Pubblichiamo oggi «Gli orfani», un racconto dello scrittore argentino Patricio Pron già comparso sul «manifesto» la scorsa estate, preceduto da una breve nota di Francesca Lazzarato, che lo ha anche tradotto e che ringraziamo insieme alla testata.
di Francesca Lazzarato
Chissà come mai qualcuno, ogni tanto, torna a dire che la letteratura argentina è morta, inchiodata a best seller commerciali, oppure persa nei labirinti di uno sperimentalismo esasperato che finisce per avvitarsi su se stesso, o – infine – avviata sui sentieri frequentatissimi della mediocrità globale. Di motivi per confutare (se non del tutto, almeno in buona parte) un’affermazione del genere ce ne sono tanti, e uno di questi è senza dubbio l’opera di Patricio Pron, nato a Rosario nel 1975, che oggi vive a Madrid dopo aver trascorso otto anni in Germania, dove si è laureato con una tesi su un genio quasi dimenticato come Raul Damonte (alias Copi). L’anno scorso la rivista «Granta» l’ha inserito nella lista dei ventidue migliori giovani autori di lingua spagnola, ma questo non significa granché, visto che nell’elenco figurano anche nomi appena passabili accanto ad altri più interessanti. Significa molto, invece, il fatto che Pron abbia scritto e pubblicato, tra il 1999 e il 2011, alcuni libri di racconti, due dei quali notevoli («El mundo sin las personas que lo afean y lo arruinan», Random House Mondadori 2010, è davvero bellissimo ) e cinque romanzi la cui lettura permette via via di misurare la sua straordinaria maturazione. Gli ultimi tre, ossia «Una puta mierda» (Random House Mondadori 2007), «El comienzo de la primavera» (Random House Mondadori 2008) e soprattutto «El espiritu de mis padres sigue subiendo en la lluvia» (Random House Mondadori 2011) fanno di lui uno dei migliori scrittori del momento, e non solo in lingua spagnola. L’ultimo, in particolare, ha indotto un critico sofisticato e severo come Felix de Azùa a profondersi in lodi sperticate ed è stato venduto in mezzo mondo (in Inghilterra lo pubblicherà Faber & Faber, qui da noi Guanda), il che permetterà finalmente ai lettori italiani di conoscere un autore finora mai tradotto e dal quale i giovani scrittori nostrani avrebbero moltissimo da imparare. «El espiritu de mis padres sigue subiendo en la lluvia» – romanzo in buona parte autobiografico ma assai lontano dalle attonite contemplazioni del proprio adolescenziale ombelico cui siamo ormai abituati – unisce infatti un uso sorprendente del linguaggio a una tecnica narrativa solida, originale e brillante, dispiegata per narrare attraverso l’ingannevole forma di un noir il rapporto tra generazioni, i mille segreti e silenzi che le dividono e la possibile trasmissione di un’eredità fatta di politica, etica, coraggio personale, ma anche paura, illusioni ed errori. Perché, come dice Pron, figlio di militanti di sinistra che lo hanno cresciuto nell’Argentina della dittatura, «dobbiamo ai nostri genitori il recupero dei loro valori. E loro ci devono una spiegazione».
Gli orfani
di Patricio Pron
traduzione di Francesca Lazzarato
Lobos, Azul, Chacabuco. Chi li osserva sulla carta geografica vede solo macchie, punti che non significano niente su superfici che possono essere marroni o bianche e sono identicamente inimmaginabili. Chi è capitato in uno di questi villaggi ricorderà forse la guglia di una chiesa stagliarsi contro il cielo azzurro, alcune case pigiate in una strada in salita o bambini che giocano con un pallone fatto di stracci. Chi ha visitato spesso quei paesetti, tuttavia, può magari ricordare tutto e niente allo stesso tempo, ricordare che in uno di essi è vissuta Maria Tolosa, Tolosa di cognome, di averla cercata senza trovarla e che i suoi molti figli la abbandonarono e se ne andarono parlando le proprie lingue, come fossero orfani, come santi o come folli – per tutta l’Argentina, come se a partorirli fosse stata una lingua morta.
