Pubblichiamo oggi un articolo su Zama, film della regista argentina Lucrecia Martel ispirato all’omonimo romanzo di Antonio Di Benedetto. L’articolo, uscito originariamente su Página 12, viene qui riprodotto per gentile concessione della rivista e dell’autore.
di Diego Brodersen
traduzione di Laura Talamona
A quasi dieci anni di distanza dal grande schermo, Lucrecia Martel torna con il suo quarto lungometraggio che, in seguito al trionfale passaggio nei festival di Toronto e Venezia, è arrivato nei cinema argentini il 28 settembre. Si tratta di Zama, sua versione del romanzo di Antonio Di Benedetto, testo di culto che ricrea un vicereame di illusioni e sogni e che cresce da una stanca attesa fino a diventare avventura, violenza e dissoluzione. Il film ha richiesto dieci settimane di riprese, registrate in Ańos Luz, il documentario di Manuel Abramovich e nel libro El mono en el remolino di Selva Amada. In questa intervista Lucrecia Martel parla della doppia sfida di Zama: come affrontare il primo adattamento di un’opera preesistente e il suo primo film in costume.
Scena uno. Esterno. Giorno. Don Diego de Zama è fermo sulla sponda del fiume, con una mano appoggiata mollemente sulla sciabola da ufficiale. Guarda lontano, poi le acque quiete e scure, di nuovo l’orizzonte e infine gira la testa per seguire con poco interesse un gruppo di bambini aborigeni che giocano sulla spiaggia angusta. Cammina brevemente, si ferma e torna a scrutare in lontananza, come se aspettasse qualcosa. O qualcuno. Una barca forse, che finalmente lo porti via dal luogo in cui si trova, simile al purgatorio. Diego de Zama attende e continuerà a farlo: è parte del suo essere, del suo destino. È così nel celebre romanzo Zama di Antonio Di Benedetto e così rimane anche nella versione cinematografica immaginata da Lucrecia Martel, il tanto atteso quarto lungometraggio della regista saltegna dopo quasi un decennio di pausa (e un progetto importante abortito: l’adattamento della grafic novel L’eternauta). Zama aspetta, però finalmente l’attesa del film è terminata: dopo la comparsa ai festival di Venezia e Toronto, Martel presenta un film che, per diverse ragioni, esterne e interne, contiene nel proprio DNA il seme della leggenda. Zama si è fatto attendere: ci sono stati tanti anni di pre-produzione, conseguenza in gran parte dei problemi di finanziamento, seguiti dal lancio commerciale tardivo a causa dell’inaspettata assenza dal Festival di Cannes, lo scorso maggio. «Il periodo precedente alle riprese è stato molto stressante ma una volta iniziato è stato bello, divertente. Abbiamo girato per dieci settimane, poco più del previsto», spiega Lucrecia Martel in un momento libero tra due viaggi all’estero per presentare il suo film, di fronte a un caffelatte e una fetta di torta, eco di una tarda colazione o di un pranzo frugale. «Finanziariamente, è stato molto difficile fare questo film, ma adesso sono davvero felice, anche per aver rotto l’incantesimo secondo il quale non si poteva filmare. Per un momento ho pensato fosse vero, che il film non si potesse fare. La notizia di Cannes ci ha sorpreso; pensavamo che la pellicola potesse essere interessante per il festival, in qualsiasi sezione. Di certo non nella selezione ufficiale, dove Pedro Almodovar, uno dei produttori, faceva parte della giuria. È tutto così fragile: non ti invitano a un festival e devi riorganizzare tutto, rimandare la prima».
Don Diego de Zama, l’attore ispano-messicano Daniel Giménez Cacho, in uno dei ruoli più riusciti della sua lunga e prestigiosa carriera, osserva un gruppo di donne nude in piena attività: un bagno di fango che è, al tempo stesso, l’occasione ideale per conversare in stretto guaranì. «Guardone!», gridano cambiando lingua nello scoprire l’accalorato voyeur, nascosto tra le erbe selvatiche. Zama, dipendente della corona spagnola destinato a occupare un incarico burocratico nel vicereame di Río de la Plata nel tardo Ottocento, risolve faccende territoriali di poca o media importanza, pratica le arti della vita sociale, ratifica alcuni accordi commerciali: obblighi lavorativi e modi per ammazzare il tempo. «Zama, il Governatore giustiziere», afferma un bambino bleso con lo spirito satirico di Cervantes, mentre la colonna sonora lascia udire un suono strano, estemporaneo, anacronistico. Nonostante sia coperto da una patina che riconduce al dramma storico tradizionale, in Zama tutto è rarefatto, febbrile, come se la densa attesa del suo protagonista assumesse la forma di un velo ingannevolmente traslucido. Uno dei molti risultati conseguiti dalla regista di La ciénaga, La niña santa e La mujer sin cabeza è di aver costruito un universo che potrà confrontarsi ed essere associato a quelli di altri registi (alcuni critici internazionali l’hanno associato a nomi totalmente diversi tra loro come Werner Herzog, Claire Denis o Terrence Malick) ma che, tuttavia, è idiosincratico quanto, se non ancor più, dei suoi lavori precedenti, a dispetto delle evidenti differenze. Zama rappresenta almeno un paio di prime volte per la regista: si tratta contemporaneamente del suo primo adattamento di un’opera già esistente e del primo film d’epoca. «Mi sono allenata a calarmi nel mondo di un altro grazie all’anno e mezzo di lavoro richiesto da L’eternauta», continua Martel, «però quando ho letto Zama, mi sono accorta che le tecniche di Di Benedetto sono così creative che implicano qualcosa in più del calarsi in un universo estraneo. Ho letto il romanzo in tre giorni e il processo della lettura ti immerge in un’aurea particolare che va oltre la storia, al racconto, ed è dovuta allo stile affascinante dello scrittore. Da quel momento, desiderare di farne qualcosa è stato inevitabile. E questo sì, a mio avviso, che sia un capolavoro: Zama ti spinge a creare».
