Zama, da molti considerato un’opera imprescindibile della letteratura argentina, è in libreria. Per presentarvi il suo autore, Antonio Di Benedetto, pubblichiamo oggi la prima parte di una bella intervista di Jorge Halperín, uscita su Clarín nel 1985.
Intervista di Jorge Halperín / 1
traduzione di Cecilia Raneri
JH: Vladimir Nabokov paragonò il lavoro dello scrittore a quello della Natura. Disse che la Natura possiede un meraviglioso sistema di inganni e sortilegi e che lo scrittore lo riproduce e si comporta come un grande imbroglione. Lei si sente un imbroglione?
ADB: Nella misura in cui in alcuni racconti ho esercitato lʼastuzia, può essere. È chiaro che quando ci sono cose fasulle, ma tali da essere accettate come verosimili, il lavoro dello scrittore ha molto di quello dellʼimbroglione, naturalmente senza una connotazione morale repressiva. Credo che Borges abbia trovato la formula: dice che lʼautore scrive delle cose in cui non crede per far sì che ci creda il lettore. Il genere fantastico è così.
JH: Lei costruisce la letteratura fantastica con personaggi in carne e ossa. Perché?
ADB: È una fuga dalla realtà. La realtà mi maltratta sempre, mi ha dato una vita piuttosto dura, tormentata. Non si può convocare lʼirrealtà perché governi la nostra vita quotidiana, ma la si può cercare come consolazione attraverso i sogni. E lʼaltro modo per raggiungere lʼirrealtà è attraverso la letteratura fantastica. Quindi non ci resta solo il conforto della notte per sognare: si può entrare nel racconto, entrarci fino a soffocare, ma non si muore.
JH: Quali sono le regole del sogno?
ADB: Non ci sono regole, solo caratteristiche. I tratti distintivi del sogno sono lʼincoerenza, il precipitare degli eventi, a volte senza direzione, i finali bruschi che ti lasciano con il sogno in sospeso e una spada sopra la testa. A volte, sono tetri presagi di una visione soprannaturale.
JH: Il suo ultimo romanzo, Sombras, nada más, è costruito a partire dai sogni.
ADB: Ho cercato di dargli una parziale forma romanzesca. Il filo conduttore è unʼunione di sogni per i quali mi sono esercitato scrivendo un paio di racconti, alla ricerca di ciò che chiamo sogno indotto.
JH: Che cosʼè?
ADB: Credo che si possa arrivare a sognare ciò che si desidera sfruttando una necessità spirituale molto grande di evadere verso quel sogno o di rincontrare in esso una persona.
JH: È unʼesperienza reale?
ADB: A volte ho davvero avuto lʼimpressione di essermi autoindotto a sognare e di essere riuscito a fare determinate cose o a provocare lʼapparizione di determinate cose in sogno. In un racconto che ho portato con me dalla Spagna descrivo il bisogno di rincontrare la mia defunta madre e come il paesaggio o la quantità di persone che lei frequentava o le sue visite al mio appartamento di calle Fundadores si trasformassero. Scrivevo di getto, come nel periodo in cui ho vissuto in un bosco del New Hampshire, negli Stati Uniti. Ho sognato anche mio padre, che scappava dalla tomba e, come aveva fatto in vita, si dedicava a inseguire donne e a infrangere le regole. E io dovevo legarlo con una corda alla tomba in modo che potesse spostarsi, ma non troppo, e potessi così educarlo, istruirlo.
JH: Anche nella veglia, nella vita non sognata, sente di avere il compito di insegnare e istruire?
ADB: Lʼunica partecipazione che ho avuto in politica è stata molto breve, nel Partito Socialista di Alfredo Palacios, e ho pensato che tanti millenni di fregature e miseria avrebbero potuto cambiare se fosse nata una forte coscienza morale. Lʼho sostenuto anche da professore.
JH: Pensa di avere una missione?
