Pubblichiamo oggi un autoritratto della scrittrice argentina Luisa Valenzuela. Quasi del tutto sconosciuta in Italia, alcuni suoi titoli sono stati pubblicati da Perosini editore e Gorée.
«Scrivere»
di Luisa Valenzuela
traduzione di Giulia Zavagna
Scrivo contro coloro che credono di avere tutte le risposte. Spero che ogni mio libro sia una fonte che genera domande su domande e, per fortuna, quasi nessuna risposta.
Credo che si scriva sempre a partire da una carenza, e non per colmarla – sarebbe una pretesa vana e presuntuosa – ma per interrogarla. Personalmente, ho avuto la fortuna di iniziare a scrivere i miei primi racconti quando ero ancora molto giovane, eliminando così la barriera a volte insormontabile dell’autocritica, e a vent’anni mi sono potuta buttare, del tutto sfacciatamente, in un romanzo. È stato un po’ come il tango, ero «bloccata a Parigi» e sentivo la mancanza di una Buenos Aires dove non sarei più tornata. Non vi sarei più tornata, tra le altre ragioni, perché era la mia Buenos Aires inventata, archetipica, e queste invenzioni sono sempre generative e mutevoli, come i miti. Il romanzo si intitolava Hay que sonreír, e non si trattava di un consiglio, era un’imposizione.
Prima e dopo ci sono stati i racconti, raccolti poi in un volume che ho intitolato Los Heréticos perché ciò che allora mi interessava, e mi interessa tuttora, è il sottile confine che separa la religione dall’eresia.
Los Heréticos è stato pubblicato nel ’67. Il ’70 è stato per me l’anno della svolta, l’anno del riconoscimento della letteratura vulcanica e delle mie stesse eruzioni interiori. Credo sia stato lo shock della New York di fine anni ’60 a generare un testo viscerale, e spero profondamente erotico: El gato eficaz.
In verticale o orizzontale, all’insù o all’ingiù, scrivevo El gato eficaz in ascensore, in viaggio, camminando verso luoghi sconosciuti, verso parti di me stessa quasi del tutto oscure. Sono molto contenta di averlo fatto, di aver potuto anche per una sola volta rompere gli argini e non riconoscermi affatto. È un libro che posso riprendere in ogni momento, rileggerne qualche pagina e stupirmi, come se non mi appartenesse. E sinceramente credo non mi appartenga. Credo non sia nemmeno frutto della mia immaginazione. Forse è un solo un piccolo segno del contatto con l’inconscio transindividuale, con l’Altro con la A maiuscola, come direbbe Lacan.
Poi c’è stata la vita di tutti i giorni, è ovvio, e le mie manie ambulatorie che hanno iniziato a portarmi dagli Stati Uniti al Messico, alla Francia, a Barcellona. E c’è stato, a Barcellona, il tentativo di scrivere qualcosa di vagamente autobiografico che iniziava così:
Era nata come tutti nascono, protestando per la sua fottuta sorte. Non fu possibile stabilire se le sue urla fossero lamenti per essere venuta al mondo o per qualcosa di più sottile, come un’angoscia nei confronti della razza umana – i suoi fratelli – che provava entrando in quel liquido amniotico collettivo che è l’aria.
L’autobiografia ha poi preso il volo alla seconda pagina, io sono tornata a sorridere e a sentire quanto può essere esaltante la creazione letteraria quando il linguaggio inizia a esprimersi attraverso qualcuno, o meglio, nonostante qualcuno.
Como en la guerra era il titolo di quel romanzo, a cui ho dovuto aggiungere dei paragrafi più o meno falsi per far credere che fosse una guerra d’amore e non si notasse quell’altra sovversione di valori che andava prendendo forma man mano che il testo avanzava.
Tanta finzione, tante maschere… Noi donne conosciamo bene queste cose, ed è ora che ne approfittiamo per rivendicare la nostra libertà di parola, la parola che finora ci è stata vietata.
I racconti di Aquí pasan cosas raras sono cronache della paranoia di Buenos Aires negli anni neri: la parola che mi era stata vietata e che ho potuto, in un modo o nell’altro, pronunciare. Grazie al grottesco, all’iperrealismo letterario, all’umorismo nero, o quello che era, sono riuscita a oltrepassare le barriere della censura governativa e a dire in quel momento quello che avevo da dire.
È proprio così che sono nati, un po’ più avanti e dopo altri libri, Cambio de armas, e alcuni dei racconti che fanno parte della nuova raccolta: Simetrías.
Ho vissuto dieci anni a New York (dal ’79 all’89) e, avendo scritto Noir con argentini, che si svolge nei bassifondi della città ma con degli accenni alla politica argentina, ho deciso che fosse arrivato il momento di tornare nel mio paese. Lo shock del ritorno mi ha portato a scrivere Realtà nazionale vista dal letto, quindi ora non so con precisione dove finisce la mia vita e inizia la letteratura, o viceversa.
Agosto 1991
Io sono un’altra, tutte le altre
Il mio doppio in realtà è semplice. La semplice proiezione di ciò che ho voluto o vorrei essere e (perché no?) sono. Al di là di quando, da bambina, sognavo di diventare regina o campionessa di qualche sport rischioso o eroina autosalvata dalle acque o qualcosa del genere, gli altri miei sogni, più precisi e affini a me, bene o male sono diventati realtà nel corso della vita e coesistono in modo non sempre pacifico con la stessa scrittura.
Questo è il vantaggio della fiction: permette di immedesimarsi in chiunque.
La protagonista del mio ultimo romanzo è un’antropologa. È evidente che questa sarebbe la sintesi di altre passioni, diciamo, meno pratiche. Come essere esploratrice, o detective, o pilota collaudatore, o scienziata. Tutte possibilità che mi sono passare per la testa: tra tutte, quella di diventare scienziata era la più coerente e persistente. Finita la scuola, volevo studiare matematica e fisica, e credo che sarei stata piuttosto brava in quelle discipline, perché la comprensione delle complessità astratte non mi mancava. Allora. Ora niente del genere, sebbene leggere testi specializzati, dei quali capisco, con ottimismo, un dieci per cento, mi riempia di una particolare euforia. Non ho mai voluto fare la psicanalista, anche se leggere di psicanalisi mi stimola e mi scatena l’immaginazione, già abbastanza scatenata di suo; tuttavia, una cosa sono le letture, e altra cosa le costruzioni fantasmatiche, come ho ben imparato da suddette letture.
Pittrice sì, oh sì che avrei voluto esserlo, se avessi avuto un pizzico di talento. Adorerei vivere circondata da forme e colori e odore di trementina che non è nulla di tremendo come il nome sembrerebbe suggerire. Proprio per questo ho accettato di essere scrittrice, perché sono le parole che mi vengono spontanee, e mi aprono un mondo di forme e colori e rituali e maschere ed è in esse che posso essere perfino la sciamana della tribù, il mio doppio.
Convive con me una donna indipendente a oltranza, indisciplinata, spietata, onnivora, sgretolata. Per questo io e il mio doppio: un solo cuore, come gemelline siamesi. E anche il mio triplo e il mio quadruplo e la mia ennesimapotenza. Perché dovrei limitarmi a due, e solo due, come chi balla il tango?
Marzo 2001
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