Darryl Pinckney

Casa è dove c’è qualcuno che non ti farebbe mai del male: intervista a Darryl Pinckney

Deesha Philyaw BIGSUR, Interviste, Scrittura

Pubblichiamo un’intervista con lo scrittore afroamericano Darryl Pinckney, autore dei romanzi High Cotton e Black Deutschland. L’intervista è apparsa originariamente su The Rumpus; ringraziamo l’autrice e la testata.

di Deesha Philyaw
traduzione di Daniela De Lorenzo

Dopo aver letto solo poche pagine dell’ultimo romanzo di Darryl Pinckney, Black Deutschland, l’ho aggiunto all’elenco degli scrittori brillanti con cui fare una chiacchierata prima di morire. Durante la mia adolescenza c’era James Baldwin in cima alla lista, salvo poi però cadere nel 1989, quando ho saputo, tardivamente, che era passato a miglior vita già da due anni. Proprio come Baldwin, Pinckney è il genere di autore le cui opere ti fanno sentire che, come scrittore, puoi e devi creare dei personaggi imperfetti con storie che riflettano la verità per come l’hai vista, vissuta e subita.

In Black Deutschland, le imperfezioni del protagonista vengono ampiamente documentate. All’inizio del romanzo, Jed Goodfinch è un afroamericano sulla ventina, appena uscito dalla riabilitazione, che negli anni Ottanta si trasferisce da Chicago a Berlino, in cerca di amore tra i «ragazzi bianchi che volevano espiare i crimini della Germania amando un ragazzo nero come me». Il muro non è ancora crollato e l’AIDS è un pericolo crescente. Ma Jed è pazzo per la Città Grigia, una passione alimentata dai romanzi berlinesi di Christopher Isherwood [Addio a Berlino e Mr Norris se ne va], ambientati negli anni decadenti della Germania poco prima del nazismo.

Pinckney, che è anche drammaturgo, saggista e storico collaboratore della New York Review of Books, è autore di cinque libri e tre pièce teatrali (scritte insieme al regista di teatro sperimentale Robert Wilson). Ecco di seguito la conversazione che desideravo avere con lui, in cui mi racconta della lunga storia dei neri che si rifugiano all’estero, delle sorti del romanzo nero di protesta, e di quello che intende per «casa».

The Rumpus: Black Deutschland pullula di tematiche storiche, culturali, sociali, politiche e sessuali, eppure lei ha detto che se dovesse spiegarlo, ne parlerebbe come di un libro su Berlino. Si tratta dunque di un libro poliedrico, come i romanzi di James Baldwin, che si presta a molteplici letture a seconda del lettore?

Darryl Pinckney: Desideri sempre che i lettori scoprano cose diverse nelle tue opere, forse persino cose che non eri consapevole di averci messo, ma quello che ha reso Black Deutschland un libro così piacevole da scrivere è il fatto che sia nato principalmente dal mio amore per Berlino, dalla nostalgia per quella Berlino che ho conosciuto solo brevemente. Le storie berlinesi di Isherwood mi hanno trasmesso un’idea della città che non mi ha più abbandonato: un luogo di liberazione personale. La Berlino di Isherwood era anche quella di Hitler, ha detto una volta Jane Kramer, e questo tipo di contraddizione percorre la storia della città. Chiunque sia stato a Berlino Ovest ai tempi del muro si rendeva conto di trovarsi in un posto speciale, artificiale, una strana zona di libertà circondata da illibertà.

Erano in tanti, negli anni Ottanta, a pensare che la separazione della Germania sarebbe stata permanente. Chi se lo immaginava che l’Unione Sovietica fosse agli sgoccioli? E così, Berlino era anche un posto innocente e fuori dal mondo, un posto per stranieri, per forestieri, un posto con cui molti non volevano perdere troppo tempo. Eppure la scena cinematografica, teatrale, musicale e letteraria era vivissima. Ho cercato di evocare l’idea di com’era questa frontiera della Guerra Fredda all’epoca.