Credo che Maria Tolosa sia nata in provincia di Buenos Aires, nell’antica campagna, a un certo punto del secolo XIX, forse tra il 1830 e il 1840. A Lobos diverse persone mi hanno detto che era nata lì, in una casa che venne abbandonata quando scoppiò un’epidemia, o forse durante la guerra. A Pergamino e a Los Cerros mi hanno detto la stessa cosa, ma indicandomi altre case e altri avvenimenti. A Tapalqué ho sentito la stessa storia e, senza dubitarne, ho creduto a tutte le versioni, quella di Tapalqué e le precedenti, perché da una parte pensavo che nessuno potesse sbagliarsi a tal punto, e dall’altra, che questa è una storia multipla e la sua sostanza, la sua ragione di essere, sono le varianti. È la storia di una persona perduta, ho pensato: le competono la distanza e la ripetizione, come all’eco di un suono che si diffonde nella pampa e dopo un istante non appartiene più a uno solo ma alla pianura, che se lo porta via e lo moltiplica. Questa storia è meno di un sussurro, è appena la sua eco, ho anche pensato. È la storia di Maria Tolosa e dei suoi figli.
Il primo che ebbe la sorprese e per un po’ le sembrò inesplicabile, perché allora tutto ciò che riguardava l’amore e le sue pene le risultava sconosciuto, qualcosa che poteva vagamente intuire ma che era dolce e luminoso come il sole in inverno, e come lui dava calore quando più ce n’era bisogno. Forse fu proprio in inverno che arrivarono al villaggio alcuni gauchos con il loro branco di cavalli, i loro abiti più vistosi e la promessa di altri paesi e altre città, che le ragazze bevevano dai loro occhi. Non volle che le levatrici la alleviassero del suo peso, o forse non ci riuscirono, ma alla fine, e questo è ciò che importa, Maria Tolosa partorì un bambino in una giornata spossante in cui per poco non morì dissanguata.
Il bambino crebbe e cominciò a parlare, nell’indifferenza della madre, in una variante gutturale del polacco che un linguista registrò molti anni dopo nei dintorni di Lodz. Maria Tolosa non si accorse della parlata eccentrica di suo figlio finché le vicine non gliela fecero notare, perché loro due comunicavano senza problemi. Nel suo sconcerto, Maria Tolosa credette che la stravaganza del figlio provenisse dal padre – anche se in realtà era un normalissimo contadino di un villaggio dei dintorni – o fosse dovuta alle circostanze particolari del suo concepimento, ma fu intimamente grata di poter capire quello che diceva il figlio, come se un simile dono compensasse in qualche modo ciò che al bambino era stato tolto, ossia una lingua che lo avvicinasse agli uomini e non ne facesse un estraneo tra i suoi vicini.
Maria Tolosa si ripromise, in segreto, di non cedere di nuovo al desiderio davanti agli stranieri, di negarsi a problemi amorosi che potessero ripercuotersi ampliati, come un castigo, sul suo primo figlio. Naturalmente fu una promessa vana, come lo sono di solito le promesse dei giovani e degli spiriti innocenti. Il figlio successivo parlò, crescendo, un catalano gutturale tipico della Seu d’Urgell, un catalano che sembrava estratto dalla roccia dei Pirenei. Il padre del bambino, un attaccabrighe che si era installato alcuni mesi prima nel villaggio, credette che il piccolo fosse il frutto di un’infedeltà e se ne andò senza farsi più vedere. Maria allora era incinta del terzo figlio e, anche se cercò di correggere per quanto possibile gli errori che poteva aver commesso nell’educazione dei precedenti, il piccolo, irrimediabilmente, crebbe parlando in un latino contaminato come quello che forse era in uso a Castulo o ad Astigi o a Hispalis, tanto tempo fa che gli anni, nel precipitare verso il presente, formano un gorgo.
