(Marcel Duchamp, Nudo che scende le scale n. 2)
Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte di un saggio di César Aira su Roberto Arlt. La prima parte si può leggere qui.
Arlt
di César Aira
traduzione di Dajana Morelli
Si è soliti dire: “Arlt, il nostro Flaubert”. Credo che l’approssimazione sia inadeguata, e non solo per l’abisso che c’è tra uno scrittore maturo e borghese e l’adolescente visionario che è stato Arlt. Flaubert si esaurisce nella forma, Arlt non arriva mai alla forma, termina nel formale. Io direi “il nostro Lautréamont”. Il menzionare Flaubert proviene dall’analogia di funzioni in un’ipotetica storia del romanzo. In Flaubert la narrazione infinita e torrenziale del romanzo primitivo si cristallizza in forma artistica autonoma, che è ciò che continuerà ad essere fino a oggi (perché la stessa narrazione infinita è diventata un sottogenere della forma romanzo). Ciò che il romanzo europeo è diventato in cinquecento anni e attraverso mille scrittori, in Argentina Arlt lo ha fatto da solo in cinque anni. Dalle profondità del feuilleton amorfo, dall’Amadis, fino a Flaubert, d’accordo.
Ma si limita ad “arrivare” fino a lì? C’è una meta, un classicismo d’arrivo? Tutta questa analogia è poco realistica. In primo luogo perché l’accelerazione è tanta, la velocità così fantastica, che dovrebbe cambiare la natura dell’oggetto. Non è una rapida traversata del genere, ma un fermarsi in questa velocità impossibile. Il movimento in Arlt non si ferma quando arriva alla meta perché è sempre stato fermo. Ciò è tematizzato: è l’immobilità caratteristica di Arlt, il crampo dell’incubo, la catatonia del mesmerizzato. Mentre si lancia nella corsa già paralizzato, come una mummia messa in orbita dalla molla proiettiva espressionista, si assicura di non fermarsi mai. Dove terminano i sentieri, nel sancta sanctorum dell’angoscia, nel fondo della miseria… Persino lì il movimento continua, persino quando il fuggitivo è davanti a un muro insormontabile…
Tutto è tematizzato, e non potrebbe essere altrimenti, per la legge del continuo. I romanzi di Arlt sono storie dell’immobilità, romanzi dai quali non si esce, ma allo stesso tempo non si spiegano se non come romanzi di viaggio. Il protagonista, per essere tale, affinché ci sia storia, si è spogliato di tutto, ha tagliato i ponti, è disposto a intraprendere il viaggio agli antipodi. Non ha mai questioni in sospeso e se le ha si mostra assai disposto ad abbandonarle. In questo denudamento risiede tutto l’esotismo di Arlt.
E davvero i suoi personaggi stanno viaggiando, sono imbarcati ad una velocità di onde radio. Si stanno allontanando, su un treno, su una nave… Soprattutto su un treno, questo feticcio arltiano… Ma gli altri li vedono lì dove sono rimasti. Li vedono come Poe vede l’insetto che si trova a pochi centimetri dai suoi occhi, come un mostro delle dimensioni di un palazzo che sale la montagna. È il rovescio romanzesco della strategia dell’uomo comune, l’uomo insignificante, che è seduto al nostro fianco mentre la sua anima si fa strada in cielo spostando gli astri.
Balzac ci ha dato il modello del “romanzo urbano” creando il mito della grande città come unico teatro a misura dell’ambizione dell’uomo moderno; e ho già detto che l’ambizione era lo sviluppo della tentazione che sente l’evento di assistere al proprio processo. Ma ogni evento ha due facce: quella possibile e quella reale. Il dubbio è giustamente il labirinto dove si biforcano le possibilità del destino. Il romanziere assume la prerogativa di scartare le possibilità e tracciare il percorso al centro, dove si rannicchia il Mostro. La complicazione psicologica, e la sua radicalizzazione, la rottura della catena casuale, il “crollo sensorio motore”, risultano da questo tracciato del labirinto.
