di Juan Villoro
Pubblichiamo un altro testo dello scrittore messicano Juan Villoro che costituisce
la prosecuzione ideale di un discorso già iniziato con “Iguane e dinosauri. L’America latina come utopia del ritardo”, che abbiamo proposto il 13 giugno. Ringraziamo Stefano Tedeschi per la segnalazione e la traduzione, e la rivista Artifara, dove è stato pubblicato originariamente.
Quello che vidi era più reale della realtà, più indefinito e più puro.
Ricardo Piglia
In una pianura che un tempo appartenne al Messico, Walt Disney ha costruito la sua personale sintesi del mondo, una cittadella di plastica con abitanti mascherati da topolini di feltro. A Disneyland tutto appare onestamente artificiale. Senza rispettare altra logica che quella del capriccio, il luogo offre la sua versione dei canali di Venezia, della conquista del West e delle epopee future dello spazio esterno. Lì la realtà va in vacanza: la Torre Eiffel è di marzapane e i coccodrilli sbadigliano con motori elettrici.
I parchi tematici esplorano le possibilità fantastiche di un paesaggio conosciuto. L’America Latina viene di solito osservata dall’Europa e dagli Stati Uniti come un’affascinante riserva per la sua arretratezza, per quello che conserva di un mondo primordiale, convulso, sperimentale, un laboratorio dello smisurato. Laggiù lo strano può essere descritto come pittoresco e in apparenza resiste alle spiegazioni razionali. Le forme di rappresentazione di quel paesaggio appaiono più autentiche se sono determinate dalla magia o dall’intuizione, da procedimenti quasi rituali in cui l’artista opera come un temerario sciamano. A dire la verità, anche per noi latinoamericani è difficile capire, o anche solo descrivere, i diversi mondi che chiamiamo America Latina.
Se si unissero gli sforzi dell’architetto Frank Gehry, le maestranze di Disney World e un gruppo di antropologi, si potrebbe costruire un parco tematico che riassumesse gli stereotipi “latinoamericani”, con il sicuro effetto che la realtà rimerebbe fuori, un orizzonte ripiegato, di un’indefinita purezza.
Un insetto lascivo
Le maniere di nominare e classificare ciò che è latinoamericano assomigliano a un caleidoscopio in cui i cristalli rotti cambiano di colore come i camaleonti osservati. L’incrocio degli sguardi va dallo sfuocato all’allucinante. E’ logico che sia così. Non ci sono sguardi puri o realtà vergini.
Per il resto, la ribellione contro le interpretazioni folkloristiche inizia a generare altre mode. Di fronte alle insistenti rivendicazioni in nome del multiculturalismo rischiamo di soccombere ad un’ideologia della differenza, in cui l’alterità si assimili senza alcun giudizio di valore e l’infamante burka delle donne afgane acquisti il prestigio di “vestito tipico”. Il mettere in dubbio i discorsi coloniali evita il paternalismo e la spiegazione esterna ai fatti stessi, ma può anche paralizzare il giudizio di fronte ai costumi altrui. Come esaminare l’altro senza applicare criteri fatalmente esogeni e senza cadere in un’indiscriminata accettazione dello sconosciuto, o addirittura dell’aberrante, come di qualcosa semplicemente “diverso”. L’analisi dell’altrui si è spostato negli ultimi trent’anni da un giudizio “eccessivo” ad una possibile “eccessiva” comprensione. In questi territori senza limiti precisi i furbi pretendono, come certi personaggi di Fontanarrosa, trafficare con le frontiere.
Due esperienze simultanee e apparentemente contraddittorie determinano il nostro tempo: la spinta dominante della globalizzazione e il ritorno ossessivo alla tradizione. Giorni di mercati virtuali e di falò accesi alle divinità primordiali. Le dicotomie di “civiltà e barbarie” o “dominazione e subordinazione” escono di nuovo dagli archivi. Risulta difficile disegnare una mappa di questa realtà che si muove a diverse velocità e meriterebbe piuttosto un ologramma. La nuova dominazione coloniale non risponde ad una bandiera riconosciuta, ma a consorzi e tecnologie multinazionali; nel frattempo le rivendicazioni localiste cercano punti di riferimento sempre più ristretti. L’impero di McDonald coesiste con etnie che purificano le loro mitologie. In tale contesto bisogna rivedere l’idea che l’occidente ha avuto del selvaggio americano e i discorsi postcoloniali che lo hanno trasformato nel buon selvaggio, portatore di un’indiscutibile differenza.
