In occasione del cinquantacinquesimo anniversario della morte, pubblichiamo un ritratto del romanziere e saggista afroamericano Richard Wright, tratto dal dizionario per autori La letteratura americana dal 1900 a oggi, curato da Luca Briasco e Mattia Carratello, edito da Einaudi. Ringraziamo l’autrice, i curatori e la casa editrice.
di Sara Antonelli
Autore di romanzi militanti che trattano la brutalità del razzismo e i suoi effetti sulla psiche afroamericana nel contesto della modernità, Richard Wright esordí nella narrativa spinto dalla convinzione che «la scrittura negra del passato si [fosse] limitata a romanzi modesti, poesie e commedie, ad ambasciatori compassati e decorosi che mendicavano l’attenzione dell’America bianca». In Blueprint for Negro writing (1937) si chiedeva se «la scrittura negra si rivolgerà alle masse negre, spingendo le vite e la coscienza di queste masse verso nuovi obiettivi, o continuerà a dibattere la questione dell’umanità dei negri», invitando gli autori neri ad abbracciare il marxismo e a intervenire direttamente nella trasformazione della società. Per Wright, tuttavia, ciò non significa scrivere romanzi di propaganda: «Dopo che il marxismo ha portato alla luce lo scheletro della società», spiega «allo scrittore spetta il compito di mettere della carne fresca attorno a quelle ossa», ovvero di immaginare.
Nato nel 1908 a Natchez, Mississippi, segue la madre dapprima a Memphis, poi in Arkansas e quindi di nuovo in Mississippi, a Jackson, dove rimane a vivere con la nonna fino al 1925. Nonostante gli spostamenti e un inizio poco promettente, Wright si distingue come bravo studente, avido lettore, e per il talento nella scrittura. Costretto ad abbandonare gli studi prima del diploma, continua la propria formazione da autodidatta a Memphis, dove grazie a uno stratagemma prende in prestito i libri degli autori destinati ad avere un forte impatto sulla sua narrativa: Theodore Dreiser, Sherwood Anderson, Fëdor Dostoevskij e H. L. Mencken, del quale apprezza la sottigliezza argomentativa, il sarcasmo e il dono di usare «le parole come armi». A Chicago dal 1927, si iscrive al John Reed Club, un’associazione che incoraggia la sua formazione letteraria in chiave marxista, e quindi, nel 1933, al Partito comunista. L’attivismo politico lo introduce nel mondo editoriale, prima come giornalista e poi come autore. Pubblica alcune poesie, tra cui «I have seen black hands», e il suo primo, raffinatissimo racconto, «Big Boy Leaves Home» (1936). Trasferitosi a New York nel 1937 a causa dei tanti dissapori con la sezione del partito di Chicago, Wright lavora al Daily Worker e prepara la fondazione di New Challenge. Dopo aver vinto un concorso letterario, pubblica il suo primo libro, I figli dello zio Tom (Uncle Tom’s Children, 1938, 1940), un’antologia di racconti in cui fin dal titolo annuncia l’esistenza di una nuova generazione di neri. Per nulla arrendevoli, né disposte a trovare consolazione nella religione, le vittime di violenze e ingiustizie razziste che incontriamo in queste pagine non si danno mai per vinte e commettono crimini solo perché spinte dalla disperazione. Nonostante il tono didascalico e una certa prevedibilità nelle trame e nelle caratterizzazioni, la raccolta viene salutata con entusiasmo sia dai lettori, che ne fanno un bestseller, sia dai critici, che vi intravedono una voce promettente e sicura, sia dalla Fondazione Guggenheim, che nel 1939 assegna una borsa all’autore.
