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Perché non sono femminista: una conversazione con Jessa Crispin

Jessa Crispin Autori, BIGSUR, Interviste

Perché non sono femminista di Jessa Crispin è un pamphlet sul femminismo moderno, che nel suo sforzo di essere il più inclusivo e universale possibile, ha perso la sua carica rivoluzionaria quando dovrebbe immaginare nuovi valori e nuove pratiche per costruire un progetto completamente diverso, insieme collettivo e radicale.

Questa intervista alla scrittrice è stata pubblicata originariamente su The Pantograph Punch e viene qui riprodotta per gentile concessione dell’autrice.

di Sarah Jane Barnett
traduzione di Dario Matrone

Il nuovo libro di Jessa Crispin, Perché non sono femminista. Un manifesto femminista, è stato definito «un violento rifiuto del femminismo contemporaneo». Con un titolo del genere era destinato a scatenare polemiche. L’autrice e critica americana – ha fondato il popolare blog di libri Bookslut, attivo dal 2002 al 2016, e la rivista letteraria Spolia – non ama i giri di parole: in un’intervista ha espresso il proprio disinteresse per la letteratura americana e il proprio disprezzo per la cultura dei master in scrittura creativa.

Perché non sono femminista è il terzo libro di Jessa Crispin (i primi due sono stati The Dead Ladies Project e The Creative Tarot). Ha ricevuto recensioni contrastanti: quasi tutte hanno lodato l’ingegno «acuto» di Crispin e il suo atteggiamento «sfrontato», ma i recensori hanno anche osservato che le sue idee hanno bisogno di essere approfondite; in pratica, non fornisce risposte.

La nostra editor Sarah Jane Barnett si è incontrata con Jessa Crispin per parlare di liberazione, strutture alternative e oppressione maschile.

 

Sarah Jane Barnett: Puoi dirmi qualcosa della tua infanzia, e se il femminismo ne ha fatto parte? Quand’è stata la prima volta che ti sei detta: «Sono femminista»?

Jessa Crispin: È un po’ che cerco di risalire al momento in cui ho davvero iniziato a capire cos’era il femminismo. Deve essere stato quando avevo vent’anni o poco più. Sono cresciuta in una città molto conservatrice, in una famiglia molto conservatrice, e per questo all’epoca la mia sola vera coscienza politica si traduceva in «tutto tranne questo». Al catechismo mi insegnavano che l’omosessualità era un peccato e l’aborto un omicidio eccetera eccetera, e io istintivamente sentivo che tutto questo moralismo religioso era sbagliato.

Ma è stato soltanto quando me ne sono andata dal Kansas e ho cominciato a lavorare alla Planned Parenthood [organizzazione no profit che si occupa di aborto, diritti riproduttivi, educazione sessuale, n.d.t.] che ho capito cosa significava il femminismo. Ho capito che non era soltanto una questione di difendere e aiutare le donne, era un’ideologia che offriva una possibilità di rifondare il mondo. È stato importante, credo, che la mia introduzione intellettuale al femminismo – fondamentalmente, la lettura di un’intera biblioteca di materiale femminista, dai libri di testo di ginecologia agli scritti di Margaret Sanger alle pensatrici radicali della Seconda Ondata – abbia coinciso con un lavoro pratico sui diritti delle donne. È stato importante avere una comprensione astratta e una concreta del problema.

 

SJB: Il titolo Perché non sono femminista sembra volutamente provocatorio: la maggior parte delle femministe (me compresa) non può restare indifferente di fronte a una donna che fa un’affermazione del genere. Stai cercando di spronare le femministe a riflettere sulla loro definizione di femminismo? Pensi che ci siamo ammorbidite troppo, o, come ha scritto qualcuno, che abbiamo «perso gli artigli»?

JC: Io penso che la parola sia diventata talmente priva di significato per via di tutte le persone che la usano contro di noi – e mi riferisco alle popstar che la usano per vendere dischi, agli uomini che la usano per farsi una scopata, alle donne politiche che la usano per farsi eleggere, alle dirigenti d’azienda che la usano per giustificare la loro carriera, e così via – che è necessario ripensare daccapo cosa significa il femminismo. Non per ciascuna di noi individualmente, ma per tutte le donne.

