Pubblichiamo oggi un pezzo di Francesca Lazzarato dedicato a Mariana Enriquez, autrice argentina che per SUR ha scritto la prefazione a Niente miracoli a ottobre di Oswaldo Reynoso. L ’articolo è uscito originariamente su il manifesto, che ringraziamo. [Il dipinto è di Carol Rama.]
Mariana Enriquez, ragazza di provincia cresciuta tra Lanus e Mar del Plata, aveva ventun anni quando il manoscritto del suo primo romanzo finì per caso nelle mani Juan Forn, dell’Editorial Planeta, che nel 1994 decise di pubblicarlo, puntando sui contenuti «forti» di un testo in cui i bassifondi di Buenos Aires facevano da sfondo a furibonde scene di sesso e disperati amori omosessuali, tra fiumi di droga e sinistre allucinazioni. Se la critica rimase perplessa davanti a pagine che fanno pensare un po’ a Poppy Z. Brite e un po’ ai tenebrosi parafernalia ammucchiati nella cameretta di un’adolescente dark, il successo di pubblico non mancò, e l’attenzione dei media neppure: TV e giornali parlarono fin troppo della «più giovane scrittrice argentina», considerata un «caso» piuttosto che una promessa della letteratura.
Chissà che i successivi dieci anni di silenzio dell’autrice non abbiano qualcosa a che fare con il disagio provocato da quella repentina sovraesposizione mediatica; ma può anche darsi che Mariana Enriquez abbia semplicemente deciso di prendersi il tempo necessario per vivere, sperimentare, lavorare (giornalista, è oggi co-responsabile del supplemento libri del quotidiano Pagina /12), insomma per crescere. E infatti il suo secondo libro, Cómo desaparecer completamente, uscito nel 2004, appare ben più meditato: un romanzo di formazione in cui un sedicenne cerca, tra abusi segreti e mostruose figure familiari, una via di uscita forse impossibile. Da allora Enriquez non si è più fermata, producendo un libro di racconti, un romanzo breve, un’eccellente biografia di Silvina Ocampo, una raccolta di crónicas e soprattutto i dodici cuentos di Las cosas que perdimos en el fuego (titolo mutuato da una canzone dei Low), che ne conferma la raggiunta maturità e che è in via di traduzione in una ventina di lingue.
Proprio quest’ultimo libro, tradotto da Fabio Cremonesi, arriva oggi ai lettori italiani (Le cose che abbiamo perso nel fuoco, Marsilio), ai quali Caravan – piccola casa editrice sempre alla ricerca di nuovi autori per la sua ottima collana Bagaglio a mano – aveva già offerto nel 2014 l’occasione di conoscere Mariana Enriquez grazie ai tre racconti riuniti in Quando parlavamo con i morti, e che ha da poco pubblicato anche le sue affascinanti cronache di viaggio, in cui realtà urbane differenti vengono ritratte attraverso i rispettivi cimiteri (Qualcuno cammina sulla tua tomba, traduzione di Alessio Casalini).
Accompagnato da critiche positive e spesso illustri, come quelle di Beatriz Sarlo o Edmundo Paz Soldán, Le cose che abbiamo perso nel fuoco ripropone le ossessioni che connotano Enriquez sin dall’esordio, confermando la sua abilità nell’usare personaggi e scenari orrorifici come pretesto per avvicinarsi in modo indiretto e metaforico a questioni come la disuguaglianza sociale, l’ultima dittatura, la crisi economica durante le presidenze di Alfonsín e Menem, il conflitto tra i sessi. Ed è innegabile che a differenza dei primi romanzi, cupi e violenti ma sostanzialmente realistici, gli ultimi racconti (come pure quelli di Los peligros de fumar en la cama, uscito nel 2009 e appena riedito da Anagrama) siano interni a un gotico contemporaneo con minimi tocchi di paranormale, che riesce a passare dal «perturbante» più impalpabile (secondo Freud, «quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare», e per nulla estraneo alla migliore tradizione letteraria argentina) al gore più esplicito. Ma confinare Enriquez all’interno di un solo genere sarebbe riduttivo: in realtà l’autrice ne attraversa molti, dal noir al poliziesco, alludendo a materiali cinematografici, musicali e letterari di ogni tipo, da Lovecraft e Shirley Jackson alla gloriosa «serie B» analizzata da Stephen King in Danse macabre.
Allo stesso tempo, però, inquadra ogni storia in una quotidianità riconoscibile, fatta di quartieri decaduti, di villas miserias, di vagoni del metrò e aule scolastiche, di interni domestici e cittadine di provincia, di strade statali perse nel nulla; una geografia desolata in cui si muovono emarginati senza speranze, borghesia impoverita, immigrati, coppie infelici, famigliole malate e, primi fra tutti, bambini, adolescenti, donne. È il loro sguardo, la loro immagine, la loro voce che Enriquez ci restituisce: bambini perduti, ragazzine fragili, feroci e senza freni come capita di essere in un’età fluida ed esplosiva, pronta a tutto; giovanissimi lumpen affogati dai poliziotti per gioco e «perché sì», che si trasformano in revenant; bambine inghiottite da una casa in cui un’ordinata esposizione di denti e unghie evoca certi quadri di Carol Rama… E poi le Donne Ardenti, pronte a tuffarsi in roghi «autogestiti», streghe che bruciano sé stesse in segno di disobbedienza estrema ed estrema protesta («Se continuano così, gli uomini dovranno abituarsi. La maggior parte delle donne diventeranno come me, se non muoiono. Sarebbe bello, no? Una bellezza nuova», dichiara in tv una ragazza senza volto, che il marito ha cercato di bruciare viva).
Il corpo bruciato, distrutto dalla droga o dalla povertà, ridotto a poche ossa, sepolto o riaffiorante, pieno di sofferenza e desiderio, è uno dei temi su l’autrice indaga più a fondo, rappresentandone la presenza/assenza, la torturata manipolazione; corpi che alludono al fantasma di cui la generazione di Mariana Enriquez – bambina durante la dittatura e cresciuta all’ombra di sospetti, paure, segreti – non può liberarsi, ma anche a una violenza quotidianamente esercitata da un patriarcato pronto a nuove incarnazioni (nei racconti, quasi tutte le figure maschili sono il riflesso di una grigia misoginia), dal neoliberismo e dall’incertezza economica, dalla miseria assoluta o dal terrore di esserne inghiottiti.
Storie gotiche, dunque, ma ad alta densità politica, che reinventano gli stereotipi del genere fino a renderli trasparenti e a mostrare, dietro di essi, non tanto l’orrore, quanto «delle vite orribili», come ha suggerito l’autrice in un’intervista, raccontate in una prosa diretta, limata, fatta di frasi brevi e precise, di tremenda efficacia e non prive di ironia, che procedono verso un finale quasi sempre aperto, volutamente irrisolto e inspiegato, così da aumentare abilmente il disagio di chi legge. Storie scomode e irresistibili, storie argentine, ma anche, com’è ovvio, storie di tutti.
© Francesca Lazzarato, 2017. Tutti i diritti riservati.
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