ADB: Parlare di missione sarebbe troppo. La chiamerei preoccupazione etica che, credo, è presente in tutti i miei libri.
JH: Mi viene in mente un aneddoto menzionato in un servizio che hanno fatto su di lei: diceva che nel suo ufficio di direttore del quotidiano Los Andes aveva una bottiglia di alcol per lavarsi le mani dopo aver salutato chi veniva a farle visita.
ADB: È che le mani sono una parte speciale dellʼessere umano, ma ciò che uno tocca e fa con le mani non sempre è bello. I crimini che si commettono con le mani, ciò che si sporca usandole. E… anche se non lo fai con le mani, la tua pelle si contamina al punto che le mani ne sono la rappresentazione più netta. È con le mani che si ricevono le persone, attraverso lo sguardo e le mani.
JH: È una visione molto particolare.
ADB: Ci faccia caso: quando incontriamo qualcuno per strada, ne indoviniamo i piani solo osservando dove posa lo sguardo: se è arrogante o limpido, o che grado di condensazione dʼamarezza o quali sedimenti di tristezza porta con sé. Lo sguardo indica tutto questo. E poi, la mano non è che la conferma di tutti gli aspetti negativi, poiché in genere è un pugno aperto.
JH: È come osservare lʼuomo in posizione ostile.
ADB: Normalmente lʼuomo si pianta le unghie nella carne per non piantarle nella carne degli altri, non perché non voglia ma perché si trattiene. Invece di strozzare lʼaltro a mani aperte, serra i pugni emotivamente, simbolicamente.
JH: Lʼuomo ha lʼindole di usare le mani per fare del male?
ADB: Le mani sono la sintesi di tutta la forza corporale. Usa anche i piedi, soprattutto quando è fuori controllo. Quando può, salva le apparenze e usa le parole o le mani. Ma quando è fuori controllo, si trasforma in un animale con quattro zampe e inizia a scalciare.
JH: Ammette lʼambiguità: lʼaggressione, ma anche la ricerca del contatto con lʼaltro attraverso le mani. Per quale motivo si lavava le mani con lʼalcol? Per togliersi tutto ciò che dellʼaltra persona era rimasto depositato su di lei?
ADB: In un certo senso sì. Però credo di aver usato l’alcol solo quando avevo un giudizio severo sulla mano che avevo ricevuto, sulla persona, che mi sembrava repellente negli aspetti morali. Non si dimentichi che lʼufficio del direttore di un quotidiano suole essere un deposito di accuse, cattiverie e tormenti, e se ti contaminano, è probabile che si senta nelle mani. Inoltre, cʼera una ragione pratica: il bagno era su un altro piano e non avevo tempo di lavarmi con lʼacqua.
JH: Sembra una cerimonia religiosa di purificazione dal male.
ADB: Io ho unʼorigine fortemente religiosa. Principalmente per via di mio padre, e anche per mio zio che era sacerdote. Sono sempre stato cristiano e sono stato la vittima di cristiani che non lo sono davvero.
JH: Ha sempre cercato la solitudine, ma le è toccato vivere anche una reclusione involontaria.
ADB: Però pensi che la prigionia di un anno e mezzo che ho subito tra il 1976 e il 1977 è stata una delle reclusioni più trafficate che abbia vissuto. Di notte ero tormentato dai sogni – in realtà dagli incubi perché lì non era possibile sognare serenamente. E di giorno, le ispezioni militari, gli abusi e la violenza erano i miei visitatori. Per esempio, la tristissima notizia che un compagno di cella si era suicidato impiccandosi con un asciugamano nella camera di isolamento. Era quindi una solitudine fin troppo animata.
JH: Quella solitudine non voluta ha cambiato il suo carattere?
ADB: Direi di sì. Per certi versi sono diventato più abile a captare le cose negative e i momenti drammatici. E, dʼaltra parte, il risarcimento di quellʼesperienza è stato essere capace di godere a volte dellʼallegria. Sono un infaticabile lettore di barzellette.
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