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Gusto per il rischio: videogiochi e letteratura si incrociano

Maxwell Neely-Cohen BIGSUR, Società

Letteratura e videogiochi sono davvero due mondi incompatibili? Non secondo il giovane scrittore Maxwell Neely-Cohen, che spiega come una collaborazione fra editoria e industria dei videogame sarebbe non solo auspicabile, ma addirittura vantaggiosa.
L’articolo è apparso per la prima volta su The Millions e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.

di Maxwell Neely-Cohen
traduzione di Mariachiara Eredia

Da ragazzino i videogiochi mi hanno insegnato sulla scrittura tante cose quanto i romanzi. Le migliaia di ore che trascorrevo con la testa sui libri erano pari alle migliaia di ore passate al computer. Al mio cervello infantile letteratura e videogame non sembravano due realtà disparate appartenenti a secoli diversi, anzi, non credo di aver nemmeno notato che tra loro ci fosse una differenza.

Giocavo per le storie, tanto che alle scuole medie nessuno, in realtà, mi considerava un vero e proprio «giocatore». Mi importava poco vincere o essere bravo. Quello che mi interessava erano le storie.

Quando mi cimentavo in giochi di strategia come Civilization, i regni che costruivo non erano soltanto pedine su una scacchiera. Nella mia testa, già quando avevo sette anni, le città erano reali. Vi abitavano delle famiglie. Avevano una cultura e un’identità e una storia alle spalle inventate turno dopo turno. Mi suscitavano delle emozioni. Non costruivo distretti, eserciti e generali solo per motivi strategici, ma anche estetici e sociologici.

Quando ero un pilota di caccia nei giochi di simulazione spaziale, ciascun volo aveva per me una struttura narrativa, cinematografica, e le missioni non erano una serie di obiettivi ma racconti brevi, capitoli. Il luccichio dei pixel grigi delle paratie e i neon lampeggianti degli strumenti in cabina di pilotaggio avevano la stessa importanza del punteggio.

Nei primi due sparatutto in prima persona a cui abbia mai giocato, era raro che riuscissi a completare i livelli, piuttosto consideravo i labirinti di Doom o Dark Forces peregrinazioni kafkiane interrotte da battaglie esistenziali. Mi affascinavano il modo in cui veniva introdotta la storia e lo sviluppo della narrazione fra un cambio di scenario e l’altro, in un’escalation progressiva di difficoltà e progettazione.

A volte era quasi come se ci fosse un nesso tra i giochi a cui mi dedicavo e i libri che leggevo. Half-Life richiamava Huxley e Diablo II Dante. In seconda media iniziai a studiare latino e a leggere storia romana solo per contestualizzare meglio la mia ossessione per Caesar III. William Gibson mi obbligò a tornare indietro e rigiocare a Syndicate. Fu per via di Sim City 2000 che rubai a mio padre una copia di The Power Broker di Robert Caro. Max Payne, il mio primissimo approccio al noir, faceva rima con Patricia Highsmith e Raymond Chandler.

Al liceo non capivo perché fosse solo un gruppo così ristretto di libri a influenzare esplicitamente i videogiochi. Quando lessi Il racconto dell’ancella non riuscii a capacitarmi di come non ce ne fosse una versione in videogame nascosta da qualche parte in un angolino dell’universo digitale, e nemmeno un vago omaggio nelle onnipresenti distopie fantascientifiche che facevano da sfondo a moltissimi giochi. In quella che adesso potrei definire solo come ingenuità adolescenziale, era impensabile per me che opere dominate da personaggi maschili e incentrate sulla tecnologi come Il gioco di Ender o Snow Crash, si prestassero benissimo a diventare videogiochi, mentre per Orgoglio e pregiudizio e Mentre morivo sembrava non valere la pena di svilupparne uno.

A distanza di quindici anni dai miei gloriosi giorni di giocatore, i videogame sono diventati il principale mezzo di comunicazione del pianeta, anche se a giudicare dalla letteratura contemporanea non si direbbe. A parte i tentativi di Austin Grossman ed Ernest Cline, le poche opere di narrativa che affrontano l’importanza dei videogiochi si muovono di solito ai margini di generi non sempre considerati «letterari», oppure sono opere di letteratura sperimentale più interessate a trasformare la struttura del romanzo in un gioco che non a usare il romanzo per indagare cosa implichi l’ascesa dei videogame per l’esperienza umana.

In tutto ciò, la cosa veramente triste è che il mondo letterario e quello dei videogiochi potrebbero recarsi l’un l’altro enormi vantaggi. Anche solo un dialogo, per non parlare dell’inizio di una vera collaborazione e discussione, aiuterebbe entrambi a misurarsi con i rispettivi limiti.