Rumpus: Come ben sa, esiste una lunga storia – anche letteraria – di afroamericani che cercano all’estero una tregua o una via di fuga dal razzismo. Lei ha scritto due romanzi che hanno come personaggi degli espatriati neri in Europa, e vive tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. In Black Deutschland, Jed si definisce romanticamente come «il negro d’Europa». Ma per lui, per il cugino Cello e anche per altri, la vita da espatriati non è esattamente una panacea razziale. Quali sono, a suo avviso, le caratteristiche del razzismo europeo? Qual è l’attrattiva dell’Europa che nonostante tutto persiste agli occhi degli afroamericani?

Pinckney: Le persone che provengono dall’Europa e quelle che provengono dall’Africa si sono incrociate molto tempo prima che venissero inventati i concetti di «Europa» e «Africa», di «bianchi» e «neri». Ma passiamo direttamente alla storia di queste nozioni nel diciannovesimo secolo. Abbiamo gli scritti di viaggio di Nancy Prince, che assistette alla terribile alluvione di San Pietroburgo del 1824. (Era anche l’epoca di Puškin e Puškin si vantava di avere un bisnonno nero. I suoi nemici si aspettavano di vederlo a disagio o imbarazzato a tal proposito, ma Pushkin aveva origini aristocratiche e il suo antenato nero era noto per essere stato il beniamino di Pietro il Grande. La prima opera lunga in prosa con cui Puškin si cimentò fu un romanzo incompiuto sulla sua vita.) Quando nel 1850 fu approvato il Fugitive Slave Act negli Stati Uniti, un provvedimento in base al quale i bianchi che aiutavano i neri a sfuggire alla schiavitù diventavano a loro volta passibili di pena, alcuni illustri abolizionisti neri come Frederick Douglass e William Wells Brown si rifugiarono in Inghilterra per brevi periodi. Brown lasciò nei suoi scritti di viaggio una descrizione della misera impressione che gli fece Thomas Carlyle quando lo vide sull’omnibus a Londra, un modo per vendicarsi del suo odioso saggio «Sulla questione negra».

Dopo la guerra civile, dopo il fallimento della Ricostruzione, gli afroamericani che riuscivano a raggiungere l’Europa la consideravano un’isola felice. Intorno al 1880, lo studio legale di Charles Chesnutt a Cleveland, nell’Ohio, gli offrì di sistemarlo in Europa, dove avrebbe potuto vivere libero dalle discriminazioni che si stavano formalizzando nella legge americana. Ma Chesnutt volle restare negli Stati Uniti e farsi un nome come romanziere.

Andare in Europa era una soluzione individuale a un problema di massa, come il passare per bianchi. E prescindeva dalle classi sociali. C’erano anche marinai neri, membri del proletariato internazionale come qualcuno li definiva, che restavano in Europa, accanto a neri istruiti. Tuttavia noi pensiamo agli afroamericani in Europa come a un fenomeno del ventesimo secolo, che ha iniziato a prendere forma dopo la fine della prima guerra mondiale e l’inizio dell’Età del Jazz. I musicisti neri, in particolar modo, decidevano di restare in Francia anziché tornare in un paese che stava linciando i veterani neri che rifiutavano di tornare al proprio posto. A Parigi, i neri cercavano la stessa cosa che cercavano anche i ricchi e gli artisti bianchi: la liberazione personale, la perdizione. I visitatori neri che avevano assistito al Rinascimento di Harlem non erano insensibili al paradosso che li vedeva divertirsi in quelle che erano le capitali degli imperi coloniali, i centri metropolitani dai quali erano nate le politiche che avevano oppresso le persone di colore. L’ascesa del fascismo in Europa ha rispedito molti americani a casa. Alcuni afroamericani comunisti che erano emigrati nell’Unione Sovietica morirono nelle grandi purghe staliniane sul finire degli anni Trenta.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli americani iniziarono a tornare in Europa, afroamericani compresi. Richard Wright trasferì la sua famiglia interrazziale e la sua Oldsmobile a Parigi, per proteggere le figlie dal sistema razziale americano. Sapeva – come anche Baldwin e altri scrittori e artisti neri che raggiunsero l’Europa – che i francesi erano razzisti, ma in quanto americani venivano esentati da quel razzismo, li trattavano diversamente da come trattavano le persone provenienti dalle colonie, o francesi d’oltremare secondo la fantasia politica dell’impero. Baldwin, in particolare, decise che era impossibile andare «altrove», citando D.H. Lawrence. Passò la vita a cercare di districarsi tra la voglia di essere presente, di prendere parte alla rivoluzione dei diritti civili, e il desiderio di pace psichica e fisica, di un po’ di spazio per riflettere. Per certi versi, Istanbul era un nascondiglio anche più sicuro di Parigi.