Il latino di quella creatura, che sapeva di liturgia e strada romana e condanna, inquietò le donne del villaggio più delle altre lingue, così fecero venire un sacerdote da La Plata perché officiasse un esorcismo. Il prete, un uomo pallido che si proteggeva dal sole feroce con un cappello rosso e si riparava continuamente la bocca e il naso con un fazzoletto, versò fiotti di acqua benedetta sui figli sporchi e sdentati di Maria Tolosa, che si rannicchiavano timorosi in fondo alla miserabile casupola. A un certo punto della cerimonia, il terzo balbettò clemenza in latino e il prete lasciò perdere le imprecazioni e il bagno. Gironzolò per le poche strade del villaggio per quattro giorni – quando qualcuno lo vedeva guardava da un’altra parte, come se in questo modo non potessero riconoscerlo – ma al quinto sembrò aver trovato la soluzione e disse a tutti che quei bambini erano angeli inviati da Dio, i primi due per diffondere la sua parola tra le bestie – le uniche che potevano parlare lingue dal suono così orribile, disse – e il terzo per diventare Papa di Roma. Maria Tolosa ascoltò la spiegazione in silenzio e in silenzio maledisse i primi due figli, poi si protese a baciare la mano rognosa di quello che sarebbe diventato papa. Il bambino si tolse le dita dal naso e sorrise.
A partire da quel momento non fu insolito vedere i bambini che, scortati dal prete pallido col cappello rosso, gridavano alle vacche in polacco e in catalano. Gli animali li guardavano attoniti e poi tornavano a pascolare e fornicare, le loro attività quotidiane, senza capire una parola, ma il prete pareva orgoglioso di questa evangelizzazione delle bestie che sembrava riempire un vuoto nell’ortodossia, e fabbricava ostie per introdurgliele in bocca, tra l’allegria dei bambini.
Il sacerdote, tuttavia, finì per andarsene, disgustato dai costumi della famiglia e del paese, quando Maria Tolosa rivelò di essere incinta di un quarto figlio. Il bambino parlava in tedesco con un orribile accento di Weimar e col tempo si rivelò il più strano, perché, mentre gli altri, nonostante non parlassero la stessa lingua, potevano comunicare mediante un linguaggio di segni e sguardi, un linguaggio che era soltanto loro, il bambino che parlava tedesco si rifiutava di partecipare a qualsiasi gioco se le regole non gli venivano spiegate nella sua lingua. Il bambino che parlava polacco e quello che parlava catalano – quello che parlava latino era andato via col sacerdote, per diventare Papa a Roma – di solito lo prendevano in giro, ma mantenevano un silenzio rispettoso e spesso piangevano, quando il bambino che parlava tedesco cantava qualcosa.
In un certo senso, quei bambini erano un miracolo. Il quinto, concepito con un vicino che non volle dargli il suo cognome anche se al villaggio tutti sapevano della sua paternità, parlò una variante del persiano raccolta a Samarcanda poco prima dell’invasione mongola del 1220. Maria Tolosa, che non sapeva nulla sull’Iran e non aveva mai visto un persiano, cercò di sapere se il vicino aveva qualche parente di quella nazionalità, e accettò di entrare di nuovo nella sua casa, praticamente una capanna, per poter frugare tra la sua roba mentre l’uomo dormicchiava soddisfatto, in cerca di un oggetto che c’entrasse qualcosa con l’Iran, sia pure alla lontana. Non trovò nulla eccetto una borsa di datteri, ma da quella incursione nacque un sesto figlio.
Accadde quando il primo si diede alla macchia con certi gauchos che vivevano di contrabbando. Maria Tolosa lo aspettò inutilmente, e durante le ore morte della sesta gravidanza comprese che i suoi figli diventavano adulti prima degli altri ragazzi, e prima degli altri se ne andavano. Era come se l’isolamento nelle rispettive lingue li amareggiasse e li predisponesse precocemente ai casi della solitudine cui erano condannati.