L’editoria deve ritagliarsi uno spazio nel mondo digitale attraverso forme nuove e più interessanti. Troppo spesso si considera la «tecnologia» un ammasso informe, o peggio, la si tratta con indifferenza. Ebook che offrono poco più della trasposizione digitale del libro, app non particolarmente originali e account Twitter per la promozione di autori morti o luddisti sembrano essere il massimo degli sforzi innovativi di moltissimi editori. Persino in termini di contenuto la narrativa contemporanea non riesce a evocare la vita del ventunesimo secolo e ad affrontarne i problemi in rapida diffusione. Noi scrittori ci concentriamo eccessivamente sul passato, o peggio ancora riutilizziamo le forme e le strutture di secoli fa senza gusto per il rischio, le difficoltà e i fallimenti che comporta l’innovazione.

Nonostante lo straordinario successo economico e l’importanza culturale, anche il mondo dei videogame presenta dei problemi considerevoli. Malgrado gli sforzi di un gruppo sempre crescente di critici, giornalisti, scrittori e teorici (per non parlare di un esercito di talentuosi sviluppatori indipendenti), il settore si trova ad affrontare questioni di legittimità culturale e una vera e propria battaglia per superare la ripetitività dei contenuti. In America la maggior parte delle istituzioni culturali ignora l’intero mezzo di espressione, e le eccezioni assumono spesso la forma di tentativi disperati e incerti di attirare un pubblico più giovane (come l’aggiunta da parte del MoMA di quattordici giochi vintage alla propria collezione), oppure un atteggiamento di aperta ostilità (come quando il defunto Roger Ebert, nel 2010, affermò che «i videogiochi non potranno mai essere arte», una posizione successivamente mitigata in seguito al dissenso dei lettori). Nel frattempo, giochi ad alto budget come Call of Duty e Halo seguono sempre gli stessi schemi di gameplay e sviluppo della storia, con poche vere innovazioni a parte miglioramenti grafici e l’uso di cliché hollywoodiani in continua evoluzione.

Luminari della critica dei videogiochi come Leigh Alexander, Luke Plunkett, Tom Bissell, Cara Ellison e John Walker hanno analizzato e discusso ogni aspetto di come è fatto e di come dovrebbe essere fatto un gioco, cimentandosi nella fatica di Sisifo di attaccare la grande industria per la politica di genere retrograda, l’assenza di diversità e la riluttanza a esplorare temi che non siano i soliti collaudati da film d’azione, rivolti con fare indulgente al peggiore stereotipo immaginabile di dodicenne maschio. Ma questo settore in crescita di critica e teoria ha indotto solo gli aspetti formali a fare i conti con le proprie pecche.

Nel corso dell’ultimo anno, mi sono dato molto da fare per iniziare un dialogo e una collaborazione con gli addetti all’industria dei videogame. Ho partecipato a eventi e conferenze e ho sfruttato la rete di contatti dei pochi amici che lavorano nel campo. In quest’arco di tempo tutti gli sviluppatori di videogiochi in cui mi sono imbattuto, a prescindere dalle dimensioni delle aziende e dalla natura dei loro progetti, hanno espresso il desiderio di essere presi maggiormente sul serio come artisti e creatori. E la netta sensazione è stata che ciò non sia ancora avvenuto.

Quando nel marzo 2013 ho partecipato per la prima volta alla Game Developers Conference, sono rimasto sbalordito dal grande interesse nei confronti di un aspirante scrittore qualunque. Sia colossi del campo che sviluppatori indipendenti mi hanno chiesto consigli su come diventare più «letterari» o «romanzeschi».

Produttori di titoli ad alto budget mi hanno confessato che vorrebbero tanto che nei loro giochi ci fossero contenuti scritti meglio, ma sembravano non aver idea di come accedere al gruppo di, come li ha definiti uno sviluppatore della Creative Assembly, «quei laureati in scrittura creativa che vivono a Brooklyn e sono sicuramente disoccupati». C’è un fondo di verità in quest’affermazione. Di certo nel mondo letterario ci sono talenti inutilizzati che farebbero invidia agli autori di dialoghi e testi di molti notissimi videogiochi. A parte i pochi con esperienze sia in ambito videoludico che letterario (come Austin Grossman), l’industria dei videogame non ha gli strumenti per valutare le capacità di chi non sviluppa o scrive già per videogiochi. Finora nessuno sviluppatore si è dichiarato disposto a correre il rischio di valutare o assumere laureati dell’Università dell’Iowa. «Sarebbe bello», mi ha detto Chris Avellone di Obsidian Entertainment, «ma è molto difficile assumere qualcuno senza un’esperienza documentata di scrittura per videogiochi».

Allo stesso tempo, le grandi aziende sono spesso interessate a esplorare tematiche e argomenti più seri.

