Il 23 gennaio scorso, dopo aver lottato per quattro anni contro un cancro alla laringe, è morto lo scrittore cileno Pedro Lemebel. Pubblichiamo oggi un ricordo di Francesca Lazzarato, uscito ieri sul manifesto, che ringraziamo.
«Santiago, la loca»
di Francesca Lazzarato
Vestito di bianco, seduto su una sedia a rotelle e avvolto in una delle sue femminilissime sciarpe, qualche settimana fa Pedro Lemebel ha fatto una sorpresa a quanti si erano dati appuntamento per rendere omaggio alla sua vita e alla sua opera con un collage di letture e teatro intitolato Noche Macuca. Commosso e ormai silenzioso per via del cancro alla laringe che dopo quattro anni di ininterrotta battaglia gli aveva rubato la voce, Lemebel ha potuto così congedarsi dai suoi lettori e dalla folla di quanti lo amavano e che lo hanno accolto cantando: Pedro, amigo, el pueblo está contigo. Giusto in tempo, perché colui che viene oggi riconosciuto come uno degli scrittori più significativi del panorama culturale cileno è morto lo scorso venerdì nella clinica dov’era ricoverato da mesi, e sabato è stato accompagnato al Cimitero Metropolitano di Santiago da un corteo in cui non mancavano, come sarebbe piaciuto a lui, musica, canzoni, bandiere rosse, lustrini e petali di rose spontaneamente sparsi dalle pergoleras, le fioraie della Recoleta.
Del corteo faceva parte anche Claudia Barattini, attuale ministro della cultura, che dello scrittore era amica sin da quando Lemebel collaborava a Radio Tierra, una piccola radio femminista fondata nel 1991. E anche la voce di Michelle Bachelet, Presidente della Repubblica, ha salutato un artista «coerente fino al suo ultimo giorno», la cui voce «non ha mai smesso di rappresentare i dimenticati, i molti che si sentono orfani in un paese che non li rappresenta né li accoglie». Simili omaggi, Pedro Lemebel non li avrebbe certo immaginati quando era un bambino poverissimo, nato – come ricorda il poeta argentino Fernando Noy, suo grande amico – «nel fango», ai bordi dello Zanjón de la Aguada, il canale che attraversa Santiago, e cresciuto nei quartieri più miseri e violenti della città, dove la sua omosessualità lo rendeva bersaglio di feroci prese in giro e frequenti pestaggi.
Capace di conquistarsi una laurea in “arti plastiche” nonostante fosse destinato a diventare un operaio, e rapidamente cacciato – per via del suo aspetto femmineo che non esitava a sottolineare con il trucco e gli abiti – dalle scuole in cui aveva cominciato a insegnare, Lemebel si è rivelato, verso la fine degli anni Ottanta, come un artista visuale di considerevole potenza: insieme a Francisco Casas, con il quale aveva fondato il collettivo Las Yeguas del Apocalipsis, e mentre la dittatura di Pinochet ancora dominava il paese, percorreva Santiago per dare vita a performances audacissime contro la violazione dei diritti umani e la cultura ufficiale, evocando apertamente i desaparecidos e le infamie del regime, ma presenziando anche alle manifestazioni della sinistra, per rivendicare la propria differenza e il diritto a viverla pienamente e fuori da ogni ipocrisia (celebre è rimasto il suo l’intervento, nel 1986, a uno dei primi convegni del partito comunista, quando apparve con i tacchi alti e coperto di lustrini, una falce e martello dipinta sul viso, per leggere una lunga poesia-manifesto, «Hablo por mi diferencia»).
Documentate da video e foto, quelle memorabili “azioni” – che a partire dal 1997, sciolto il collettivo, Lemebel ha proseguito da solo finché la malattia glielo ha permesso – di recente sono state oggetto di una giusta rivalutazione e al centro di grandi mostre a Città del Messico, Madrid, Lima e San Paolo, a proposito delle quali il curatore Gerardo Mosquera sottolinea: «Sono opere forti, creative, che in quel momento erano davvero necessarie».
Opere intensamente politiche, soprattutto, perché come ha ricordato Carlos Monsiváis nel presentare Lemebel alla Fiera del libro di Guadalajara, nel 2001, tutta la sua attività di scrittore e di artista è così strettamente intrecciata alla militanza da esserne indistinguibile. A dimostrarlo c’è, in particolare, la sua opera letteraria (apprezzatissima da Roberto Bolaño, che cercò di diffonderla in Europa, e in parte ci riuscì): un incantevole romanzo , Ho paura torero (Marcos y Marcos, 2004), e soprattutto le otto raccolte di crónicas uscite tra il 1995 e il 2013, dopo un esordio favorito da scrittrici come Diamela Eltit e Pía Barros, e che restano praticamente ignote in Italia, a parte la breve antologia pubblicata nel 2009 da Marcos y Marcos con il titolo Baciami ancora, forestiero. La scelta di una forma come la crónica, oggi esageratamente di moda in America Latina e spesso adoperata in modo maldestro, non deve però trarre in inganno: Lemebel è molto più scrittore che giornalista, ci restituisce la realtà urbana della Santiago più desolata e periferica (quella degli emarginati, della locas ammalate di Aids, dei travestiti, dei sottoproletari) attraverso una reinvenzione costante, uno sguardo autobiografico e una splendida prosa neobarocca, caustica e violentemente risentita quanto immaginosa e poetica, piena di invenzioni linguistiche e di localismi suggestivi, che la rendono «più vera del vero», ben diversa da quella che oggi filtra compostamente da crónicas impeccabili e oggettive, ma «di design» (la definizione è dello stesso Lemebel), senza sangue né corpo.
Perché sta nel corpo, non ci sono dubbi, la forza di Lemebel: in un corpo travestito, dipinto, ornato, sofferente, pieno di cicatrici, traboccante di dolori e di passioni. Un corpo esibito come messaggio di rivolta, come il veicolo della rabbia senza riguardi e senza peli sulla lingua di qualcuno che aveva «la periferia incollata alla pelle», che non si inchinava a nessuno e che non era mai stato addomesticabile, nonostante i media avessero tentato in tutti i modi di trasformarlo in un personaggio fokloristico, nel «gay di corte», in una sorta di buffone alla moda. Ma, diceva Lemebel, la società borghese non sarebbe mai riuscita a cooptarlo tramite «la miserabile elemosina dei diritti civili»: la sua scelta era quella di essere «così rossa, così frocia, così piena di risentimento da collocarmi in un territorio arcaico dove non possano raggiungermi con la loro beneficienza ortopedica di uguaglianza sociale».
Il suo Cile periferico e dolente, marginale ed escluso, ha risposto a tutto questo con travolgente amore: non per niente Lemebel era uno dei pochi scrittori al mondo che non potevano camminare per strada senza essere fermati e abbracciati non dai molti intellettuali di cui pure aveva contribuito a mutare il punto di vista sulle cose e sul mondo (e ai quali aveva dato più di una lezione, rifiutandosi di rinunciare alla memoria e di adattarsi all’ipocrisa della concertación), ma dalla gente come lui, nata «nel fango».
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