Il sesto morì pochi giorni dopo la nascita, ma durante la veglia funebre Maria giurò che aveva aperto gli occhi e parlato, e che la sua lingua era il greco. Al centro della stanza illuminata da candele in cui avevano posto la piccola bara e il bambino, che sembrava addormentato, Maria ripetè davanti agli occhi annoiati dei partecipanti le presunte parole del figlio, recitando senza saperlo l’elegia funebre di Achille per Patroclo nel greco arcaico di Emporion e di Calpe e di Ampurias.
La morte prematura del sesto figlio lasciò a Maria Tolosa una lingua orfana, che parlava ma con cui non poteva comunicare con nessuno, e allora capì finalmente quanto grande fosse la solitudine sperimentata dai suoi figli, quanto brutale l’ indifferenza di quelli che non potevano capirli, e abbandonò per qualche tempo la gioiosa disposizione con cui fino ad allora aveva messo al mondo orfani.
Questo accadde poco prima che la sua storia si risapesse a Buenos Aires. Erano gli anni del centenario, e il presidente Julio Argentino Roca, o qualcuno in suo nome, inviò un delegato perché desse a Maria Tolosa una medaglia e si facesse una foto con lei. In quel momento Maria Tolosa sembrava una giustificazione del progetto immigratorio che il governo incoraggiava senza fortuna, e il delegato le promise una casa migliore e una pensione di cui non si seppe mai nulla.
Da allora in poi, e fino alla sua morte, Maria Tolosa continuò ad avere figli che parlavano in altre lingue, domandandosi se il suo ventre fosse maledetto e scrivendo lettere al presidente. In vecchiaia, era convinta che fosse ancora Roca, che niente fosse cambiato dal 1910 e che lui continuasse a governare così come lo aveva immaginato allora, in groppa a un cavallo di bronzo al centro di una piazza. Maria Tolosa scriveva per reclamare la pensione che le avevano promesso, per chiedere giustizia e forse conforto e un trattamento decente. Non è difficile, in quelle lettere, seguire l’evoluzione delle sue lingue. Negli originali, conservati nella sezione miscellanea della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, si succedono il dialetto vizcaino del basco, l’ebraico, il maiorchino, il piemontese, il portoghese contaminato che alcuni parlano a Badajoz, il russo, l’alto navarro settentrionale, l’indostano, il catalano di Rosellón, il bavarese, il croato, il gaelico, il bretone, il galiziano che si parla a Finisterre, là dove tutto finisce, il provenzale che conosciamo grazie ai trovatori, il polacco – alcuni suppongono che a questo punto la donna delirasse e ripetesse linguaggi e dialetti di figli passati – e l’italiano. Nessuno lesse mai quelle lettere, ma tutte furono debitamente classificate e dimenticate in un deposito.
Ne scrisse più di seicento in cui parlava sempre della stessa cosa, dei suoi figli che crescevano e se ne andavano, del fatto che nel villaggio non restava nessuno con cui lei avesse giocato da bambina, che presto sarebbe morta senza la pensione che le avevano promesso e che forse era meglio così, perché il suo ventre era maledetto e partoriva solo orfani che si perdevano nella pampa senza parlare altra lingua che quella dell’abbandono.
Nel 1953, infine, uno dei suoi figli parlò una versione relativamente contemporanea del francese. Maria scrisse un’altra lettera al presidente, ma stavolta a leggerla fu un consigliere di Juan Domingo Perón che il francese lo capiva, e al quale interessavano gli enigmi. In un primo momento pensò che la storia fosse inventata, ma fece ricerche su vecchi giornali – Maria Tolosa menzionava la medaglia del 1910 – e si rese conto che era vera. Allora gli sembrò una grande idea ritrovare quella vecchia che continuava a partorire figli nel cuore della pampa, restituirle la pensione che i governi precedenti non le avevano mai dato e trasformarla nel simbolo di una nuova Argentina.