Chi aspetta, desidera
«La gente dice “adattamento” in maniera leggera ma di che si tratta realmente?», si chiede Lucrecia Martel. Com’è possibile adattare un testo, letterario, teatrale o poetico che sia, nel momento in cui bisogna pensarlo in termini di regia? Tradurre forse sarebbe un termine più preciso, come se si trattasse del sempre insidioso passaggio da una lingua a un’altra. «Una persona rimane affascinata da questo mondo, questo sistema, e davanti al desiderio di creare un film inventa nuovi metodi. La prima cosa a cui ho pensato è stata che Zama è un soliloquio; come trasformarlo in una serie di eventi che, seppur ben delineati nel romanzo, non sono granché importanti di per sé ma in funzione della maniera in cui il protagonista li percepisce? Questa difficoltà rappresentava la sfida maggiore. Decisi, già prima di cominciare a scrivere il copione, di cambiare molti dei dialoghi in voci fuori campo virtuali: lo spettatore vede il viso di Zama ma ascolta costantemente le voci di altre persone. Questo espediente dà un carattere molto soggettivo alla scena; si tratta di un trucco semplice che tuttavia mi ha permesso di avvicinarmi allo stile indiretto del testo. L’altro aspetto problematico è legato alla forma a spirale del romanzo, anticipata come struttura della narrazione dalla scena iniziale con la scimmia (che ho deciso di non filmare per far sì che qualcuno di più audace ci pensasse al posto mio). La storia va e viene intorno alle riflessioni, si contraddice, pare avviarsi in una direzione precisa e poi non lo fa. Questo genera una distorsione della linea temporale, del senso di continuità. Per avvicinarmi alla sensazione che produce il romanzo ho pensato di non fare alcuno sforzo per dare riferimenti cronologici allo spettatore; ovviamente, vedendo l’abito con cui è vestito Zama sa che è un film d’epoca. Tuttavia, le ellissi, grandi e piccole, non sono così evidenti. Infine, ci sono state questioni connesse alla storia dell’arte. Ci sembrava importante creare un universo del passato nel quale convivessero i nostri inevitabili pregiudizi e mantenere forme di violenza riguardo agli stessi, alcune molto arbitrarie. Di Benedetto commette errori storici, ma non ha alcuna importanza. Nessuno mette in dubbio che la Storia la scrivano i vincitori ma in che misura tutto ciò influisce sulla nostra vita quotidiana? La cosa più terrificante di chi scrive questa Storia è l’aver cercato di creare un’immagine stereotipata degli indigeni, come ad esempio: l’indio infantile, il negro cretino, il “mio padroncino”. La cosa interessante è che è impossibile sottomettere una persona; solo chi ha vinto può descrivere questa idea di subordinazione completa. Abbiamo deciso di inserire gesti costanti di irriverenza per andare contro questa idea tanto conservatrice della Storia e di cancellare la Chiesa cattolica, una decisione assolutamente arbitraria che ha comportato la cancellazione di tutte le croci dai mobili e di altri elementi dell’epoca, per concentrarci su un discorso totalmente commerciale. Abbiamo fissa in testa l’idea di una colonia iper cattolica ma le cose erano un po’ più complesse. Queste decisioni sono state prese perché l’assenza di questi elementi, che ovviamente sono esistiti, ci obbliga a pensare un po’ di più. Alla fine, che importanza ha l’essere fallaci se la fallacia ci consente di riflettere un po’, volgerci al passato con un’altra testa?»