Al di fuori del percorso centrale resta solo l’uscita, l’abbandono, l’inconsistente silenzio del gentleman. Fuge, late, tace (“fuggi, abbandona, taci”) come nell’iscrizione dei muri della Grande Certosa, che tanto impressionò Balzac. Sembrerebbe una semplice provocazione esemplificare con Balzac l’abbandono della letteratura, proprio con lui, incarnazione della volontà di rendere infinita la scrittura. E tuttavia non è così assurdo. L’impulso di Balzac, il segreto della sua forza, sta nell’essere un impulso secondo, un rilancio, una forza che appare al di là di un disfacimento sempre latente. Un critico della sua opera (Pierre Barbéris) segnala nel momento in cui a Lucien de Rubempre passa per la mente, fugacemente tra l’altro, l’idea di abbandonare tutto il complotto e di fuggire con Esther: “Qui Lucien è tentato dall’idea del ritiro e della rinuncia, soluzione ai problemi dell’intenso e dell’assoluto per diversi eroi balzachiani”. Ciò che trattiene il personaggio balzachiano nel dubbio, e quindi nel romanzo, è l’ambizione, l’assoluto dell’ambizione, che rinasce sempre dalle relatività dei soldi, per cui bisogna progressivamente sacrificare il verosimile (perché il verosimile dell’ambizione sono i soldi); da questo sacrificio progressivo nasce il feuilleton truculento, il romanzesco puro, che è la cima a cui giunge l’arte di Balzac, non il suo punto di partenza. Cito di nuovo Ponge: “Il verosimile è quanto sembra inverosimile alla gente senza ambizione”. E se l’ambizione, come abbiamo visto, è lo status quo che si fabbrica la tentazione di autocoscienza, lì abbiamo in embrione tutto il romanzo moderno.
Ciò che resta occulto nel processo di autocoscienza è un frammento della coscienza in cui c’è spazio per tutta la realtà, il frammento che renderebbe la realtà comprensibile e normale come in una prospettiva ben disegnata. Questo frammento mancante, nel cui vuoto sprofonderà sempre la spiegazione come in un buco nero, beffa lo sguardo anche con la scusa del visibile in eccesso, come nella “Lettera rubata” di Poe (Arlt fece la sua versione nel racconto dei contrabbandieri di mitragliatrici di El criador de gorilas). Ancora una volta si tratta del paradosso di ciò che è comune e di ciò che è strano. Il Mostro balza all’occhio, ma può anche dissimularsi nell’abituale, farsi invisibile per abitudine, come quello che vediamo tutti i giorni.
I formalisti russi basarono la loro teoria su questa percezione sonnacchiosa, dalla quale ci sveglia l’arte attraverso manovre di straniamento. Ovvio che prima di iniziare queste manovre l’artista deve distanziarsi dalla propria percezione per verificare dove zoppica. In questo punto, dove si identifica con i suoi personaggi, Arlt rende il Mostro un protoartista. Arlt e il Mostro sono nello stesso continuo. Astier, Erdosain, Balder, sono mostri di percezione. La percezione vuole percepire se stessa, si ripiega su di sé per farlo, e allora le scappa tutto un giro di spazio-tempo di fronte al quale resta a bocca aperta. Vediamo come reagisce Balder:
“Eravamo nella sala da pranzo e di nuovo nasceva il sortilegio della stranezza. Io restavo lì con la coscienza sospesa nella stranezza di vedere utensili di uso comune a tutti gli esseri umani, collocati in luoghi diversi.
“A casa mia ero così familiarizzato agli oggetti che questi erano visibili unicamente quando ne avevo bisogno.
“A casa di Irene, la mia attenzione restava sospesa in un’atmosfera di incertezza per i continui scontri con le sue abitudini, o lontana dal suo asse, di qualche centimetro. Qualsiasi movimento che effettuavo lì mi lasciava la conseguente sensazione di essere disarmonico. Era come se respirassi aria di diversa densità.
“Desideravo familiarizzare con gli oggetti che circondavano Irene…”
L’“incantesimo” dell’Amor brujo [titolo del romanzo di Arlt da cui è tratta la citazione che precede e quelle che seguono; ndr] sembra essere proprio un sortilegio percettivo. La percezione in Arlt trabocca dall’istante, scappa dal soggetto, è schiacciata, deformata, i suoi membri si appoggiano a vite altrui, sono ricordi che nessuno assume. Balder e Irene si riconoscono la prima volta che si vedono, alla stazione Retiro. Allo stesso tempo, in questa origine c’è una dimenticanza: Balder non si sarebbe mai ricordato che cosa era andato a fare alla stazione quel giorno: “era stata permanente la dimenticanza della causa che quel pomeriggio lo aveva trascinato preoccupatissimo fino alla banchina numero uno della stazione Retiro”.
Perché nell’arte la percezione è azione, non contemplazione; non ha quasi niente a che vedere con la conoscenza, come in quella aberrazione artistica che è il genere poliziesco. La percezione è il grido di orrore, la risata del pazzo, il fulmine devastante, il crimine. Prima c’è quello che Arlt chiama “l’oblio della causa”: poi, rimane solo “la volontà impazzita”.