Gli scrittori e gli artisti afroamericani continuano anche oggi ad andare in Europa, integrandosi nell’ambiente locale, e i termini del rapporto con il Continente non sono cambiati dai tempi di Langston Hughes e Paul Robeson. Tuttavia, si sentono molto meno in colpa per il fatto di riuscire a prendersi una pausa dagli Stati Uniti, e non c’è il dibattito degli anni Sessanta e Settanta sull’eurocentrismo, sul fatto di rendersi partecipi alla cultura di società che per centinaia di anni hanno derubato e ucciso milioni di persone. Ora per di più c’è questa cosa che gli europei si stanno rendendo conto che l’Europa non è più un continente per soli bianchi. Le persone di colore non costituiscono più una minoranza a cui fare concessioni di facciata.

Rumpus: A un certo punto, mentre è di ritorno a Chicago, Jed inizia a provare nostalgia per Berlino. A Berlino incontra per caso Susan Sontag, che gli dice che la «casa» di una persona è dove si trovano i suoi libri. In seguito, ricorda che gli ha detto anche «casa tua è quel posto dove c’è qualcuno che non ti farebbe mai del male». Qual è invece il suo concetto di «casa»?

Pinckney: Quando vivevo a Berlino, Susan Sontag veniva spesso lì a scrivere, per lunghi periodi. Ci incontravamo la sera al The Paris Bar e ci scambiavamo qualche pagina. Era meraviglioso uscire con lei. Possedeva un’energia eccezionale e non si lasciava scappare un solo concerto, o film, o spettacolo teatrale. Fu lei a presentarmi il mio compagno, James Fenton. Eravamo al The Paris Bar e mi stava parlando di lui, quando d’un tratto disse: «Toh guarda, eccolo qui».

Mi disse davvero che la casa è quel posto in cui c’è qualcuno che non ti farebbe mai del male. La misi nel mio romanzo, un piccolo cameo per preparare la strada alla battuta finale del libro. Casa mia per me è ovunque ci sia amore. Tutto il resto non conta. Vivevo nel Mondo di James, affermai allora. Per la maggior parte degli anni in cui ho vissuto all’estero, ho sentito di avere due case: quella in cui vivevo con James e quella da cui venivo. I miei genitori erano molto presenti nella mia vita, i miei genitori e le mie sorelle, a Indianapolis. Andavo a trovarli tutti i Natali.

Rumpus: In Black Deutschland, Jed dice: «Volevo vivere dove le autorità si interessavano poco ai neri», spiegando, in parte, il suo trasferimento a Berlino. Questa battuta mi ha fatto subito pensare agli Stati Uniti, dove ovviamente è vero l’opposto per quanto riguarda i neri e le autorità. Pensa che movimenti come #BlackLivesMatter daranno vita a una nuova era di romanzi di protesta? Per quale motivo, secondo lei, abbiamo visto così pochi romanzi neri di protesta dai tempi di, per esempio, Uomo invisibile e Paura?