«Manca poco, sta arrivando una barca. Porta la posta del re» sogna Zama ad occhi aperti, mentre tre donne lo lavano amorevolmente. Il governatore lo riceve ma di nuovo la lettera che dovrebbe richiedere il suo trasferimento a Buenos Aires non viene scritta. Giungono notizie del bandito Vicuña Porto, nemico pubblico dello status quo, con alle spalle una storia di saccheggi, violazioni e violenze varie. E di una particolare razza di cocchi pieni di gioielli che sono entrati nel mito. Ma nulla di tutto ciò importa: ogni cosa si dilata, come il tempo. «Cos’è l’attesa? Niente più della proiezione del desiderio altrui. Si desidera qualcosa che non si ha tra le mani e c’è un tempo nel quale si attende che arrivi. Il timore è molto simile, con la differenza che non si proietta in avanti, come il desiderio, ma può arrivare da dove meno te lo aspetti. Esiste anche qualcos’altro di simile, a metà tra il desiderio e il timore. Se uno non è nessuno, se uno crede di non essere nessuno, niente di tutto ciò – né il desiderio né il timore – lo possono influenzare. Non attende né teme. Tutto ciò accade quando si ha un’identità molto ben definita. L’aspetto che più mi interessava del romanzo era il concetto della dissoluzione dell’identità: liberarsi della speranza, liberarsi di sé stessi. Per me il nodo centrale era questo, non tanto l’attesa in sé: la trappola dell’identità e come questa determina quasi tutto».
La barba incolta indica lo scorrere del tempo e, come nel romanzo, Zama si imbarca per l’avventura, in un viaggio allo sbaraglio, un’escursione tra gli indigeni, verso la dissoluzione dell’identità menzionata dalla regista. Forse verso la pazzia. La terza parte di Zama, prolungata nuovamente da una delle melodie sognanti del duo brasiliano Los Indios Tabajaras che accompagna le immagini in maniera intermittente, abbandona finalmente l’asfissia dell’attesa, concreta e indefinita allo stesso tempo, per aprirsi ad altri spazi ed esperienze. Chi è ora Zama? Chi sarà Zama nel futuro, dopo la fine della storia?
Un’immersione
Dalla prima scena della sua prima opera, La ciénaga, con i rumori delle sedie che grattano su un pavimento di pietra e i cubetti di ghiaccio che tintinnano in un bicchiere pieno di vino, con l’estate che picchia forte sulla leggera ubriacatura del pomeriggio saltegno, il suono ha giocato un ruolo fondamentale nel cinema secondo Martel. Zama non fa eccezione, ovviamente, però le regole del gioco sonoro si spingono oltre. «È un criterio che abbiamo mantenuto con Guido Berenblum in tutti i film: comporre un suono espressionista accanto a un tipo di immagini, se vogliamo, naturalista. Zama ha rappresentato una svolta importante nella miscela sonora ma ciò che abbiamo stabilito fin dall’inizio è stato l’uso di suoni naturali con un tocco di elettronica. Guido ha creato una biblioteca di rumori loschi, tra il tecnologico e il biologico, soprattutto di animali. Un esempio è il pappagallo campana: lo si ascolta e non si può credere che sia un uccello a produrre quel rumore; o l’urutau che sembra quasi umano, o alcune cicale. E così come nelle immagini eliminiamo qualsiasi apparizione di fuochi o candele, altri tipici elementi per segnalare che si tratta di un film in costume, nel lavoro sul suono evitiamo quello delle carrozze. E i discorsi sono inventati, non esiste la mazamorra calda. L’idea era di non riprodurre ciò che siamo abituati a vedere. Poi è stata presa la decisione scandalosa, un poco infantile, di includere il suono di una caduta continua che sembra preso da un film di fantascienza. Infine, la musica, che non avevo mai usato nei miei film precedenti. Los Indios Tabajaras hanno una certa grazia, anche se non credo apprezzerebbero la definizione. È una musica pretenziosa e, malgrado siano brasiliani, credo che sia una caratteristica molto argentina, tra solennità e pazzia. Inoltre, sono canzoni dell’epoca in cui è stato scritto il romanzo e mi piaceva immaginare Di Benedetto che le ascoltava mentre scriveva. Molte cose le pensiamo dagli anni Cinquanta, inclusi alcuni dettagli della fotografia. Quando siamo arrivati alla miscela di suoni, abbiamo deciso di non renderla misurata, al contrario distruttiva, volevamo che il volume sfuggisse un poco. Una miscela inelegante. Credo sia stato un risultato incredibile tenuto conto che, in un primo momento, avevamo i nostri dubbi». Per quanto riguarda il lavoro di montaggio, Martel aggiunge che il materiale grezzo ordinato cronologicamente durava appena tre ore e la prima sezione circa due, qualche minuto in più della versione finale. «Ognuno ha le sue teorie però io non sono una che va per le lunghe, non mi interessa fare film interminabili. Zama avrebbe potuto essere un mattone di tre o quattro ore ma per me è come un’immersione: se rimani troppo tempo nell’acqua, la pelle inizia a diventare rugosa».
© Diego Brodersen, 2017. Tutti i diritti riservati.
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