In un certo senso, il libro non fa altro che ripercorrere il modo in cui sono arrivata al femminismo e a riflettere sul femminismo, come ho costruito criticamente la mia idea di femminismo a partire dall’uso che della parola fanno le donne ricche o gli antiabortisti o Taylor Swift.

 

SJB: Un aspetto del femminismo moderno che critichi è la retorica del «viziarsi senza pudore», in virtù della quale la cura di sé viene venduta come una cosa equivalente all’autodeterminazione. O, come sostiene il New Yorker: «La minaccia interna al femminismo nel 2017 non è tanto il disconoscimento di certe idee radicali quanto una vuota adozione di certe apparenze radicali: un’omologazione superficiale, dettata da motivi di mercato, che serve a far sentire le donne a posto con la coscienza piuttosto che spingerle all’azione politica che il femminismo dovrebbe stimolare».

Questa mercificazione del femminismo – usare il movimento per vendere riviste e giornate alla spa – mi ha fatto pensare a come lo yoga è stato mercificato dall’Occidente, o a come la cultura delle diete si è rivenduta come movimento del «mangiare pulito». Dimmi cosa pensi del rapporto tra il femminismo e le strutture del capitalismo.

JC: Man mano che le donne accedono ai livelli più alti della forza lavoro, il capitalismo si rivolge sempre di più alle donne. E il modo migliore di cui una grande azienda dispone per convincere una donna a darle i suoi soldi è adularla. Perciò questo eyeliner non è più un semplice eyeliner, diventa un riflesso del tuo io interiore, uno strumento di emancipazione. È l’idea che con i soldi si possa comprare la propria liberazione o la propria partecipazione politica. Non c’è bisogno di fare volontariato, basta una donazione. Non c’è bisogno di lottare per i diritti delle donne se stai lottando per i tuoi diritti individuali.

Per quanto riguarda la «cura di sé», quando si usa il termine per giustificare una manicure o una giornata alla spa, è importante ricordare che non sei tu che ti stai prendendo cura di te: qualcun altro, probabilmente un immigrato che prende il minimo salariale, lo sta facendo al tuo posto. È importante ricordare che nella nostra ricerca di «cure» rischiamo di sfruttare manodopera sottopagata, e che in molti casi quella che chiamiamo cura è soltanto autoindulgenza.

 

SJB: Spesso ho l’impressione che le mie scelte familiari riflettano decisioni che la società mi ha imposto. Mi occupo di quasi tutte le faccende domestiche e per anni sono stata principalmente io a prendermi cura di nostro figlio. Mio marito lavora a tempo pieno, mentre io sono costretta a comprimere la mia carriera in pochi giorni alla settimana. Da quando è nato nostro figlio, la carriera di mio marito è avanzata mentre la mia è rimasta al palo, anche se nessuno di noi due vorrebbe che le cose andassero così.

Queste esperienze avvalorano la tua tesi, che le donne lottano per l’uguaglianza in un sistema/struttura che è intrinsecamente basato sulla disuguaglianza; che ciò di cui abbiamo bisogno è liberarci dalla struttura stessa. Il problema è: come possiamo liberarci e contemporaneamente sopravvivere nella struttura attuale? Dove sono le strutture alternative?

JC: Hai perfettamente ragione: esistono poche strutture alternative per sostenere le donne, in particolare le mamme. Se non si è una coppia, per crescere un figlio ci sono pochissime infrastrutture di supporto, se non nessuna. In America almeno, non è prevista un’assistenza all’infanzia sovvenzionata, il sistema sanitario è una barzelletta, e così via. Ma non è soltanto il welfare state a essere carente. È proprio il nostro modo di prenderci cura gli uni degli altri. Viviamo in comunità sempre più frammentate, con pochissimo senso dei doveri comuni, e questo significa che anche dal punto di vista psicologico siamo le uniche responsabili della crescita dei figli. Non c’è l’idea che il tuo bambino appartenga a tutti, non c’è l’idea di mettersi tutti insieme e aiutarsi.

