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Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica

redazione Società, SUR

In attesa del bellissimo evento programmato per martedì 31 marzo – presenteremo L’esercito di cenere di José Pablo Feinmann con un live dei Sacri Cuori e una lettura di Daniele Onorati – pubblichiamo oggi un contributo di Antonio Gramentieri, chitarrista e mente della band, che ci racconta la loro idea di Sudamerica.
Qui tutti i dettagli dell’evento.

«Sudamerica, Sudamerica, Sudamerica»
di Antonio Gramentieri

Il Sudamerica di Sacri Cuori è un orizzonte, prima ancora che un luogo da indicare su una cartina. Un luogo in cui specchiarsi, in cui cercare cose distanti con un sapore di casa. Declinazioni diverse di uno stesso sentire. In cui rivivere ogni volta il miracolo quotidiano di una pulsazione in sincrono di cuore e ventre, di anima e carne, di divino e di umano. In cui ritrovare un certo modo familiare, di sentire le cose, le melodie, i colori. Di raccontare le cose, e i suoni, con la barra del timone sempre puntata verso il centro esatto delle passioni.

Il Sacro Cuore è in fin dei conti la più straordinariamente umana delle rappresentazioni iconografiche. Un cuore che sanguina, e che palpita: la cosa che ci rende più straordinariamente uomini, e che ci proietta più indiscutibilmente “oltre”. Per noi il Sacro Cuore è la continuità iconografica fra la nostra Italia sognata, decadente di una nobiltà trapassata e remota, appesa a un passato glorioso e a un’eleganza perduta, e il Sudamerica come centro esatto della gioia e della malinconia. Il Sudamerica come luogo dell’unico blues possibile per l’uomo bianco, che è la nostalgia. O forse il gusto dolceamaro del ripianto: l’amore che non è potuto essere, le rose non colte.

Il nostro Sudamerica geografico ha avuto i colori dell’Argentina, e poi a risalire Panama, e il Messico. In musica ha avuto i colori del conjunto e della cumbia, riadattati e rivissuti per una terra che non si affaccia sugli oceani ma sull’Adriatico. Come un’orchestra che suona e canta di terre che non ha mai visitato. Il nostro Sudamerica non ha avuto nulla del – pure nobile – purismo della ricerca, né del gesto accademico di riscoprire dialetti altrui, e pronunciarli correttamente.

Cercare il nostro Sudamerica è stato cercare noi stessi, cercare il minimo comune denominatore di un “essere latini” che scavasse più a fondo delle scuole di salsa nelle balere di provincia, del latinismo sculettante negli spot d’una qualche offerta telefonica, della bossa intellettuale. Cercare il senso della fiesta vera, quella che si fa per il solo fatto d’esser vivi, quella che sa di essere fiesta poiché confina da entrambe le parti con la malinconia. Che parla la lingua dei sensi, della seduzione, e sa cogliere il gusto sfuggente della vita vera, la dolcezza provvisoria di ogni istante, che mentre lo racconti è già passato.

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