Questa intervista di Raul Schenardi è stata pubblicata su Pulp nel 2007.
Bisogna risalire al 1991 per trovare il primo romanzo di César Aira pubblicato in Italia (Ema la prigioniera, tr. di Angelo Morino per Bollati Boringhieri). E si è dovuto attendere un bel po’ prima che la nostra editoria si interessasse nuovamente a questo scrittore che tutti si affrettano a definire “eccentrico” laddove, a ben vedere, è eccentrico soprattutto rispetto alla collocazione nel mercato editoriale. Non conosco invece altri autori che si installino oggi con tanta determinazione e consapevolezza al centro stesso dei meccanismi costitutivi della letteratura, e che affrontino con altrettanta radicalità le sfide che attendono chi intenda praticare una “nuova scrittura”, come recita il titolo di un suo pregnante intervento teorico.
Ora, con la pubblicazione di Come diventai monaca, e prima ancora di Il mago (entrambi per Feltrinelli), i lettori italiani possono finalmente cominciare a fare la conoscenza di questo scrittore argentino, classe 1949, che ha al suo attivo più di cinquanta romanzi (molti dei quali brevi, soprattutto in anni più recenti), oltre a svariati saggi e a un monumentale Diccionario de autores latinoamericanos, e che gode ormai di ampia fama a livello internazionale. Questa la buona notizia. Quella cattiva: ora che non si dedica più alle traduzioni, Aira pubblica 3-4 romanzi nuovi ogni anno, perciò, come ogni buon iceberg che si rispetti, la sua opera continuerà a restare per noi in gran parte sommersa. Le cose, del resto, vanno appena meglio per chi legge lo spagnolo, dato che molti suoi romanzi sono usciti per case editrici effimere, dai nomi pittoreschi e dalle tirature succinte, e questo, si badi bene, non solo quando era pressoché sconosciuto, ma anche dopo che era stato “scoperto” e lanciato da grossi editori. Sovrana indifferenza (o disprezzo) per le regole e le consuetudini del mercato editoriale? Perfida strategia per invadere tutti gli spazi possibili?
Aira peraltro ha sempre respinto con cortesia ma con fermezza gli apprezzamenti alla sua presunta “prolificità”, sostenendo di dedicare alla scrittura non più di mezz’ora al giorno. Il suo segreto, se dobbiamo credergli, consisterebbe nel non correggere mai: «Un metodo di correzione portato fino alle sue ultime conseguenze condurrebbe all’impossibilità di scrivere, o a scrivere una sola pagina in tutta la vita. A me piace scrivere, qualunque cosa ne venga fuori. E il mio modo di correggere è quello di scrivere le pagine e i libri successivi». Uno dei suoi provocatori paradossi: prima pubblicare, poi scrivere; un altro: meglio un brutto romanzo “nuovo” che uno bello ma “vecchio”.
Certamente uno dei tratti costitutivi della sua letteratura consiste nella rivendicazione del gesto delle avanguardie storiche: «… le avanguardie sono sempre attuali e hanno riempito il secolo di mappe del tesoro che attendono di essere sfruttate. Costruttivismo, scrittura automatica, ready-made, dodecafonismo, cut-up, casualità, indeterminazione. I grandi artisti del XX secolo non sono quelli che hanno lasciato delle opere bensì quelli che hanno inventato procedimenti perché le opere si facessero da sole, o non si facessero». Inoltre, pur essendo un assiduo frequentatore fin dalla tenera età della Biblioteca di Babele della letteratura mondiale (traduttore autodidatta da quattro lingue), e avendo pagato ovviamente il suo debito nei confronti di Borges, ha declinato nel corso degli anni una genealogia letteraria squisitamente nazionale, dichiarando la propria ammirazione per scrittori come Roberto Arlt, Manuel Puig, Copi, Alejandra Pizarnik, cui ha dedicato saggi illuminanti, oltre che per il suo maestro Osvaldo Lamborghini, scrittore avanguardista al limite dell’illeggibilità di cui ha curato l’edizione completa delle opere.
E l’Argentina – soprattutto quella mitica, frutto di rappresentazione – è lo scenario di parecchi suoi romanzi, da quelli ambientati nella pampa ai tempi della conquista coloniale (oltre a Ema la prigioniera, La liebre e Un episodio en la vida del pintor viajero) a quelli in cui l’azione si svolge nel quartiere di Buenos Aires dove vive (Un sueño, Los fantasmas, La villa, Las noches de Flores). Il realismo di Aira, però, che lui rivendica con forza, è quanto di più distante si possa immaginare dalle forme convenzionali di realismo sociale o psicologico: in Ema la prigioniera indios improbabili conversano fra loro come philosophes francesi, e in Las noches de Flores una coppia di pensionati rovinati dalla crisi consegna pizze a domicilio… a piedi. Viceversa Aira non si tira indietro al momento di fare nomi e cognomi: in Los misterios de Rosario, una parodia delle cosiddette campus novel che presenta curiosi punti di contatto con Rumore bianco di De Lillo, il protagonista – un professore universitario inscimmiato di un farmaco illegale – si chiama Alberto Giordano, come il vero Alberto Giordano, critico letterario e professore universitario appunto nella città di Rosario; l’Arturino protagonista di un capitolo di Come diventai monaca è Arturo Carrera, poeta argentino contemporaneo, e nel romanzo La serpiente Aira strangola con una vipera il critico Daniel Molina.