L’attivo safari alla ricerca dell’essenziale latinoamericano ha troppe volte ucciso l’animale sbagliato. In El salvaje en el espejo e in El salvaje artificial, Roger Bartra ha indagato la forma con cui l’occidente ha costruito il mito del barbaro e il significato che il Nuovo Mondo ha fornito a questo lavoro. Per mezzo di racconti, pitture, poemi e arazzi l’Europa ha creato un animale lascivo, giustamente coperto di peli, che accettava consigli solo dai suoi impulsi primari e permetteva esaltare la sensata superiorità dell’abitante della città feudale. “Il cosiddetto processo di civilizzazione”, scrive Bartra in El salvaje en el espejo, “non è, nei fatti storici, la transizione da un comportamento selvaggio verso un’altro civile. L’idea stessa del contrasto tra uno stato naturale selvaggio e una configurazione culturale civile è parte di un insieme di miti che serve da sostegno all’identità dell’occidente civilizzato.”. Il cavaliere andante consolida la sua fama quando libera la principessa dal cavernicolo che l’aveva legata ad un cipresso.
Dato che la realtà è però meno abitata da vandali di quello che potrebbe pensarsi, molti barbari esemplari sono stati frutto dell’immaginazione artistica. Gli uomini della selva, con bastoni e tutto, raramente sono esistiti fuori dai libri. Con lo sbarco in America, gli europei non avevano più bisogno di personaggi leggendari per misurare le proprie qualità. Gli indigeni servivano a questo scopo: “Si potrebbe affermare che mentre l’Europa colonizzava i selvaggi americani, a loro volta costoro colonizzarono il mito europeo del selvaggio e contribuirono alla sua trasformazione […] Il mito del selvaggio trovò uno spazio al centro stesso delle nuove forme del pensiero umanista, per le quali era indispensabile una certa forma di plasmare l’alterità”, commenta Bartra. Dai codici trovati nel sedicesimo secolo agli ipertesti del ventunesimo, l’America Latina ha mandato messaggi che, in un modo o nell’altro, sono stati letti come tesori di una realtà debordante che mantiene intatta la propria spontaneità, un’arcadia del sesto giorno, in cui Dio è stanco ma non ha ancora concluso il suo lavoro.
Le forme di rappresentazione di questo paesaggio sono state commentate come testimonianze di un’ispirazione esaltata. Se la realtà è fortunosamente inspiegabile, i suoi testimoni possono solo catturarla grazie alla magia. Le piogge e le genealogie senza fine di García Márquez, i dilatati lamenti sulla chitarra elettrica di Carlos Santana o il sangue che decora i quadri di Frida Kahlo sono stati “spiegati” più di una volta a partire dalle società e dai costumi che apparentemente li definiscono. In modo ancora più significativo, sono visiti di solito come il risultato naturale di una realtà smisurata: opere che dipendono più dal loro convulso contesto che dalle sfide tecniche a cui questi autori sono chiamati. Questa visione non è esclusiva dello sguardo straniero: l’essenzialismo si trasforma anche in una strategia difensiva delle culture timorose del contatto con gli altri. Ricordo una conferenza alla quale ho assistito, nel 1973 o 1974, in cui Salvador Elizondo scandalizzò lo scarso pubblico del Museo di San Carlos con il dire che la sua scrittura aveva più relazione con Ezra Pound e James Joyce che con la cultura maya.
Come nel caso del tequila o del cognac, si cerca nella nostra arte una “denominazione di origine” tanto significativa che s’impone anche al suo creatore, costretto ad essere solo una specie di medium, una creatura ipersensibile che entra in contatto con la sua realtà attraverso dei mezzi che sfuggono al disegno razionale. Nulla di più riduttivo che il falso zelo di “ampliare” il significato di uno scrittore considerandolo “rappresentativo”, “tipico” di un territorio, ignorando, come ha suggerito Piglia, che le tradizioni non dipendono dallo spazio, ma dal tempo e di conseguenza accolgono stimoli di luoghi diversi. In Messico, l’opera di Juan Rulfo è stata letta come un trionfo della terra, un testo che deve più alla sua ricchezza localistica che all’originalità inventiva dell’autore. In Argentina, al contrario, si sono dimenticate, come spiega Beatriz Sarlo, le profonde radici locali del cosmopolita Jorge Luis Borges. Il problema non riguarda il passaporto dell’interprete ma la lettura che porta avanti. Quello che è certo è che molte opere dell’immaginario latinoamericano sono state viste come specchi quasi meccanici di una realtà stravagante: quello che riflettono è tanto potente e suggestivo che decide per loro. Forse la terza tappa dell’impresa di Bartra dovrebbe occuparsi di questi misreadings con il titolo di El salvaje ilustrado.
Lo splendore multiculturale inizia a prendere il posto dei critici avidi di colore locale. L’autoctono s’indebolisce di fronte all’ibrido, cosa che fa presupporre che i nuovi studiosi previlegieranno le bestie miste.
Con la preoccupazione di recuperare culture dimenticate, alcuni discorsi postcoloniali ebbero un peculiare effetto secondario: la creazione di un folklore purista, che rifiutava le combinazioni come immagini spurie. Nelle università nordamericane abbondano i corsi in cui i romanzi servono solo come mezzi per capire il caudillismo, il maschilismo ed altre “essenze” latinoamericane. Il giusto impegno di riparare alle discriminazioni sofferte dalle culture locali è sfociato così in un esotismo di secondo grado, in cui un romanzo vale per la maniera in cui s’identifica con le tradizioni che deve rappresentare. In questa operazione intellettuale, l’inventiva è un attributo dell’alterità.
