Questo articolo è comparso originariamente su LitHub.com, e viene qui ripubblicato per gentile concessione della testata.
di Lorraine Berry
traduzione di Francesco Graziosi
Una delle cose che ho imparato frequentando le scuole elementari nell’Illinois è che l’America differisce dall’Europa in quanto è stata fondata come una società priva di classi, e tale è rimasta. Oggi, quando un politico – che sia Barack Obama o Bernie Sanders – tira in ballo la disparità fra classi in America, viene accusato dai suoi avversari di evocare la coscienza di classe allo scopo di fomentare i conflitti sociali. Purtroppo è evidente che Obama e Sanders hanno ragione, e che i miei insegnanti avevano torto. E se è vero che la disuguaglianza fra classi si manifesta in tutti gli ambiti della società, per chi vuole intraprendere una carriera letteraria le differenze di classe hanno un grossissimo peso in termini di chi trova lavoro e chi viene pubblicato. Ciò, a sua volta, ha un effetto concreto sulla rappresentazione delle classi nella letteratura, e nelle raffigurazioni mediatiche della vita dello scrittore.
Negli ultimi anni è stata pubblicata un’infinità di saggi, articoli, schemi, grafici e sondaggi a sostegno di una maggiore varietà etnica e di genere nel mondo letterario, affinché la nostra letteratura possa rispecchiare in maniera più autentica la società in cui viviamo effettivamente. Rimane ancora molta strada da fare, ma pian piano stiamo iniziando a capire che pubblicando più scrittori di colore, aumentando il numero delle firme femminili e diventando più inclusivi, innalzeremo la qualità complessiva delle storie che raccontiamo.
Si è detto pochissimo, però, in maniera esplicita circa l’esclusione del grande sottoproletariato americano, quella classe eternamente povera che giace al fondo della società e che comprende persone di ogni razza, genere e fede religiosa. E nel gettare via le occasioni di creare arte che parli della povertà, ci perdiamo tante possibilità di cambiamento.
Non si impara a essere scrittori all’università per poi laurearsi con le stesse opportunità di chiunque altro. Al momento di cercare lavoro, o di ritagliarsi il tempo per scrivere, è lo strato sociale a determinare chi ottiene i contratti di stage, e per estensione chi riesce ad allacciare quei rapporti che aiutano a trovare un agente o un impiego presso un editore.
Ho un collega con cui facciamo la stessa discussione almeno due volte all’anno, in genere al momento delle iscrizioni, quando mi incrocia negli uffici dell’università e si lamenta con me perché gli studenti non hanno voglia di prendere stage fuori sede. Buona parte del suo astio è rivolta agli studenti che vogliono fare solo stage in università, nel corso del semestre, anziché accettarne uno durante la pausa invernale o estiva.
E dato che il college in cui insegno è a quattro ore di macchina da New York, lui è durissimo quando parla dell’incapacità degli studenti di servirsi a quel buffet sterminato di stage editoriali che è Manhattan. Così, ogni semestre, mi tocca ricordargli che tipo di vita fanno i nostri studenti. Inizio dal fatto che spesso gli stage a New York vengono pagati una cifra simbolica, mille dollari al mese se va bene. L’affitto mensile degli appartamenti a Manhattan e a Brooklyn è più alto di qualsiasi compenso per uno stage, e se anche si riesce a trovare un subaffitto in condivisione per l’estate e a vivere di ramen, riso e maccheroni al formaggio, quasi tutti i nostri studenti devono passare l’estate a lavorare quante più ore possono, in modo da farsi bastare un lavoro part-time durante l’anno accademico. Uno stage che intacchi i risparmi dell’estate è fuori dalla portata di qualsiasi studente che non abbia un’entrata di qualche tipo. Certi studenti sono fortunati perché hanno un parente in città disposto a ospitarli, ma anche in questo caso, benché non sia necessariamente un segno di benessere economico, gioca a loro favore la felice casualità di avere un parente che abita abbastanza vicino da consentire il pendolarismo.
Vero è che molti organi letterari meritevoli fanno affidamento su questo flusso annuale di manodopera qualificata a basso costo, così com’è vero che, per lo studente motivato, uno stage a New York può aprire delle porte. Naturalmente non garantisce un impiego dopo l’università, ma persino nel mio ridottissimo campione di amici che ora lavorano nei media a New York, ho sentito parlare di precedenti stage presso Marvel, Nickelodeon, Salon, Harper’s e Seventeen. Tutto questo non per mettere in discussione i meriti di chi si aggiudica questi stage tanto ambiti, ma semmai per chiedere: quanti rinunciano in partenza a fare domanda per uno stage, perché non sono proprio nelle condizioni economiche di poterselo permettere?
L’anno scorso ho partecipato a una conferenza sulla scrittura a Boston. In una delle prime tavole rotonde ci si chiedeva come fa uno scrittore a rivendicare la propria autorità, ad affermare di possedere le competenze per scrivere di un determinato tema e, dall’altra parte, come fa un editor che legge la valanga di proposte ricevute a decidere che uno scrittore può rivendicare un’autorità in quanto tale.
