In occasione di Queremos tanto a Julio, abbiamo incontrato anche i traduttori di Cortázar, che ci hanno raccontato difficoltà e meraviglie incontrate nei diversi testi. Pubblichiamo oggi l’intervento di Elisabetta Vaccaro, che insieme a Barbara Turitto ha tradotto A passeggio con John Keats, saggio giovanile dell’autore di recente pubblicato da Fazi.
Ne approfittiamo per ricordarvi l’ultimo appuntamento della rassegna: sabato 29 novembre alle 21, con lo spettacolo «Componibile Cortázar» della compagnia Barone Chieli Ferrari.
«Tradurre Cortázar: A passeggio con John Keats»
di Elisabetta Vaccaro
Vorrei innanzitutto ringraziare gli organizzatori di questa Tavola Rotonda (Marco Cassini di SUR, in primis) i traduttori che vi partecipano, per aver invitato anche me e Barbara Turitto, purtroppo non presente all’incontro di oggi, a dare il nostro modesto contributo a questa lodevole iniziativa, in quanto traduttrici di quella che, in ordine di tempo, è l’ultima delle opere di Julio Cortázar pubblicate in Italia quest’anno in cui se ne celebra il centenario dalla nascita.
Nel mio intervento mi limiterò a indicare soltanto le problematiche traduttive emerse nel “traghettare in lingua italiana” Imagen de John Keats (questo il titolo dell’opera in lingua originale) ovvero un voluminoso tomo dedicato dal letterato, agli inizi degli anni Cinquanta, a colui che sarebbe diventato nel tempo il più noto poeta romantico inglese della seconda generazione.
Nel testo, frutto di una mente ingegnosa e acuta, l’autore argentino veste i panni di un “erudito” molto sui generis, originale e talentuoso, quanto atipico, appunto. Com’è ovvio attendersi da uno scrittore geniale e creativo della sua stregua nonché interprete perspicace e colto, lettore ideale quanto onnivoro, Cortázar si discosta dalla tradizionale immagine del critico letterario/biografo di un determinato autore, per assumere il ruolo di un saggista intraprendente, insolito, singolare, tanto quanto brillante, innovativo e ironico, come mostra la Dichiarazione giurata che segna l’incipit di questo “libriccino” su John Keats (secondo la definizione che ne dà Cortázar stesso) e che è, in realtà, testo talmente mastodontico da superare le 600 pagine.
Lo studio critico davvero inusuale si sostanzia di una natura dichiaratamente e programmaticamente “(semi-)parodica”. L’intento manifesto da parte di chi scrive è quello di prendere le debite distanze da ogni genere di saggistica accademica vieta e pomposa e di creare anzi, al suo posto, qualcosa di vistosamente antiaccademico. Le medesime parole espresse con tanta chiarezza e veemenza da Cortázar nell’incipit del libro ritornano anche nella corrispondenza privata con Guthmann, dell’estate del 1951, ove alludendo alla sua personale agenda di lavoro, Cortázar menziona il testo al quale si sta dedicando e rivela appunto: «he reunido el mucho material que había juntado en varios años atrás sobre Keats, y estoy haciendo de eso un libro» («Ho raccolto il molto materiale che avevo messo insieme nel corso degli anni su Keats e ne sto facendo un libro»). E per chiarire da subito che il suo modo di scrivere non ha nulla a che vedere con quello convenzionalmente adottato dai grandi eruditi, aggiunge: «No quiero que sea cosa de scholar; lo escribo sueltamente, con toda clase de diversiones y digresiones, con relatos marginales y analogías. Será un libro escandalosamente anti-universitario; por eso, espero les gustará a los buenos lectores de Keats».
Imagen de John Keats è dunque un libro-camaleontico come la poetica/le poetiche dei due autori che tratta e a cui si ispira. Infatti, se è vero che il testo è dedicato al poeta romantico è anche vero che per suo tramite Cortázar parla di se stesso e delle sue affinità con il giovane inglese, altrettanto non facilmente incasellabile e lontano dall’accademia come sostiene di essere Cortázar in questo lavoro; anche lui individuo “fatto-per-stare-all’aperto”, immerso nella natura e nella sua contemplazione e dall’indole altrettanto appassionata; anche lui come Cortázar avido, avidissimo lettore di opere altrui. Anche lui come Cortázar costantemente, programmaticamente alla perpetua ricerca tanto di una sua personale vena poetica quanto di una sua estetica, affinché il suo genio puro si librasse trovando la sua dimensione, non coincidente, necessariamente, con terreni già battuti da altri.