«Come hanno fatto i libri a diventare così prestigiosi?», mi ha chiesto un vicepresidente di Electronic Arts sempre alla conferenza dell’anno scorso, come se questo prestigio sospetto fosse il risultato di una campagna pubblicitaria virale e non un’evoluzione culturale avvenuta nel corso di secoli.

Conversazioni improbabili a parte, in certe aree del settore dei videogiochi è davvero possibile trovare un’impressionante coscienza letteraria. Durante una chiacchierata con Anthony Burch (Borderlands 2), Susan O’Connor (BioShock e BioShock 2) e Aaron Linde (Gears of War 3), tre eccezionali autori di testi di videogiochi, ci siamo detti delusi che non esista un gioco d’azione violento firmato da Bret Easton Ellis, e che nessuno sviluppatore di videogiochi sia mai andato da David Foster Wallace per chiedergli: «Cosa ti piacerebbe fare?»

«Meridiano di sangue sarebbe un gioco fantastico», mi ha detto Burch di recente. «McCarthy scava nelle profondità della malvagità dell’uomo, della sua sete di sangue; con una versione interattiva il giocatore potrebbe sperimentare le proprie reazioni in circostanze analoghe. E poi mi piacerebbe tantissimo un videogioco ispirato a P.G. Wodehouse. A differenza della maggior parte dei videogame, i libri di Wodehouse si concentrano sulle persone ma senza mai violenza né sesso. Sarebbe fantastico portare in un gioco una sensibilità del genere. Mi vengono i brividi al solo pensiero di un gioco con Jeeves e Wooster in stile Telltale [un’azienda famosa per i videogiochi di avventura a episodi]».

Allora gli ho chiesto cosa potrebbe fare il settore per attirare scrittori più talentuosi.

«Innanzitutto produrre giochi che si prestino a una maggiore profondità narrativa», ha risposto lui. «Se il testo di un gioco consiste per lo più in dialoghi di battaglia (immagina 50 varianti diverse dell’espressione: “Granata in arrivo!”), non attirerà di certo i talenti migliori sulla piazza. Se invece un gioco risponde in maniera interessante alle azioni del giocatore, o se la storia si svela in modi che sono possibili soltanto in un videogame, allora molti bravi scrittori non vedrebbero l’ora di cimentarsi in qualcosa di stimolante, diverso e rischioso».

Dietro conversazioni del genere si annida però la realtà per cui essere uno «scrittore di videogiochi» è considerato fin troppo spesso un ruolo secondario nello sviluppo del prodotto. Autori, produttori e programmatori tendono a controllare la struttura e la direzione della storia molto più di quanto si possa credere, mentre gli scrittori si limitano a creare testi su misura.

Ciononostante, il mio viaggio del mondo dei videogame mi ha insegnato che persino dietro il peggiore stereotipo del giocatore si nasconde un potenziale fruitore di letteratura. Così come i romanzi più ambiziosi e impegnativi, i videogiochi presentano narratori inaffidabili, cambiamenti del punto di vista, digressioni che diventano trame a sé stanti, linee temporali frammentate, l’uso di magia, mito, allucinazione e diversi esiti possibili. Questi elementi non sono l’eccezione ma la regola, e i giocatori non si scoraggiano, considerando sfide interessanti anche le difficoltà narrative.

La sviluppatrice Jane McGonigal ha calcolato che ogni settimana sul nostro pianeta si gioca ai videogame per tre miliardi di ore. Per milioni di persone è stata questa l’unica forma o quasi in cui sono venute a contatto con delle storie durante la crescita. Milioni di persone hanno ucciso per finta milioni di altre persone finte. Milioni di persone hanno conquistato il mondo o impedito che venisse conquistato, hanno costruito e governato megalopoli di dimensioni improbabili, hanno seguito le storie di innumerevoli personaggi eroici e malvagi.

Dovremmo provare a scrivere dei romanzi per loro.

I maschi dai dodici ai diciotto anni non sono gli unici a giocare ai videogame. Secondo l’Entertainment Software Association, l’età media dei giocatori è trent’anni, e il 45% è composto da donne. Eppure la maggior parte dei videogiochi è ancora senza dubbio indirizzata a un pubblico giovane e prevalentemente maschile, le aziende lo ritengono indispensabile per le loro entrate nonostante una montagna di prove mostri il contrario.

Questa sproporzione lascia fuori una grossa fetta di consumatori, intere fasce di potenziali giocatori che l’industria dei videogiochi ha di fatto abbandonato con il sessismo, la ripetitività e l’incapacità di sfruttare nuove storie e contenuti.

Dovremmo provare a creare dei videogiochi per loro.

Si dovrebbero trasformare i romanzi in videogame, i videogame in romanzi. Gli editori dovrebbero collaborare con gli sviluppatori indipendenti: visibilità e contenuto in cambio di forza lavoro e un nuovo mezzo di espressione. Le riviste letterarie e le biblioteche dovrebbero sostenere i raduni di giocatori, e l’industria videoludica sfruttare appieno le migliaia di classici della letteratura che sono di dominio pubblico.