Del resto, non tratta molto meglio se stesso: sia comparendo di sfuggita nelle vesti di uno scrittore frivolo, vanesio, alcolizzato e drogato (in Embalse), sia immedesimandosi nella figura dello scienziato pazzo alle prese con l’obiettivo della conquista del potere nel mondo (nel Congreso de literatura racconta il tentativo – fallito – di clonare lo scrittore messicano Carlos Fuentes, ciò malgrado suo grande ammiratore). Negli ultimi anni, infine, la sua scrittura ha assunto sempre più spesso un tono diaristico, e con ciò stesso vagamente malinconico: in Como me reí (Come ho riso), per esempio, si lamenta del fatto che i lettori commentano invariabilmente i suoi libri con questa frase, laddove le sue intenzioni erano tutt’altre.
«Si dice che sono un umorista, che i miei libri sono pieni di humour. Ma lo humour nei miei libri è assolutamente involontario. La gente ride quando io avevo l’intenzione di scrivere qualcosa di serio. Detesto lo humour in letteratura. L’unico consiglio che do ai giovani scrittori è di rifuggire dallo humour perché è una tentazione pericolosa. Che non gli succeda come a molti, che invecchiano e muoiono senza aver mai parlato di niente di serio. Lo humour è facile e presenta l’inconveniente di dipendere troppo dall’effetto che produce. Se non produce il suo effetto, cade nel vuoto. E anche se produce oggi l’effetto voluto, magari smetterà di farlo domani. Sfortunatamente devo riconoscere che la mia opera è impregnata di humour. Forse si tratta di un grave fallimento.»
È un fatto che i “giovani scrittori” cui allude tengono in gran conto la sua opera, e non sono pochi a riconoscergli un ruolo di spartiacque nella letteratura argentina e a richiamarsi esplicitamente al suo magistero letterario: riconoscimento non indifferente per un autore che ha giocato tutto se stesso nella creazione del “mito dello scrittore” e nell’invenzione di procedimenti per cui le opere possano “farsi da sole”.
Il protagonista di Come diventai monaca porta il tuo nome, e se non sbaglio si tratta del primo romanzo che hai scritto usando la prima persona. Si può dedurne che per qualche episodio hai fatto ricorso a materiale autobiografico o prevale la pura invenzione letteraria?
In effetti diffidavo della prima persona, che è una maniera piuttosto facile di organizzare un racconto. Qui vi ho fatto ricorso per la prima volta, forse perché ero arrivato ai miei quarant’anni e ho cominciato a usare materiale autobiografico. Tutto quello che racconto in questo romanzo mi è accaduto, in un modo o nell’altro. Mio padre non ha mai assassinato un gelataio né è mai stato in prigione, ma quell’invenzione rappresenta sensazioni molto reali di paura e di minaccia.
Il bambino César Aira pensa se stesso e parla di sé al femminile. Vedi l’infanzia – o la tua infanzia – come un territorio dove regnano l’ambiguità e l’indefinizione dei generi?
Di solito i miei romanzi nascono da un’idea e sono esperimenti piuttosto concettuali sui quali posso poi discutere con i miei lettori. Questo romanzo costituisce un’eccezione. È nato da un impulso viscerale, l’ho scritto senza sapere bene cosa stavo facendo e non posso spiegare in alcun modo che cosa c’è dentro. Spesso mi è stato chiesto conto di quei suffissi femminili, e non sono mai riuscito a dare una spiegazione, perché non c’è. Così pure per il titolo. Alcuni lettori mi hanno proposto interpretazioni molto ingegnose, ma naturalmente non mi persuadono.
In calce ai tuoi romanzi appare sempre la data del giorno in cui li hai terminati. Come diventai monaca reca: 26-2-1989, e quello che lo precede risale a due anni prima. Ti ci è voluto così tanto tempo per scriverlo? (Sembra però scritto di getto, per coesione e fluidità.)
Come dicevo prima, l’ho scritto sotto dettato dell’inconscio, nel giro di pochi giorni. Ricordo che sono stati giorni di grande esaltazione, come se mi venisse rivelato un segreto importantissimo.
Il racconto d’infanzia è quasi un classico, tu però lo hai affrontato in maniera molto radicale, con una sintesi drammatica di alcune esperienze chiave. Scrivendo il romanzo ti proponevi anche di fare una parodia del genere, o ti è uscita da sola?
I racconti d’infanzia mi sono sempre sembrati noiosi, prevedibili, demagogici, scontati, tutto il contrario della mia idea di letteratura. Un motivo in più per meravigliarmi di aver scritto questo libro.
Parliamo un po’ della tua idea di letteratura. Hai fama di essere un dinamitardo delle regole secondo cui funzionano i romanzi convenzionali, e un critico spagnolo ti ha accusato di voler demolire la narratività e di avere un’idea della letteratura come “arte minore”.