La tentazione influenza anche la volontà, che vuole muovere se stessa e siccome dispone solo di se stessa per farlo, una parte resta immobile, facendo zoppicare il resto: è la volontà del mostro, la volontà impazzita.
La tara della volontà, dice Arlt, consiste nello schivare lo stimolo. Il mondo fornisce lo stimolo, l’uomo diventa invisibile per esso e lo lascia passare oltre. Il Mostro è invisibile. Nulla può succedergli. La catena causale si rompe. E allo stesso tempo, qualcosa gli succederà perché si trova in un mondo dove c’è solo azione. “Mi accadrà qualcosa di straordinario”, dice continuamente Balder, mentre contempla il tempo con lo stesso straniamento che gli provoca lo spazio. E infatti, l’evento sarà straordinario perché l’azione sarà liberata dalla catena stimolo-reazione. Ciò che accadrà non si potrà spiegare con lo stimolo. Se la causa non agisce, per l’“oblio” che la informa, l’effetto si presenterà sprovvisto di spiegazione, come elemento romanzesco puro.
Come rimpiazzo della causalità, che muove l’uomo a una velocità prevedibile, si stabilisce un movimento instabile e sospettoso, per il quale Arlt trova, come sempre, una formulazione perfetta:
“ci muovevamo in un circolo di fattori enigmatici”. È il circolo paranoico, in cui la spiegazione sarà sempre insufficiente o eccessiva. “Mi sembra”, dice Balder, “che gli uomini del mondo facciano un cerchio attorno a me. Tutti contemplano l’atto che sto per realizzare…”
Nell’incontro di Balder e Irene, nella sua atmosfera di mito e pantomima espressionista, si costituisce la coppia primordiale del mondo di Arlt, i suoi Adamo ed Eva: il Mostro e la Vergine. Entrambe le figure sono ancora imperfette. La verginità di Irene sarà negata alla fine e la mostruosità di Balder è discreta, anche se qualche tratto annuncia già il mostro pieno:
“Il suo viso brillava di grassezza cutanea. Era estremamente curvo, il busto piegato in due, il sedere pesante, la cassa toracica contratta, le braccia inerti, i movimenti goffi… grosse rughe cominciarono a disegnarsi sul suo viso. Camminando trascinava i piedi. Visto da dietro sembrava gobbo, se camminava in avanti si sarebbe detto che avanzava su un piano ondulato, tanto ondeggiava per inerzia. I capelli gli scappavano dalle tempie fino a coprirgli le orecchie, vestiva male, lo si vedeva sempre con la barba incolta e le unghie sporche di inchiostro.”
Il Mostro non è un Soggetto, non può esserlo. La chiave dell’inadeguatezza di Balder è restringersi alla soggettività, dalla quale potrà uscire solo mediante un’esacerbazione dell’elemento romanzesco, vale a dire quando il Mostro lo accompagnerà come un Doppelgänger. Abbiamo detto che l’oscuramento parziale della coscienza creava una figura mutilata, contraffatta, nella quale l’artista emigra verso il mondo e lo colora di orrore. Solo allora il soggetto perde la sua trasparenza, l’invisibile abituale scoppia con l’aiuto di un “testimone oculista”, che per il momento Balder cerca a tentoni. Ma si sforza, con una tenacia quasi scientifica. La claudicazione finale, quando rinnega la Vergine, non è altro che un denudamento strategico, per poter ricominciare il compito sotto gli auspici della Ripetizione. Ad ogni modo, il movimento, che Arlt chiama “l’odissea della sua inerzia”, lo porta molto lontano.
Il Mostro non si costituisce senza l’intercessione della Vergine. In lei l’uomo trova un vuoto di rappresentazione. La Vergine non ha piani. È pura superficie di bellezza. Non contiene tempo; è l’Istante. È un enigma, ma lo è perché non nasconde enigmi. Ovviamente, “Vergine” è una parola, il nome che diamo al rifiuto di riprodursi. La Vergine crea il Mostro e così conferma l’uomo nell’eternità dell’individuo, chiudendo o rendendo invisibili per trasparenza i cammini prospettivistici della specie. La rappresentazione è un fenomeno della prospettiva.