Sembra però che nel futuro immediato i rischi vengano da un’altra direzione. Dalla rivendicazione localista ai sincretismi mutanti, dal boom al boomerang: la crisi delle identità annuncia che sarà previlegiato il meticciato dei significati, compito senza dubbio utile ma che al diventare dominante dimenticherà gli asini di sempre per concentrarsi solo sugli asini postmoderni, dipinti come zebre a Tijuana per le foto dei turisti.
Il secolo ventunesimo è iniziato con la moda di mettere in crisi la nozione di identità. Il tema permette di saltare da un paradosso all’altro. In Mito, identidad y rito Mariángela Rodríguez studia la maniera in cui la nozione di appartenenza viaggia dal Messico agli Stati Uniti. Per i chicanos l’“autentico” si situa in una tappa anteriore al presente corrotto dalla cultura criolla. Il Messico contemporaneo non gli offre un’scelta sufficientemente forte per contrastare la cultura di massa degli Stati Uniti. Stando così le cose, i chicanos cercano di “reindianizzarsi”, di stabilire un contatto con il passato che il Messico ha sottomesso e in un certo modo ha cancellato. Essere “messicano” a Los Angeles ha a che vedere con Quetzalcóatl. Curiosamente invece essere “messicano” in Messico ha a che vedere con Pepsicóatl, questa divinità sincretica di cui parla Carlos Fuentes nel suo libro Tiempo mexicano. La parola “identità” ormai solo denota una maschera, una mescolanza, un gesto, un procedere transitorio. Per definire queste trasfigurazioni, Guillermo Gómez-Peña, autore messicano di performances stabilitosi negli Stati Uniti, afferma: “Mi sto demessicanizando per messicomprendermi.”.
In Culture Ibride Néstor García Canclini esplora la difficile frontiera da cui si separano le nuove forme culturali. Come afferma l’antropologo, l’ibrido si differenzia dal sincretico, dal criollo, dal meticcio perché non si tratta di un fatto concluso e codificato, ma di un processo, di una fusione in corso, con risultati ancora imprevedibili. Le culture ibride non si sono sedimentate in una tradizione: sono le sue zone di cambiamento.
L’accettazione delle contaminazioni culturali promette discorsi inconcepibili ai tempi dell’avidità per il folclore e per il realismo magico e non sarebbe strano passare alla nuova moda dell’ibridazione, in cui il “rappresentativo” e il “genuino” cederebbero il posto al contaminato e dove il re della foresta sarebbe l’ornitorinco. In El Mexterminator, Gómez-Peña ha descritto brillantemente questi nuovi stereotipi culturali: “Nell’immaginario popolare messicano, gli Stati Uniti hanno cambiato di sesso. Il vecchio gringo imperialista degli anni sessanta, mezzo corporate man mezzo mercenario, è svanito con la fine della guerra fredda. Negli anni novanta, gringolandia ormai è donna: la Clepto-Mexican Gringa è una ninfomane culturale che incarna sia il desiderio di tanti messicani come i propri. Odia il suo paese e adotta come mascotte paesi terzomondiali: arriva in Messico (da sola e sempre al bordo di un nervous breakdown) e in meno di una settimana sperimenta una totale trasformazione di identità. Diventa iper-Mexican ipso facto. Passeggia con huaraches e scialle, usa il “sombrerou”, she loves mariachis and tequila, e seduce meticci focosi a destra e a manca. Le sue molteplici personalità cambiano con le circostanze. Oggi è curatrice di arte moderna; domani sarà giornalista saltaostacoli, poi antropologa, attrice, professoressa di inglese o conchera. La sua forza risiede nell’erotismo primigenio installato nell’alterità razziale. I messicani, sempre servili nei confronti dell’alterità culturale e amanti dell’estraneo, gli apriamo le porte delle nostre case, dei nostri letti e dei nostri sentimenti.”. La mescolanza del locale e del globale porta anche al turismo transculturale descritto da Gómez-Peña.
In una frangia estranea a questi estremi prospera l’arte più singolare dell’America Latina, che stabilisce vasi comunicanti con tradizioni locali da una prospettiva obliqua, esiliata dalla realtà cui appartiene.
Ogni letteratura, come osservò Musil, dipende dalla sua condizione di extraterritorialità. L’essere straniero è la normale condizione del narratore. Nella sua ampia saga migratoria, I detectives selvaggi, Roberto Bolaño raccoglie voci che cercano un introvabile centro di gravità. La prima parte porta il sottotitolo di “Messicani perduti in Messico”. La frase cattura in modo indelebile l’irreale e genuino senso di appartenenza del transfuga contemporaneo. La patria è un luogo di smarrimenti, un orizzonte sfuggente, sempre straniero, che porta con sé solo una promessa: domani sarà diverso.
Da: Itinerarios extraterritoriales, in Juan Villoro, De eso no se trata, Barcelona, Anagrama, 2008.
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