crescente, culminerebbe nell’evento fantastico – scoppia quando Anna decide di rinfrescarsi bagnandosi nella fontana, violando così, dapprima inconsapevolmente, poi senza curarsene intenzionalmente, quello che scopriamo essere un implicito divieto di questa comunità.
L’opposizione fra locali e forestieri che organizza il racconto si manifesta in primo luogo attraverso la lingua. Infatti, sia la parlata di Anna che quella di Antonio risuonano di accenti stranieri: basta questa loro alterità per scatenare una vera e propria caccia all’uomo, in cui è la “mostruosità” ad avere la meglio sulla “normalità”. Anna viene coperta da palle di fango lanciate dalle donne sedute attorno alla fontana; Antonio è aggredito, prima solo verbalmente poi anche fisicamente, da un giovane attaccabrighe lì presente. A niente valgono i deboli tentativi di spiegazione dello sfortunato Antonio, che appare anche lui ormai privo di parola:
Qui Antonio intervenne, facendosi largo. Ma come avviene nei momenti di eccessiva emozione, pronunciò parole sconnesse: «Per piacere, per piacere» cominciò «lasciate stare! Che cosa vi ha fatto di male, per piacere… Vi dico che… Sentite… Vi consiglio… Anna, Anna, vieni via subito!
Così pure, nel momento più acceso dell’aggressione, anche Anna resta muta, incapace di articolare un suono e difendersi:
Un urlo volle uscire dalla ragazza. Non ne venne fuori che il fiato senza suono, una specie di sibilo. Nello spasimo lei abbrancó fulmineamente il bimbetto, scaraventandolo lungo disteso nell’acqua.
Da questo momento in poi, la conclusione catastrofica è segnata e, di nuovo, vediamo che è la perdita della lingua a denunciare l’emergere di una mostruosità sinora celata, il passaggio dalla realtà ordinaria all’evento extra-ordinario, annunciato da una spaventosa metamorfosi:
Ma ecco si accorse che la gente non parlava più come prima. Fino allora aveva udito intorno parlare il solito dialetto della città, per lui facilmente comprensibile. Adesso, inspiegabilmente, le bocche sembravano gonfiarsi, incespicando, e ne uscivano parole diverse, di suono rozzo ed informe. Come se dai remoti pozzi delle città fosse venuta su un eco turpe e nera. La scellerata voce dei bassifondi turpi e antichi all’improvviso riviveva, carica di delitti? Egli fu tra stranieri, in una terra lontana e inspiegabile, a lui feroce.
In una scena di delirio collettivo, la giovane Anna viene afferrata, trascinata con forza fuori dalla fontana e poi rinchiusa e appesa in una gabbia, esposta al pubblico ludibrio. Gli altri hanno ormai perso ogni aspetto umano, emettono solo grida e incomprensibili grugniti:
«L’abbiamo presa!» spiegò ansimando. «Voleva mmegh n bemb ghh mmmm mmmm!» Anche a lui le parole si intorbidivano in quel tenebroso mugolio.
Quelli che vediamo contrapposti sono i nostri protagonisti e delle creature possedute da forze oscure e ancestrali, in cui sembra essere stata annientata la ragione; una massa inferocita dominata da «una forza cupa ed enorme» (p. 353), come viene in più tratti ripetuto nel testo: «Chi sentiva più il caldo? Il pretesto sembrava meraviglioso. Niente ormai tratteneva il buttare fuori il fondo dell’animo: il sozzo carico di male che si tiene dentro per anni e nessuno si accorge di avere» (p. 351).
L’impossibilità di prevedere l’assurdo precipitare degli eventi è segnalata nel testo dalle domande che punteggiano la narrazione e che ripropongono al lettore l’esitazione del protagonista e la sua incapacità di decifrare ciò che accade intorno a lui:
Lo raggiunse, mentre si allontanava, una nuova esplosione di urla: «Alla gabbia!» gli parve che gridassero. Ma forse aveva capito male. Che cosa poteva voler dire?
Il motivo della persecuzione resta senza risposta anche alla chiusura del racconto: c’è di fondo una colpa all’origine della tragedia (la determinazione di Anna nel prendersi il piacere, bagnandosi nella fontana, nonostante le donne del paese l’avessero ripetutamente diffidata dal farlo) ma, come spesso accade nei racconti di Buzzati, la punizione non è commisurata all’entità della colpa. La leggerezza di Anna è all’origine della rottura di un ordine, un precario equilibrio la cui infrazione porterà al prevalere dell’alterità mostruosa – insita nei nostri simili e quindi forse anche in noi stessi? – che porterà i protagonisti all’annullamento.
Senza l’intervento di forze soprannaturali, Anna e Antonio finiscono prigionieri di una volontà inumana, in un altro tempo e senza speranza di salvazione. Così si chiude infatti il racconto:
Nel silenzio che seguì, dal muro del fossato a cui la gabbia appoggiava, proprio in corrispondenza, giunse il tremulo richiamo di un grillo. Cri-cri, pareva si avvicinasse. Attraverso le sbarre, Anna tese adagio verso il grillo una piccola mano tremante, come chiedendo aiuto.
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