Wright può cosí dedicarsi indisturbato alla stesura di Paura (Native Son, 1940), il suo capolavoro. Dieci giorni dopo la pubblicazione, nel corso di una conferenza alla Columbia University, «How “Bigger” was born», spiegherà di aver voluto scrivere un libro crudo, con un protagonista che, a differenza di quelli di I figli dello zio Tom, non sarebbe stato compatito da nessuno. Nelle vicende di Bigger Thomas, un giovane del South Side di Chicago colpevole di aver ucciso due donne (una bianca e una nera) spinto dalla paura, ma non per questo con minore efferatezza, l’autore rappresenta gli effetti del razzismo, tratteggiando le tappe di una rovina umana che trova anche Max, il solidale avvocato marxista di Bigger, del tutto impreparato. Ispirato dal determinismo di Dreiser e Dostoevskij, e dalle ricerche della Scuola sociologica di Chicago, per cui scriverà la prefazione a Black Metropolis: A Study of Negro Life in a Northern City (1945), Wright conclude Paura con una critica al suo partito, a suo parere sempre piú chiuso nel dogmatismo, incapace di cogliere quel che davvero accadeva nei ghetti e, quindi, di comprendere il suo desiderio di scriverne. Accusato di essere un intellettuale borghese, poiché i suoi romanzi non rientravano nei canoni della letteratura di propaganda, Wright si allontana dal partito per poi abbandonarlo definitivamente con la pubblicazione di «I Tried to Be a Communist» (1944). Nel frattempo Paura, adattato per il teatro con la regia di Orson Welles (1941) e quindi per il cinema da Pierre Chenal (1951), con lo stesso Wright, pur quarantenne, nel ruolo di Bigger, diventa un classico americano e un irrinunciabile luogo di confronto per gli scrittori afroamericani delle generazioni successive. Intervenendo in suo favore e contro il progressivo distacco di Ralph Ellison e James Baldwin dal loro maestro, nel 1963 il critico bianco Irving Howe scrisse che «il giorno in cui apparve Paura, la cultura americana cambiò per sempre», un’affermazione valida innanzitutto per il suo autore, il quale, dopo essere tornato a raccontare il South Side in un libro fotografico di grande impatto, 12 Million Black Voices, in cui documentava con dovizia sociologica sia il razzismo sudista sia le condizioni di vita dei neri nei ghetti del Nord, tornò alla prosa con Ragazzo negro (Black Boy, 1945), un volume autobiografico di straordinario successo. Ripercorrendo le umiliazioni della giovinezza, l’inizio della militanza politica e quindi la sua disillusione, Wright si mette a nudo tratteggiando un ritratto spietato di sé, del rapporto tra bianchi e neri – fondamentali le pagine sul “giocare ai bianchi” o quelle in cui descrive i neri che si umiliano volontariamente diventando dei “Sambo” – e della società statunitense. Invitato a Parigi da Gertrude Stein, di cui aveva apprezzato «Melanctha» (1908), a suo parere «il primo trattamento serio della vita dei neri negli Usa», Wright viaggia in Europa e, tra gli altri, conosce Richard Padmore, l’ispiratore dei movimenti anticolonialisti africani che tanta importanza avranno nel suo futuro.
Tornato a New York e ricavatane la sensazione che il suo paese non avesse piú niente da offrirgli («Why I Choose Exile», 1951), si trasferisce a Parigi nel 1947 per restarvi fino alla morte, nel 1960. Qui conduce una vita intellettualmente stimolante e prosegue la carriera di romanziere, sebbene i suoi libri non avranno piú la forza espressiva del passato: Ho bruciato la notte (The Outsider, 1953), un’opera che riflette l’interesse, ma anche i dubbi, di Wright nei riguardi dell’esistenzialismo; Ma nel settimo giorno… (Savage Holiday, 1954), un thriller psicologico con soli personaggi bianchi; Il lungo sogno (The Long Dream, 1958), un bildungsroman di ambientazione sudista. Piú interessante la produzione breve, poi raccolta in Eight men (1961), tra cui spiccano «The Man Who Killed a Shadow» e «The Man Who Lived Underground». Oppure la saggistica, che comprende Potenza nera (Black Power: A Record of Reaction in the Land of Pathos, 1954), il resoconto di un viaggio in Ghana, in cui condanna la cultura tribale del paese – responsabile del «pathos» paralizzante indicato fin dal titolo – e consiglia a Kwame Nkruma l’adozione di un piano di industrializzazione forzata; The Color Curtain: A Report on the Bandung Conference (1956), in cui, inclusi gli asiatici tra gli sfruttati dal colonialismo razzista bianco, prospetta loro le stesse soluzioni sostenute tra gli africani; Spagna pagana (Pagan Spain: A Report of a Journey into the Past, 1957), un’acuta disamina della vita, della storia e della cultura spagnola e un’accusa potente all’oppressione della Chiesa, un’autorità che Wright non esita a paragonare alla cultura bianca del Sud degli Usa; e White Man, Listen! (1957), una raccolta di saggi di argomento sia politico, come «Tradition and Industrialization», sia culturale, in cui ha modo di tornare a trattare le responsabilità e i contenuti della letteratura dei neri e l’oppressione psicologica legata al colore in chiave internazionalista.
© Giulio Einaudi editore, 2011. Tutti i diritti riservati.
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