L’apparizione della Vergine, tale come accade in Arlt, accade nel Grande Vetro di Duchamp. Dipinta su vetro, un vetro per lo più non dipinto, con un gran buco nel centro o punto di fuga, questa opera si propone, secondo lo stesso Duchamp, come altare della Dea Prospettiva. Gli scapoli, gli “otto stampi maschi”, si proiettano nel cielo della Sposa per effetto del “gas illuminante” (i sette pazzi completeranno da parte loro con l’aiuto di gas letali). E in alto, la Vergine, l’“impiccato femmina”, realizza la sua capriola. È l’ultima e definitiva torsione. La Vergine vuole assistere alla propria verginità, come se l’Istante volesse coincidere con il proprio sviluppo, o l’unidimensionalità piegarsi su se stessa; lo ottiene solo parzialmente, nell’episodio cosmico del suo denudamento, perché non ha altro che la sua essenza come strumento dell’essere, e nella torsione impossibile resta un vuoto, una trasparenza in cui si assenta la prospettiva, e con lei l’artista.
Nessuno ha detto che Duchamp fosse un’espressionista, ma io credo che lo fosse e che con lui l’espressionismo giunga al proprio culmine ed evapori. La prosapia espressionista di Duchamp può essere rintracciata da varie linee. Una è la seguente: nel cinema espressionista, derivato in buona misura dal teatro di Max Reinhardt, l’essenziale è la creazione dello spazio, che non si dà mai per scontato. I suoi autori parlano del “beseelt Landschaft”, o “Landschaft mit Seelt”, paesaggio con anima, ossia uno spazio psicologico, proiettivo (evidentemente Einstein prese da lì la sua concezione della “non indifferente Natura”). Questo spazio si crea attraverso luci, come un’illusione dell’occhio dello spettatore, o attraverso le prospettive truccate dei teloni, o persino attraverso i movimenti dell’attore; il bravo attore espressionista “costruisce lo spazio”. Questo spiega l’abuso di scale di qualsiasi tipo nel cinema espressionista: la scala infatti favorisce “l’espansione del dinamismo dell’attore” e gli permette di creare più spazio, in più direzioni. A tale meccanismo risponde il Nudo che scende le scale, l’opera con cui Duchamp abbandonò la pittura a ventiquattro anni. Non avrebbe smesso di abbandonarla per il resto della sua vita. Era riuscito a creare un interstizio, che da quel momento non si sarebbe più chiuso, nel variopinto spazio mentale espressionista, e da lì sarebbe fuggito senza sosta. La creazione della distanza, nella logica delle contiguità indistruttibili dell’espressionismo, significa una via di fuga.
Questa distanza mobile, spazio-temporale, si trasferisce persino alla percezione dell’opera. Duchamp ha proposto di chiamare “ritardo” i quadri, e il Grande Vetro “ritardo in vetro”. La trama e il senso, l’elemento romanzesco e la spiegazione, sono oggetto di uno sfasamento temporale. Accade lo stesso con l’abbandono, al quale si sovrappone l’opera in un andare e venire transtemporale che sono la vita e il mito di Duchamp.
Il Grande Vetro venne abbandonato a metà. Arlt smise di scrivere romanzi a trent’anni, dato che non dovrebbe essere ignorato. È il Fuge, late, tace delle certose, emblema di tutta l’arte del nostro tempo, in cui l’importante non è tanto farla quanto trovare il modo di smettere di farla senza smettere di essere artista.
Il Mostro era nato da una manovra imprudente della coscienza, verso la quale nell’occasione muove “la volontà impazzita” togliendola dall’incatenamento lineare di cause ed effetti per metterla in “un circolo di fattori enigmatici”. Imprudente, impazzita, enigmatica, la coscienza si identifica con la Vergine. Nel cupo ripiegamento che si produce allora, dove non può mai arrivare nessuno sguardo, la Vergine dà alla luce il Mostro e lo fa smarrire nel mezzo del dubbio, quell’incubo di architetture appiccicate e deformi in cui sarà necessario creare spazio attraverso i procedimenti dell’arte.
Il Mostro è l’unico personaggio. Nel dramma espressionista c’è un solo personaggio, il protagonista, e gli altri sono “Ausstrahiungen seiner Innerlichkeit” (irradiazioni della sua intima essenza). Ma l’unico ha bisogno di compagnia, anche solo per proiettare la propria solitudine. È ciò che Balzac chiamò “quella superstizione tedesca”, il doppio. Non c’è bisogno di cercarlo molto lontano: la coscienza è un accompagnante dell’uomo, un socius, un’ombra proiettata sul mondo. È una specie di nano, di folletto imprevedibile. Arlt lo chiamò “gobbetto”, in quella vetta della sua arte dove racconta l’aneddoto del Mostro e lo mise al suo fianco in una corsa folle: “ma il gobbo maledetto mi seguiva nella mia corsa … simile al mio genio maligno, simile alla mia stessa malvagità che, per materializzarsi, si fosse rivestita dell’abominevole aspetto dello storpio”.