Tuttavia, anche senza sforzi mirati in questo senso, è ragionevole sperare che nel settore in crescita dei giochi indie i videogame matureranno e approfondiranno tematiche e forme più letterarie.

Agli stand dell’Independent Games Festival, Calvino e Borges non erano nomi nuovi. Quando ho parlato di Flatlandia di Edwin Abbott agli sviluppatori di Super Hexagon e Super Space, loro hanno alzato gli occhi al cielo come dei dottorati in lettere a cui è stato appena chiesto se hanno mai sentito parlare di James Joyce. I creatori di Paralect, finalista al festival del 2014, hanno riconosciuto l’influenza diretta de Il maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov. Ma interessi e conoscenze simili sono limitati a una piccola cerchia di autori.

Mentre in passato i giochi indie erano soltanto una manifestazione marginale e sottoculturale senza alcuna influenza sulle grandi aziende, l’ascesa della distribuzione digitale ha regalato a piccoli o singoli sviluppatori indipendenti l’opportunità di arrivare al successo economico pur rimanendo lontani dai budget delle grandi produzioni e dalle lotte per accaparrarsi sempre la stessa fetta di mercato.

L’anno scorso, giochi pluripremiati come Papers Please (con al centro il controllo passaporti di uno stato comunista immaginario) e Starseed Pilgrim (un gioco di giardinaggio disseminato di poesie fluttuanti), entrambi sviluppati da persone singole, sono la prova che i giochi indie con presupposti atipici possono riscuotere un buon successo commerciale e, cosa ancora più importante, regalare ai giocatori esperienze coinvolgenti, dello stesso valore di molte storie scritte nere su bianco.

Gone Home, in cui il giocatore esplora la propria casa d’infanzia ormai vuota, è spesso descritto da giocatori e critici come romanzesco, vale a dire come un libro; a febbraio 2014 aveva venduto 250.000 copie in sette mesi scarsi. Niente male per l’equivalente videoludico del romanzo di una piccola casa editrice indipendente. Immaginate se un romanzo autopubblicato che racconta la vita di un adolescente a metà anni Novanta nel Pacifico nordoccidentale vendesse 250.000 copie.

Nel mondo dei videogiochi, i risultati di un prodotto come Gone Home sono un fatto positivo e incoraggiante, ma sfigurano ancora se confrontati con titoli mainstream. Tanto per fare un esempio, negli ultimi quattro mesi del 2013 Grand Theft Auto V ha venduto quasi 27 milioni di copie, incassando più di un miliardo di dollari nei primi tre giorni di vendita.

Mentre è facile bollare giochi notissimi come Grand Theft Auto V o Call of Duty come privi di contenuti e ben lontani da qualsiasi definizione di classico letterario, è probabile che Miguel de Cervantes si sarebbe divertito a fare una passeggiata virtuale nel Medioevo di Assassin’s Creed e che Italo Calvino sarebbe stato entusiasta di giocare a Sim City. Non si deve dimenticare che i videogiochi, persino i più noiosi e di scarsa qualità, stanno concretizzando quelle che una volta erano solo le fantasie ambiziose dell’OULIPO e di altri scrittori sperimentali dell’era predigitale.

Quando nel 2010 fu pubblicato il videogioco Dante’s Inferno, varie edizioni della Divina commedia scalarono le classifiche di vendita di Amazon. Poco importava che il gioco fosse tutt’altro che un fedele adattamento del poema dantesco. Un’amica che insegna inglese alle scuole medie a Cleveland, in Ohio, piangeva quasi mentre mi raccontava che alcuni dei suoi studenti ne avevano portato una copia in classe.

«I ragazzini mi chiedono sempre quale scrittore abbia influenzato BioShock (Ayn Rand) o perché Spec Ops: The Line non renda affatto giustizia a Cuore di tenebra», ha raccontato. «Me lo chiedono anche i miei amici adulti, ma raramente mi tormentano per sapere chi ha vinto il Man Booker Prize».

Con opere vecchie e nuove, il mondo letterario si trova in una posizione unica per partecipare attivamente alla crescita di una forma d’arte ancora giovane. E se gli sviluppatori di videogame iniziassero a reclutare scrittori con una formazione diversa dal solito, potrebbe nascere un’era di collaborazione e innovazioni senza precedenti non soltanto per un settore, ma per due.

© Maxwell Neely-Cohen, 2014. Tutti i diritti riservati.

 Maxwell Neely-Cohen è autore del romanzo Echo of the Boom. I suoi articoli sono apparsi su Buzzfeed, The Atlantic, The Millions e The New Republic.

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