Non è quello che fanno tutti gli scrittori? Scrivere seguendo le regole e le convenzioni non vale la pena. Sono i lettori stessi, anche quelli più convenzionali, a chiedere sorprese e innovazioni. In ogni caso, come sabotatore delle leggi del racconto sono molto moderato. Avendo una grande ammirazione per il surrealismo e il nonsense, faccio tutto il possibile perché i miei romanzi sembrino almeno romanzi normali. Cerco di conservare la verosimiglianza, e una logica dei fatti. Se qualcuno ha detto che io considero la letteratura un’arte “minore” si è sbagliato. Per me è la regina delle arti, la più difficile e quella che contiene tutte le altre. Penso sia superiore anche alla filosofia.
Una volta hai scritto: «L’improvvisazione è l’arte della felicità». Questo vale anche per la creazione artistica? Quanto c’è d’improvvisazione, per esempio, nel Mago?
I miei romanzi li invento a mano a mano che li scrivo. Il punto di partenza è un’idea che mi stimola, o che mi pongo come un problema da risolvere. In questo caso si trattava dell’idea di un uomo che è un vero mago, e il problema è vedere come trae partito da questo dono. Non pianifico niente e la mia scrittura ha qualcosa del diario, perché utilizzo fatti e scenari e personaggi che incontro via via mentre scrivo il romanzo. Mi piacciono questi interventi del caso perché arricchiscono il racconto e lo rendono imprevedibile anche per me. Mentre stavo scrivendo Il Mago ho fatto un viaggio in Messico, e di lì viene la descrizione dello zoo, del mercato e del caffè-barbiere (ce n’era uno a Guadalajara). Poi sono andato all’Avana, e l’hotel dove sono stato (il Florida, in calle Obispo) è quello del romanzo. Ho partecipato a una riunione di scrittori dissidenti, e il giorno dopo ho scritto la scena degli oggetti da toilette. E così via tutto il resto.
Il protagonista del Mago sembra immerso in una logica del desiderio come frustrazione, ma alla fine trova una via d’uscita nella letteratura, il luogo dove può fare funzionare meglio i suoi doni. Anche qui, come in Come diventai monaca, c’è molta autobiografia?
Naturalmente c’è molta autobiografia. È inevitabile che ci sia, con il mio metodo di improvvisare e di registrare le cose che mi succedono mentre scrivo. In questo caso credo di aver scritto, senza propormelo, una favola con una morale: anche potendo fare qualsiasi cosa, la vita è difficile. Io sono sopravvissuto alle difficoltà della vita grazie alla fuga nella fantasia; in questo romanzo ho voluto dimostrare che, anche se potessi realizzare tutte le mie fantasie, continuerei ad avere dei problemi.
Fino a pochi anni fa ti avevano appiccicato l’etichetta di “il segreto meglio conservato della letteratura argentina”. Adesso, dopo che vari tuoi romanzi sono stati pubblicati in Spagna e tradotti in francese, italiano, tedesco, inglese, stai per diventare la star della letteratura argentina. Ti piace questa nuova condizione di “scrittore professionale” o ti crea problemi?
Essere uno scrittore segreto, marginale, “underground”, ha i suoi vantaggi. Il principale, quello di cui ho approfittato maggiormente, è la libertà che offre di scrivere quello che si vuole, senza compromessi e senza tener conto dei gusti di nessuno. Con il tempo ho cominciato a perdere questi vantaggi del franco tiratore, ma cerco di conservare la libertà. Negli ultimi anni la sfida a tornare a essere inaccettabile mi ha stimolato e ringiovanito.
C’è una tradizione letteraria argentina – o alcuni nomi – a cui ti riferisci o verso la quale pensi di aver contratto qualche debito?
Non vedo perché la mia tradizione dovrebbe essere argentina. Sarebbe così se mi fossi imposto la decisione di diventare scrittore, nel qual caso fatalmente dovrei essere uno scrittore argentino. Ma io sono uno scrittore in via secondaria. Prima di questo, e dopo, sono un lettore. Scrivo per avere una buona scusa perché mi lascino leggere in pace. E noi lettori anticipiamo la globalizzazione; siamo internazionalisti congeniti. La nazionalità degli autori che amiamo ci interessa poco. Inoltre, mi sono sempre considerato erede di una tradizione che va al di là della letteratura propriamente detta, dato che include musicisti, pittori, cineasti.
In Las noches de Flores (il tuo prossimo romanzo che uscirà in Italia) affiora il tema della crisi che ha colpito l’Argentina. Ha avuto effetti sgradevoli anche sulla tua vita e la tua creazione artistica?
Sì, mi ha colpito, e più di quello che pensavo. Adesso però, pochi anni dopo, vedo che non ha lasciato tracce. La lettura dei Canti di Maldoror, quarant’anni fa, ha lasciato in me una traccia molto più profonda, e che non si è cancellata. Immagino che questo dica qualcosa circa l’importanza relativa della Storia e della poesia.
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