Quel consigliere parlò con Perón, che si entusiasmò. Lui in persona visitò Pergamino con una numerosa comitiva, ma lì si rese conto che nessuno conosceva la donna. Nei due anni successivi continuò a cercarla con l’ostinazione che solo un illegittimo può mettere nella ricerca di una possibile filiazione. Ordinò a centinaia di poliziotti in borghese di cercarla in tutta la provincia di Buenos Aires. Nei villaggi dispersi tra boschi e canaloni tutti li riconoscevano: sempre vestiti con un abito marrone coperto di polvere, mangiavano male nelle osterie che trovavano lungo la strada e chiedevano se da quelle parti conoscessero una vecchia che aveva più di cento anni e continuava a partorire figli che parlavano altre lingue. Molti non la conoscevano e dicevano francamente che non sapevano di chi si trattasse, ma altri, che conoscevano Maria Tolosa, dicevano anche loro che no, non la conoscevano, non sapevano di chi si trattasse, che non ne avevano mai sentito parlare, perché non avevano idea di quello che Perón poteva volere da lei. A Los Hornos mi fecero vedere la valigia di uno degli investigatori, nera e piccola, che l’uomo aveva lasciato lì quando era caduto il governo. Dentro c’erano una camicia, un ritaglio di giornale con la notizia del trionfo della squadra di calcio di Lanús, un quartiere di Buenos Aires, e un elenco di nomi di villaggi, quasi tutti cancellati.
Finalmente, poco prima dei bombardamenti su Plaza di Mayo del giugno 1955, qualcuno trovò Maria Tolosa nei dintorni di Los Cerros. Messo al corrente della notizia, Perón lasciò perdere tutto, non ascoltò i rapporti sulla rivolta in incubazione nella provincia di Cordoba, non prestò la minima attenzione ai suggerimenti dei suoi collaboratori che ripetevano invariabilmente alcuni nomi e gradi, tra cui quelli di Rojas e Lonardi, che, d’altronde, a Perón sembravano troppo inferiori per avere una qualsiasi rilevanza politica, e se ne andò in treno a vedere Maria Tolosa.
Arrivato a Los Cerros trovò a fatica una casupola in rovina, miserabile e abbandonata. Mentre una banda fatta venire apposta per l’occasione sgranava la marcia peronista e le grida svegliavano la gente dalla siesta, Perón entrò in una stanza e vide Maria Tolosa morta in una pozza di sangue. Era ancora calda e ai suoi piedi c’era un neonato che, senza più forze per piangere, si lamentava soffocando nel sangue. A Perón sembrò un segno, ma non ebbe la forza per comprenderne il significato. Rimase ancora un po’, seduto su una sedia rotta cui restavano solo tre gambe, pensando. Poi il piccolo smise di gemere nel suo linguaggio impossibile e Perón uscì nell’abbagliante chiarore del pomeriggio. Nella pampa molti conoscono questa storia, ma le danno significati diversi.
Negano la parte sulla conversione delle vacche, argomentano che Calpe non è mai esistita o sostengono che il bambino che il sacerdote si portò via fosse, per errore, quello che parlava polacco. In questa versione, una serie di coincidenze plausibili lo convertono effettivamente nel Papa di Roma. Esistono anche versioni che smentiscono la ricerca di Perón e la attribuiscono a Hipólito Yrigoyen, a José Félix Uriburu o a qualcun altro dei presidenti intermedi. E infine ci sono quanti credono di vedere in essa una metafora imperfetta del paese e dei suoi rivolgimenti.
È plausibile che ci siano altre versioni che non conosceremo mai, ripetute in dialetti invariabili, in lingue che risuonano solitarie come una musica incomprensibile sulle montagne o nelle pianure o vicino al mare, in una qualsiasi delle regioni di quella che viene chiamata Argentina e che per Maria Tolosa era solo una macchia su una carta geografica che qualcuno una volta le aveva mostrato, un nome e forse un mistero.
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