Pensa a un semplice fatto: le persone single hanno maggiori probabilità di morire dopo una diagnosi di cancro, a parità di tutti gli altri fattori. Non è certo perché i single abbiano un sistema immunitario più debole! È perché non hanno nessuno che li sostenga e protegga continuativamente. Nessuno che vada a controllare che non siano svenuti a terra in bagno. Nessuno, a meno che non possano permettersi un’infermiera privata, che controlli se prendono correttamente le medicine.

Siamo abituati al fatto che questo tipo di cure sia solo il partner a fornirle; analogamente, negli Stati Uniti è più facile avere accesso all’assicurazione sanitaria tramite un coniuge con un buon lavoro, così come per un immigrato è più facile ottenere la cittadinanza attraverso il matrimonio, e così via. Se uno non vuole arrendersi alla tirannia di quest’idea di coppia, o se viene emarginato per via dell’aspetto fisico, della razza, dell’età, della povertà o per qualsiasi altro motivo, si trova letteralmente da solo.

Sogno di costruire delle città per le donne che vogliono vivere al di fuori di questo paradigma eterosessuale, come dei conventi ma senza il requisito dell’astinenza sessuale. In cui le donne (e gli uomini, perché no) abbiano un senso degli obblighi reciproci, in cui ognuno si faccia carico del lavoro degli altri. In cui ci si sostiene a vicenda, economicamente, sessualmente, emotivamente. In cui tutti offrono le proprie cure e tutti le possono ricevere (e non nel senso della donna che ti fa la manicure). Ma io sono soltanto una donna single, vulnerabile ed emarginata, per cui non ho i soldi per costruire queste città.

 

SJB: Parliamo degli uomini. Smantellare le strutture di oppressione delle donne vuol dire smantellare anche le strutture di oppressione degli uomini; conosco uomini che sentono di avere poca libertà di scelta riguardo il loro ruolo di genere. Per esempio, gli uomini spesso non ricevono nessun sostegno strutturale per fare i papà a tempo pieno, oppure sentono la pressione di dover essere quelli che portano i soldi a casa, oppure, cosa che succedeva soprattutto nel ventesimo secolo, di dover andare in guerra.

JC: Sì, sono d’accordo. Anche gli uomini sono oppressi dal patriarcato. Loro si trovano in una posizione leggermente più insidiosa, però, perché in buona sostanza gli viene chiesto di rinunciare al loro potere. Una cosa è una categoria emarginata che lotta per il potere. Dà soddisfazione, è una cosa che tutti vogliono. Invece, chiedere a una categoria privilegiata di rinunciare al potere… Come si fa? In particolare quando, a causa della crisi economica, gli uomini non si rendono conto fino in fondo di quanto potere hanno.

Io credo che gli uomini debbano arrivare a capire il loro ruolo nel patriarcato. Non è che le donne l’abbiano capito tutto da sole, un bel giorno. Ci sono voluti scrittori come Mary Wollstonecraft e John Stuart Mill per iniziare a vedere il problema ed esaminarlo. Secondo me nel campo delle idee deve iniziare di nuovo quello stesso processo, e finora non mi sembra stia avvenendo, non in modo veramente significativo.

Poi deve esserci una sorta di sviluppo dell’androginia negli uomini. Noi donne è più di un secolo che sviluppiamo il nostro lato maschile. Non mi sembra però che ci sia un movimento in tal senso tra gli uomini. Certo, ci sono dei singoli individui, ma nemmeno il femminismo o il mondo gay sembrano aver influito sulla visione che gli uomini hanno di sé stessi.

Hanno tutta la mia comprensione. È un lavoro tosto quello che dovranno fare. E credo che sia un lavoro di vitale importanza. A un certo punto, spero presto, raggiungerà una massa critica, ma se si guardano gli effetti collaterali di questa perdita di potere – gli omicidi di massa, il terrorismo, le aggressioni sessuali – si capisce quanto lavoro c’è ancora da fare e anche quanto la gran parte degli uomini sia restia a farlo.

 

© Sarah Jane Barnett, 2017. Tutti i diritti riservati.

 

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