Il saggio-non-saggio dell’argentino, per quanto affascinante, si è rivelato sin da subito un coacervo di vere e proprie sfide: il registro e il tono, pur se indubbiamente alti, non risultano tuttavia solenni come ci si attenderebbe; il ricorso all’ironia e alla parodia, le modalità espressive prescelte dall’autore, permeate di una genuina vena intimista, talora malinconica (oserei dire volutamente romantica) quando non passionale e appassionata o, addirittura, decisamente poetica o sentimentale, paiono mal accordarsi con le caratteristiche del saggio cui siamo abituati; la medesima prosa, innegabilmente bella, ammaliante, persino seducente, si nutre di un linguaggio caleidoscopico, “ricco e strano”, a tratti poetico, che sembra quasi fuori luogo in quello che si profila comunque con uno studio critico di tale portata.
Nel parlare di John Keats, peraltro, Cortázar non si limita a offrire una normale biografia del giovane e sfortunato artista né una puntuale e dettagliata analisi di quella che ne fu la vasta produzione letteraria pur a dispetto di una così breve vita. L’argentino sente l’esigenza di adottare una propria personalissima metodologia (così si intitola uno dei capitoli) che lo avrebbe inevitabilmente condotto a plasmare un nuovo, originale ed esaltante studio critico, romantico per sua stessa ammissione, nato dall’impiego di fonti eterogenee e disparate (schedari, quaderni, fogli sciolti, un fiume di lettere, di aneddoti, di letture, ecc) ma, soprattutto, dalla contaminazione di più sottogeneri letterari in prosa (diario, biografia, autobiografia, saggio vero e proprio, ecc) e di una mole impressionante di citazioni che hanno una ragione di essere solo perché se «Escribir salpicando citas es pedantería… (Cospargere di citazioni la scrittura è pedanteria)», «Si cito porque me da la gana, es que la gana me da las citas (Se cito perché ne ho voglia è che la voglia genera le citazioni)».
Il lavoro dedicato a John Keats getta le sue fondamenta su una “Metodologia” vera e propria che “risponde alla maggior libertà d’espressione possibile” eppur “composta, come può esserlo una fedele obbedienza a ciò che si ama” come afferma con una certa veemenza l’autore. E ciò che si ama è qui un “chi si ama”. La dichiarazione giurata diviene atto d’amore nei confronti della produzione letteraria dell’inglese e, al tempo stesso, molto più di questo. Si comprende da subito che Cortazar opera nell’ottica di far ritornare Keats in vita, di riesumarne le parole e il corpo in un connubio verbo/carne inscindibile per poter aver l’opportunità e l’onore di “camminare accanto a lui, al suo fianco”, oppure di poter andare più semplicemente e modestamente a “passeggio” con lui (come ben suggerisce l’editore Elido Fazi, traduttore sia dei componimenti del giovane poeta inglese sia del titolo italiano dell’opera, che ci pare davvero azzeccato: quest’andare “a passeggio” è un’espressione quasi colloquiale, sa di intimità, di toni all’apparenza volutamente dimessi come quelli preferiti da Julio nel rendere omaggio a Keats in questo fortemente voluto non-saggio).
L’opera, dicevamo, è dunque peculiare per la sua intrinseca natura che la rende doppiamente difficile da tradurre in quanto non si ha neanche un sottogenere letterario ben definito cui accostarla e da cui trarre, se non ispirazione, almeno un modello di riferimento che guidi nella resa in lingua italiana. Tuttavia, man mano che ne affrontavamo una lettura appassionata ma critica, questa sua peculiare natura che ci aveva non poco intimorite (talora disperavamo di riuscire a rendere una prosa così perfetta) si è rivelata un’ancora di salvezza: ci siamo sentite libere di osare come aveva fatto lui, di seguirlo in questa sua prosa fresca, genuina, sentita e disinvolta, fatta talora di associazioni non sempre diafane tra le quali è molto difficile districarsi, essendo veri e propri rompicapi, ma che poi a ben guardare, riflettendo, rileggendo, conducono alla soluzione attraverso riferimenti interni, spiegazioni indirette, arcani sciolti per il tramite di altre citazioni e rimandi ad altri autori e alle loro opere o ad altre opere del medesimo autore argentino.