Pinckney: Black Lives Matter si sta già esprimendo nella musica popolare, nel cinema e nella saggistica. E troverà naturalmente espressione anche nella narrativa. Potremmo sostenere che forse le satire di Percival Everett e di Paul Beatty sono scritti di protesta almeno quanto il realismo di Wright. Magari allargheremo i confini della nostra definizione di opera di protesta. D’altro canto un ampliamento c’è già stato, nella narrativa degli scrittori provenienti da altri luoghi, quelli forgiati dal colonialismo, una storia che non si collega a sufficienza con la violenza della politica in atto in certe zone – come Africa e Medioriente. Quand’è che abbiamo smesso di leggere Fanon?

Rumpus: Black Deutschland ha alcuni temi in comune con il suo primo romanzo, High Cotton, che è semiautobiografico. Le interessa scrivere prima o poi un’autentica autobiografia oppure i romanzi sono quanto di più vicino a un’autobiografia potremo leggere?

Pinckney: Sto cercando di scrivere un libro di memorie sull’amicizia tra Elizabeth Hardwick e Barbara Epstein, due delle fondatrici della New York Review of Book. Abitavano a due passi l’una dall’altra, sulla Sessantasettesima Strada Ovest. I loro appartamenti si assomigliavano anche molto. Se sono riuscito a diventare uno scrittore è stato in buona parte grazie ai miei genitori e a queste due donne estremamente brillanti. Ho ascoltato e visto così tante cose da loro. Ho conosciuto persone interessantissime alle cene da loro. La prima volta che ho incontrato Susan Sontag è stato quando è venuta a casa di Elizabeth Hardwick per vedere un concerto dei Rolling Stones. C’era anche Barbara. I miei genitori le adoravano; e anche a loro piacevano i miei. Sono ancora molto legato ai loro figli, sebbene non li veda più così spesso come una volta. La storia si svolgerà principalmente negli anni Settanta. Sono davvero fortunato ad aver conosciuto New York in quegli anni.

Rumpus: «I danni psicologici sono la sola eredità possibile nelle famiglie nere». È stato lei a dichiararlo nel 1977, nel primissimo saggio per la New York Review of Books, una recensione del libro di Stephen Birmingham sulle pratiche sociali borghesi degli afroamericani, Certain People: America’s Black Elite. Cosa l’ha portata a questa conclusione sulle famiglie nere? Oggi la pensa allo stesso modo?

Pinckney: Quella era solo la frase d’effetto di un ventitreenne, nulla di più. Mi sorprende che Barbara [Epstein] e Bob Silvers, i due editor della rivista, allora non l’abbiano contestata. Ovviamente non è vero.

Rumpus: In quel saggio del 1977, descrive la vita dei neri come «complicata, frammentata, inquietante da osservare». Quali aspetti trovava – o trova – inquietanti da osservare? Come li ha affrontati nei suoi libri?

Pinckney: Quella parte lì è ancora vera – la storia dei neri è per me la storia americana. È un fatto personale, dato che sono in grado di ricollegare quello che succedeva nella mia famiglia a qualunque era sociale di cui abbia letto. I membri della mia famiglia scrivevano. Autobiografie, sermoni, poesie. Il padre di Sterling Brown [poeta e folclorista] e un mio bisnonno di parte materna erano fratelli. Come la razza influisca su di te e quanto questa lunga, lunghissima storia di stupidità e rancore ti rovini sono domande su cui uno può star lì a riflettere una vita intera. Ops. Aspetti. L’ho fatto. Ci ho riflettuto una vita. E sto ancora cercando una risposta convincente.

Rumpus: Entrambi i suoi romanzi satireggiano le famiglie nere di classe medio-alta (anche se in Black Deutschland sono molto meno borghesi). Black Deutschland è un continuo oscillare tra dolore straziante e ilarità. È stata un’astuzia del mestiere per compensare gli aspetti tormentosi della vita delle persone di colore oppure i risvolti da commedia sono nati spontaneamente?