La persecuzione ha luogo in un paesaggio tipicamente espressionista, un paesaggio dell’anima, pura creazione di spazio:
“Per le strade non c’era anima viva, e un chiarore spettrale che scendeva dal secondo cielo, contenuto nelle nubi incurvate, rendeva più nitide le sagome delle facciate e le loro merlature funerarie.
“Per terra non era rimasto nemmeno un pezzo di carta. Sembrava che la città fosse stata cancellata da un esercito di spettri. E nonostante mi trovassi lì, credevo di essermi smarrito in un bosco.
“Il vento piegava con violenza le chiome degli alberi…”
Il vento li trascina, la velocità aumenta senza limiti, l’invenzione e la spiegazione si intrecciano in un vortice a trecentosessantamila chilometri al secondo. Arlt esulta in un ottimismo sinistro, il suo volto si dilata in una risata assassina. E giustamente: ha trovato il Mostro in formato manuale e lo porta velocemente sul campo di battaglia dell’abituale, come strumento di liberazione. È la bomba antisuocera, che tanto ha cercato. Ci sarà un’esplosione e le schegge di mondo diventeranno costellazioni in cui poter leggere il Destino…
Ma quando arriva accade qualcosa di sorprendente. Si materializza la Vergine nell’altezza della trasparenza. “Alta e snella, la mia fidanzata fece la sua comparsa nella sala dorata.” Il Mostro e la Vergine finalmente si affrontano. Fra i due si apre una distanza, la mostruosità della Vergine o la verginità del Mostro, spazio paradossale in cui la spiegazione si dissolve nei suoi stessi acidi. Accade l’inesplicabile. E al tempo stesso accade il capolavoro, Arlt diventa reale e fugge, rinuncia, tace. Si consuma. La spiegazione e l’elemento romanzesco, l’espressionismo e l’impressionismo, il simbolico e l’immaginario, lungi dall’affrontarsi, avevano corso lungo lo stesso continuo, che si consuma nel reale, e il reale e la consumazione si uniscono anche loro al continuo. Arlt muore, a 42 anni, e passa lui stesso allo status di oggetto della coscienza, che l’abitudine renderà impercettibile e misterioso.
Detto altrimenti: la spiegazione e l’elemento romanzesco sono ugualmente infiniti. Entrambi proliferano nella velocità. Il Mostro si sposta sulla cresta dell’onda, come un surfista esperto, ma la spiegazione è il mare. Dopo cambiano posto. Ognuno dei due può essere la velocità sulla quale scivola l’altro. L’inseguimento crea la velocità e la velocità crea la distanza. Allora la contiguità che rendeva mostruoso il Mostro, per mancanza di prospettiva, cede alla creazione di uno spazio. In esso si svolge la letteratura, negli anni, nei libri, nella vita… Ma non eternamente: c’è un momento in cui tutto cessa. La spiegazione tace e dà luogo all’elemento romanzesco secondo, trascendentale: il mito personale dello scrittore, il suo matrimonio mistico. Nell’Istante, in cui tutto diventa improvvisamente reale, a cominciare da ciò che è più misterioso, o l’unica cosa che abbiamo diritto di chiamare Mistero nella nostra professione: la qualità, ciò che rende grande un’opera o uno scrittore, che è definitivamente inesplicabile perché il continuo ha preso altre direzioni, lasciando indietro per sempre la spiegazione. È inesplicabile a tal punto che tutto quanto è spiegabile in un’opera d’arte non fa parte della sua qualità e potrebbe essere eliminato senza farci smettere di amare quell’opera.
Io stesso, proponendomi come esempio di singolarità estenuata dal tempo, mi arrampico sul nastro del continuo e corro dietro al Mostro rivestito della figura irrisoria della spiegazione. Lì posso scegliere tra i possibili del reale, e scelgo, senza nessuna ragione, solo per far girare il “circolo di fattori enigmatici”, la critica “impressionista”. Non più la sventurata proiezione del simbolico, ma la introiezione felice dell’immaginario, la ricezione del cinema muto di Arlt, che mi raggiunge in folate di luce ombrosa, in visioni deliziosamente raccapriccianti: il mulino dei Mostri sulla loro giostra congelata, la Vergine appesa in aria; Duchamp la chiamò Prospettiva, io la chiamo Ispirazione. Esco a cercarla tutti i giorni, in una routine immutabile, nella perfetta trasparenza dell’abituale, nelle strade del mio quartiere, che è quello di Arlt, Flores, nei caffè nei dintorni della piazza e della stazione, dove tutte le mattine vado a scrivere.
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