Uno dei partecipanti, un editor, ha spiegato che per quanto lo riguarda, la prima cosa che fa leggendo la lettera di accompagnamento è verificare se l’autore è in possesso di un MFA (master in discipline artistiche). Lo fa, si è affrettato ad aggiungere, non perché ciò garantisca una maggiore bravura da parte dello scrittore, ma perché prendersi un anno o due per dedicarsi alla scrittura dimostra che l’autore prende quel lavoro seriamente. Per la rabbia sono quasi caduta dalla sedia. Come faceva a sostenere una cosa del genere? Un amico mi ha trattenuta, ma ormai ero furibonda. Chi ha più dedizione: la persona che ha i mezzi economici per investire il proprio tempo in un corso di scrittura, o quella che scrive pur dovendo lavorare a tempo pieno fin dal primo mattino, senza nessun altro a motivarla? Mentre un terzo partecipante alla tavola rotonda spiegava il suo metodo per riconoscere la «dedizione», mi sono ricordata di quella volta che avevo ascoltato Fred Busch raccontare dei suoi esordi, quando lavorava tutto il giorno e passava la sera insieme alla moglie e al figlio; poi si portava la macchina da scrivere nel bagno per non disturbare la famiglia addormentata e scriveva finché la spossatezza non lo costringeva ad andare a letto. Quanta dedizione è necessario dimostrare, più di questa? Ma non è esattamente il genere di cose che si possano inserire in un curriculum. La convinzione errata di quell’editor, cioè il fatto che un MFA sia necessariamente indice di una maggiore dedizione alla scrittura, rivela una cecità fin troppo comune nei confronti del privilegio scontato di chi possiede una stabilità economica.
Naturalmente a questa visione ristretta contribuiscono le rappresentazioni della vita dello scrittore che si vedono in tv o al cinema, dove pare che quasi tutti i professori di scrittura abitino in grandi case in stile Arts and Crafts, o in palazzi nel cuore di Manhattan con tanto di portiere in livrea. Se gli scenografi delle serie tv fanno abitare degli stagisti squattrinati nei loft dei nuovi quartieri più alla moda, come se gli affitti da migliaia di dollari fossero alla portata degli stagisti veri, ciò rispecchia il fatto che quegli scenografi hanno sempre goduto del sostegno economico altrui, e quindi ignorano davvero il costo reale della vita? O è una fantasia crudele che mitizza la condizione di squattrinato, come se fossimo tutti in grado di dedicarci alle nostre passioni senza mai doverci preoccupare di cosa mangeremo domani?
L’arma a doppio taglio per gli studenti del corso di scrittura in cui insegno è che riconoscono di non potersi in alcun modo permettere uno stage estivo a New York. Ciononostante, quando gli chiedi cos’hanno intenzione di fare dopo la laurea, almeno due terzi di loro dicono la stessa cosa: «Voglio trasferirmi a New York e restarci un po’ per cercarmi un lavoro e provare a scrivere». Gli hanno messo in testa che in America gli scrittori veri abitano a New York, e che gli unici lavori decenti, se non vuoi iscriverti a un MFA, si trovano nelle riviste e nelle case editrici, molte delle quali hanno sede a Manhattan. Quello che molti di loro non capiscono, o non hanno ancora capito, è che non avranno il vantaggio di formarsi quei contatti che si usano per trovare lavoro. Come ho detto, non capita spesso che uno faccia uno stage e poi, dopo l’università, trovi subito impiego nella stessa azienda, anche se ho almeno un amico a cui è andata proprio così. E quello stage presso una rivista per mamme fatto al penultimo anno del college può aiutarti a trovare un posto da redattore in una casa editrice.
Uno degli argomenti più forti a sostegno della creazione di un ambiente letterario più eterogeneo riguarda le persone che stanno ai margini. Se una bambina americana di origini messicane cresce con il sogno di diventare poetessa, che succede quando guarda ogni anno i vincitori dei premi e non vede nessuno che le assomigli? Può un ragazzo afroamericano aspirare a diventare un saggista da premio Pulitzer se non sa che in giro c’è qualcuno come lui? Direi che lo stesso vale per i bambini proletari, specie quelli che vivono in famiglie più preoccupate di come sfamarsi che di andare a sentire una sinfonia, famiglie che vedono le arti come un’attività esclusiva dei ricchi (come faceva mio padre, proletario e immigrato).