Pickney: In realtà non penso che High Cotton e Black Deutschland abbiano un tono satirico. C’è chi ha descritto High Cotton come un libro che parla della borghesia nera, ma per me parla di un’altra tradizione nera, non necessariamente borghese. Mi riferisco all’istruzione dei neri. La famiglia di quel romanzo non è ricca, non segue il calendario mondano della borghesia. Ma sono persone istruite. Il nonno paterno di mio padre – che faceva il pastore ad Augusta, in Georgia, e aveva studiato al Morehouse College quando ancora si chiamava Seminario battista di Atlanta – e la sua futura moglie al Seminario battista femminile avevano delle conoscenze al Peabody Fund, una fondazione filantropica che si occupava dell’istruzione dei neri nel Sud. Questo accadeva prima della prima guerra mondiale, quando i linciaggi erano diffusissimi. Il mio bisnonno sfruttò le conoscenze che aveva nella fondazione per portare i figli fuori dal Sud. Uno andò all’università di Boston, un altro all’università di Chicago, mio nonno alla Brown, e un altro ancora al New England Conservatory. Il più giovane, per qualche motivo, non se ne andò. E nemmeno le figlie femmine: frequentarono i college del Sud, come Hampton. Nessuno si preoccupava della loro vulnerabilità in quanto donne nere che vivevano nel Sud. Diventarono insegnanti. E le ricordo che in America agli insegnanti non veniva riconosciuto un alto status sociale, né allora, né adesso. High Cottons voleva raccontare quel filo rosso, quella storia. Andarsene grazie all’istruzione.

Il narratore di Black Deutschland esamina la sua famiglia con un certo tono. È il tono di una persona sconfitta. Ma, di nuovo, la famiglia non è nel giro. Sono dei disadattati. Non fanno completamente parte o si integrano del tutto con l’alta borghesia nera di Hyde Park. Per come la vedo io, Jed discende da quei personaggi urbani fluttuanti e smarriti della letteratura russa del diciannovesimo secolo. Quegli impiegati loquaci che perdono la testa proprio sotto i nostri occhi.

Rumpus: Nei saggi e nei libri che ha scritto, ha contestato l’idea di un’unica tradizione narrativa nera. Che consiglio si sente di dare agli scrittori neri emergenti che sentono di dover creare personaggi nobili o storie che contribuiscano all’«elevazione della razza», o che altrimenti hanno l’impressione di essere costretti a una serie limitata di scelte narrative?

Pinckney: Abbiamo forse superato il bisogno di questo tipo di propaganda. I personaggi unidimensionali non sono di per sé interessantissimi. Se ti annoi tu, si annoieranno anche i lettori. Se fingi, non avrai il tipo di lettori che desideri. Ci sono già così tanti ostacoli nella scrittura, non aggiungiamone altri, non aumentiamo le inibizioni. Se scrivi è per onorare la letteratura che ti sta a cuore. Se i familiari o gli amici ti si mettono dietro le spalle per guardare quello che fai, cambia posto o mandali via. Chiedigli di fidarsi di te. Resta autentico; resta onesto con te stesso; abbi fede nel tuo progetto. Fa’ in modo che ci sia solo Melville alle tue spalle.

© Deesha Philyaw, 2016. Tutti i diritti riservati.

Deesha Philyaw è coautrice di Co-Parenting 101: Helping Your Kids Thrive in Two Households After Divorce, scritto in collaborazione con l’ex marito. Gli scritti di Deesha sulla razza, la cura dei figli, il gender e la cultura, sono apparsi sul New York Times, sul Washington Post, sul Pittsburgh Post-Gazette e su Brevity, e sulle riviste Stepmom, Essence e Bitch, oltre che in varie antologie. È un membro del Kimbilio Center for African American Fiction ed è stata di recente candidata al Pushcart Prize per i suoi saggi su Full Grown People. Deesha ha beneficiato per ben due volte della borsa di studio Advancing the Black Arts in Pittsburgh offerta dalla Pittsburgh Foundation e da Heinz Endowments.

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