Lo stile di Cortázar e la sua peculiare mise en page (i rientri paragrafali, le singole parole o i singoli gruppi di parole suddivisi per riga, i corsivi, rigorosamente da rispettare poiché cifra del suo stile e della sua modalità di raccontare/raccontarsi) sono diventate di fatto le linee-guida con cui abbiamo affrontato la traduzione: vanno esattamente riprodotti tali e quali nel tentativo di conservare segno, significato, senso senza mai banalizzare la resa traduttiva pur di facilitare la lettura. Cercare di sciogliere a tutti i costi i nodi traduttivi attraverso il ricorso ad esempi di banalizzazione (semplificazione) o eliminando addirittura delle parti per quanto esigue è solo la dimostrazione di un comportamento dissennato. Occorre capire e interpretare, cercando di rispettare le scelte autoriali e semmai, laddove il testo risulti oscuro, operare anche consultando le traduzioni del medesimo in altre lingue. In alcuni casi noi abbiamo tenuto presente parte della traduzione francese.
La prosa di Cortázar è “ardente”, effervescente, dai toni veementi, appassionati, sinceri; lo stile “palpitante” e va ricomposto, restituito debitamente nella lingua meta seppur qualcosa inevitabilmente rischia sempre di andar perduto: alla fin fine questo mestiere/arte è sempre frutto di negoziazioni e le compensazioni e perdite sono all’ordine del giorno. Onestamente, pur cercando di perdere il meno possibile, di rendere Cortázar (e il Keats di Cortázar) nel modo più fedele con un occhio sempre attento e vigile alle sue scelte lessicali, alla prosa insolita, precisa, perfetta e levigata eppure così volutamente e irresistibilmente antiaccademica, talora si è dovuto compensare necessariamente. Nell’insieme la traduzione è stata però improntata alla fedeltà senza aggiungere né diluire il testo se non quel necessario che è imposto dalla differenza morfosintattica tra due lingue pure così affini.
Desidero concludere questo mio intervento riassumendo i punti salienti dello sforzo ingente che ha presupposto:
– prima di tutto, ovviamente, l’estensione del testo, ancorché irto di difficoltà, come abbiamo già accennato, a causa delle digressioni, dei rimandi ad altre opere di Cortázar non sempre specificate, delle citazioni abbondantissime e, infine delle letture che vi sottostanno, è soprattutto un libro davvero imponente;
– in secondo luogo, il tempo previsto di consegna, generosamente ampliato a causa della mia gestazione personale durante la gestazione della traduzione (ho cominciato a tradurre quando ero al terzo mese di gravidanza del mio terzo figlio). Un computo preciso del tempo impiegato nella resa in italiano non lo abbiamo fatto ma fra lettura, traduzione, revisione, ricontrollo, abbiamo impiegato di certo più dell’anno di lavoro concessoci all’inizio (quasi un anno e mezzo abbondante);
– in terzo luogo, l’enorme quantità di citazioni di cui il testo è cosparso, provenienti dalle poesie di Keats, dalla sua corrispondenza privata con fratelli, parenti, amici, conoscenti, l’amata (Fanny), cui fanno da contorno, citazioni selezionate da Cortázar tratte da saggi, articoli, poesie di altri letterati in altre lingue (italiano, tedesco e francese), racconti dei più svariati scrittori e poeti, rimandi a sue opere e, poi, ancora, passi scelti da antropologi, filologi, filosofi, studiosi, eruditi, critici letterari, editori ispanoamericani del XIX e XX secolo. Le citazioni hanno implicato una ricerca estenuante per reperirne le fonti (un lavoro davvero certosino, consentitemi) poiché abbiamo dovuto innanzitutto cercare se esistessero traduzioni italiane dei brani citati e qualora vi fossero, ove si celasse il brano/la preziosa citazione (talora un rigo solo!) distillati dall’autore. Ci siamo rese conto che, in alcuni casi, forse Cortázar citava anche a memoria o da altri traduttori spagnoli o ispanoamericani che avevano leggermente o in parte modificato il testo originale o, ancora, che nelle traduzioni italiane non vi era traccia del brano da lui citato, per cui siamo dovuti ricorrere agli originali stranieri e che abbiamo a nostra ritradotto, integrando in qualche caso traduzioni italiane già esistenti;