A questo punto per me la faccenda si fa personale, e confesso di non essermi ancora liberata di un certo rancore, persino di una certa rabbia, nei confronti di questa spaccatura. Una volta stavo guardando un documentario su Susan Sontag, in cui si dava – giustamente – un grande risalto ai suoi studi a Berkeley, Chicago, Oxford, e al fatto che se ne fosse andata a vivere a Parigi. Ma su tutta la storia di Sontag aleggia un interrogativo, che in quello specifico documentario non viene mai affrontato: da dove venivano i soldi? Lei non lavorava. Eppure poteva permettersi di abitare a Parigi. A un certo punto, da giovane, si trovò a corto di denaro, e un amico le procurò un ruolo da comparsa in un film sperimentale. Però, anche in questo caso, non è tanto un fatto di denaro quanto di classe sociale, dell’esser nata all’interno di un sistema in cui è accettabile dedicarsi a cose artistiche. Ma per chi si trova al di fuori di quel sistema «fare l’artista» equivale a buttare via la propria unica opportunità di combinare qualcosa nella vita. E anche quando riesci a combinare qualcosa, puoi incorrere nella disapprovazione per aver «tradito» la classe da cui provieni.
Quando i miei parenti venivano a sapere che un tale si era arricchito e aveva scelto di trasferirsi altrove, o di comprarsi qualcosa di costoso come un’auto di lusso, ne seguivano sempre brontolii su come quello «si credesse meglio di noi, o si fosse scordato da dove viene». E finché non ho letto Jeannette Winterson e Caitlin Moran, che raccontavano di essersi sganciate da famiglie proletarie, ho creduto che quella fosse una cosa che succedeva soltanto nella mia famiglia. Se mi fossi imbattuta da adolescente in storie come quelle di Winterson e Moran, che rispecchiavano la mia esperienza, forse avrei avuto meno remore a scrivere della mia esistenza proletaria. E tuttora, da adulta, ho provato sollievo intervistando Moran, e rendendomi conto che esisteva una scrittrice affermata che era stata una ragazzina proletaria amante dei libri, dopo anni passati a intervistare scrittori le cui vite non assomigliavano per niente alla mia. Moran mi ha fatta sentire meno fuori posto.
Se la letteratura vuole contare qualcosa nelle vite di quanti la leggono, allora deve fare di più che aprire un nuovo mondo di possibilità. Molti di noi, tanto da bambini quanto da adulti, sono stati rapiti dal sogno di fare le stesse cose che fanno i personaggi di un libro. Però, come insegno ai miei studenti, la lettura è anche un fatto di immedesimazione, è quel momento di contatto in cui ciò che lo scrittore prova ed esprime con le parole viene provato anche dal lettore, quel rintocco nel petto che indica che uno «ha capito». E se da una parte io posso provare un’immedesimazione emotiva, dall’altra mi ritrovo a sperare ardentemente che qualcun altro capisca come ci si sente a sapere che nella dispensa ci sono soltanto i cereali per la colazione, finché a un genitore non arriva lo stipendio. La letteratura non dovrebbe fungere da linea di separazione fra abbienti e non abbienti; proprio come il fatto di aver espanso la sfera letteraria per rappresentare in maniera più equa un mondo che non sia composto soltanto di maschi, bianchi o etero ha arricchito enormemente il canone, così le storie di gente proletaria contribuiscono moltissimo a migliorare la nostra rappresentazione e la nostra comprensione del mondo che ci circonda. E soprattutto, almeno per quanto mi riguarda, sapere che a determinare quali scritture sono più meritevoli di pubblicazione non è la classe sociale né il denaro mi farebbe sentire meno fuori luogo quando sprono i miei studenti a intraprendere una carriera in editoria, campo nel quale partono svantaggiati rispetto a quelli a cui il privilegio economico ha già spalancato varie porte.
Ho esitato a scrivere questo saggio, per paura che apparisse come un semplice sfogo personale; se c’è una cosa che le classi lavoratrici non tollerano quasi mai, è il lamentarsi quando non ce n’è un vero motivo. Allo stesso tempo, creare letteratura richiede una certa sincerità rispetto alle proprie esperienze, per poter colmare gli spazi che ci separano dagli altri esseri umani nostri simili. Nel produrre arte, scrivere delle mie esperienze mi fornisce uno spazio in cui creare immedesimazione e attenermi alla verità delle cose. Nella mia vita ci sono stati momenti in cui avrei tanto voluto avere i soldi o gli agganci che mi permettessero di girare il mondo per un anno, e poi scrivere un libro su tutto quel che avevo visto e provato. Ma poi mi ricordo che provengo da una lunga stirpe di uomini e donne che sono sopravvissuti coltivando umilmente la terra, e poi lavorando in fondo alle miniere, e poi alle catene di montaggio delle fabbriche di Manchester. Mio padre era ancora piccolo quando la sua famiglia lasciò gli slum di Manchester per trasferirsi in una casetta bifamiliare, lontana dal lerciume delle zone industriali. È un’eredità di cui andare fiera. Perciò, in futuro, ho deciso di continuare a raccontare quel tipo di esperienza proletaria, di continuare a ritagliare uno spazio per quel tipo di storie in quella che consideriamo letteratura.
© Lorraine Berry, 2016. Tutti i diritti riservati.
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