– il quarto punto riguarda la natura ibrida del testo che nasce dalla commistione di sottogeneri letterari in prosa e non solo (in primis il diario, il saggio, l’autobiografia, la biografia e poi ovviamente i vari sottogeneri poetici);
– il quinto è costituito dal “centone di registri” che si trovano ovunque nel testo, un problema davvero non secondario al momento della resa, per via della prosa della saggistica italiana, per sua natura aulica, raffinata, ricercata, quasi una prosa d’arte, abbastanza retorica. La prosa di Cortázar per quanto pulcra, è di fatto anomala. Basta osservare come uno dei primi capitoli riguardanti il Romanticismo si apra con un elenco, tanto per rendere l’idea dell’originalità del libro (cito):
Zorrilla, el duque de Rivas,
Espronceda
Hernani, los chalecos rojos
Musset, Chopin, George Sand,
y ni hablar de las penas del joven Werther,
sauces llorones Amalia
oppure, ancora, la presenza di una serie di frasi breve, secche, come se Cortázar stesse scrivendo degli appunti o delle note da sviluppare in seguito ricalcando la struttura della frase inglese:
Tiene veintiún años, es 1816. Aprecia a Leigh Hunt, conoce a Shelley, devora libros y caminos. Celebra, vierte las libaciones, es feliz. Tiempo de la hermandad, presencia incesante de Tom, de George, de Fanny, de los amigos: Cowden, Clarke, Haydon, Hunt, Reynolds…
Questa è propriamente la prosa antisolenne e ribelle di cui parlavamo in precedenza: ribelle rispetto a un canone imposto, considerando il saggio standard del nostro paese e forse le aspettative dell’editore, poiché nell’aderire ad ogni costo a Cortázar la nostra traduzione può risultare esotica a un orecchio italiano raffinato, uso a legger di saggistica.
– in sesto luogo: le difficoltà interpretative e di non facile soluzione. Ve ne sono a iosa per la presenza di allusioni frequenti a episodi della vita di Cortázar o di quella di Keats che son narrati in modo quasi casuale, come a dar per scontato che il lettore ne sia tranquillamente a conoscenza o comprenda senz’ombra di dubbio quel di cui si sta parlando. Vi sono altresì abbondanti allusioni, digressioni, associazioni, a parte, rime interne, una sorta di prosa poetica, marche di oralità, molte espressioni idiomatiche che al momento di tradurre rappresentano delle sfide quasi insormontabili. Ricordo che al riguardo è stato cruciale il confronto e a un tempo rassicurante conforto derivato dall’apporto fornito da altre traduzioni del testo già esistenti (come quella francese) nel condurci a redigere una traduzione disciplinata e rigorosa specie nelle pagine dedicate alla “Poetica di Keats” particolarmente intense e di taglio prettamente filosofico;
– il settimo punto riguarda la sottile ironia dell’argentino e il tono mordace e pungente che hanno rappresentato un’altra sfida e, talora, sollevato non pochi dubbi sull’efficacia della traduzione proposta;
– l’ottavo punto riguarda un numero incredibile di note a piè pagina dapprima scritte e poi ridotte, ovvero cestinate, per far posto solo a quelle effettivamente utili e imprescindibili per un pubblico italiano.
– infine il nono punto, altrettanto non trascurabile, è legato all’insolita richiesta dell’editore di rendere in lingua italiana la traduzione dei versi di Keats proposta da Cortázar di cui però non rimane alcuna traccia nella versione definitiva, cancellando di fatto una parte importante del testo di Cortázar relativa alla sua riflessione sulle scelte da lui operate nel tradurre nonché il frutto stesso della sua traduzione che magari sarebbe stato bello conservare pur se relegato in un’Appendice riservata solo ai lettori esperti, in grado di percepire la bontà delle traduzioni di Cortázar dall’inglese in spagnolo (essendo tutte le poesie e i versi tradotti resi in quest’idioma).
Di Cortázar traduttore, dunque, lo diciamo a malincuore, in A passeggio con John Keats non vi è segno alcuno eppure anche questo aspetto può avere i suoi lati positivi perché l’analisi del suo modo di tradurre Keats può diventare lo spunto per un ulteriore studio –stavolta di taglio decisamente accademico– da dedicare a “Nuestro querido Julio”. Grazie.
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