Octavio Paz, Julio Cortázar e Alberto Gironella
Pubblichiamo oggi una lettera di Julio Cortázar a Octavio Paz, estratta da Carta carbone.
Inauguriamo con questo post una serie di approfondimenti su Octavio Paz in occasione della pubblicazione di Anch’io sono scrittura e del centenario della nascita dell’autore, che si celebrerà il prossimo 31 marzo.
traduzione di Giulia Zavagna
A Octavio Paz
Parigi, 31 luglio 1956
Mio caro Octavio,
ho appena finito di leggere – in gran parte rileggere e per fino arcileggere – L’arco e la lira. Voglio scriverle oggi stesso queste righe, la cui trascuratezza spero mi sarà perdonata in nome dell’entusiasmo che le motiva. Sia chiaro, prima di tutto, che posso vantare svariate letture in campo poetico, in parte perché vivere in Francia equivale a vivere nella fucina centrale di tali attività, e in parte perché a suo tempo sono stato anch’io colpevole (so bene perché mi definisco tale) di esercizi di questo genere. Tutto ciò che provo dopo la lettura del suo libro non è, quindi, il prodotto di una scoperta o di una rivelazione. Al contrario, ho riconosciuto molte volte le influenze (quelle sotterranee, che scorrono in profondità) e le intenzioni che hanno dettato il suo testo, che in alcuni casi ho condiviso e in altri no. Le dico questo perché abbia la certezza che l’entusiasmo, l’ammirazione e l’allegria che mostro nei confronti della sua opera non sono la semplice reazione di un novizio ma il riconoscimento – finalmente – di un lavoro profondo e completo su qualcosa che è senz’altro una delle passioni dell’uomo, se non addirittura la sua passione più grande.
Octavio, credo che lei abbia mostrato nel suo libro quella che considero la caratteristica più profonda del pensatore, del saggista latinoamericano – e in particolare messicano e argentino. Mi riferisco alla possibilità che ci è stata data (e della quale ancora facciamo un uso ridotto) di conoscere ed esplorare un tema da tutti i punti di vista possibili, senza ridursi inevitabilmente a un’unica linea di pensiero, a una cultura determinata, che è il fatale destino degli intellettuali europei. Leggendo il suo libro ho pensato molte volte alla raccolta analoga dell’abate Brémond (e ai relativi saggi scritti da Robert de Souza e altri),[1] e mi sono reso conto ancora una volta di come l’ambito da lei trattato si traducesse in risultati infinitamente più profondi e fecondi proprio grazie al suo modo di pensare, frutto di una preparazione e un’esperienza molto più universali. E forse è proprio questa fertilità a interessarmi più di tutto il resto, perché la nozione di profondità è ormai sempre più relativa e può dipendere, nel mio caso, da una maggiore simpatia per il punto di vista chiaramente metafisico da lei adottato nel suo libro. Quando in un’opera di questo genere si riesce a far convergere una gamma così vasta di esperienze, a unire Europa, Asia e America in una sintesi dettata da una lunga meditazione, i risultati non possono che essere evidenti. Dall’inizio alla fine, L’arco e la lira è un crescendo in ricchezza, complessità e bellezza. E lei, poeta, e tra i migliori (sono molto felice di averlo detto, almeno una volta, ai lettori argentini),[2] è stato artefice in questo caso di qualcosa di davvero inconsueto, di così raro che si manifesta solo in casi eccezionali: l’esercizio di una dialettica, la messa in opera di una critica e di una ricerca sistematica unite all’infaticabile cura del poeta, con quella sua tendenza così incantevole al climax improvviso, a concludere un paragrafo o un capitolo con una pioggia di immagini imperiosamente necessarie. (Shelley, mi pare, riuscì a fare qualcosa di simile nella sua Defense of Poetry; e Keats, in molte delle sue lettere, e Mallarmé, nelle sue Divagations. Ma noti che nomi le sto citando…)
Credo che di tutto il suo libro la parte più affascinante sia la prima, ovvero i capitoli intitolati «La poesia» e «La rivelazione poetica». Ciò che ha scoperto sul ritmo mi sembra magnifico. Non so se «scoperto» sia l’espressione giusta; senz’altro lo è dal mio punto di vista, perché dopo aver letto migliaia di pagine sul ritmo, non mi sono mai imbattuto in un’intuizione di simile portata: il fatto che il ritmo sia il significato di qualcosa, e che non sia misura, ma tempo originale. E visione del mondo, e immagine del mondo. Una volta compreso questo (e ora mi sembra di iniziare a capirlo, finalmente) crollano fragorosamente migliaia di capitoli retorici, di vaghi scheletri scolastici fino a oggi sopravvissuti. Lo stesso posso dirle del capitolo che tratta «l’immagine», che è di una ricchezza a tratti vertiginosa. Quello e tutta la parte intitolata «L’altra riva» sono per me i momenti fondamentali del suo libro, le grandi notizie che ci dona da estreme altitudini e profondità.
Ho provato a mostrare alcuni passaggi del capitolo «Verso e prosa» a un eccellente amico spagnolo che vive immerso in un mondo di stereotipi, e mi ha provocato un piacere a dir poco perverso vederlo rimanere assolutamente allibito di fronte alla nozione del carattere artificiale della prosa paragonato al naturale fluire del linguaggio ritmico, poetico. Il problema è che nelle scuole ancora si insegna, e si continuerà a insegnare, il paradigma contrario; in questo senso, il suo intero libro ha un valore di rottura, di definizione finalmente chiara e precisa della poesia come un’attività umana elementare, come la conoscono e la sentono e la praticano e la desiderano tutti i poeti.
Suppongo che il suo libro non sia stato scritto interamente nell’ordine in cui lo riceviamo ora noi lettori; a volte, nella seconda parte, si ha l’impressione che vi siano alcune ripetizioni, come dei ponti costruiti per unire delle isole e dar loro qualità di terra ferma e continua. Non si tratta certo di difetti, poiché ciò che conta è la somma delle molteplici meditazioni che hanno permesso la costruzione dell’opera, dandole il suo senso ultimo. In ogni caso, continuo a credere che le prime due parti basterebbero per fare di questo testo il miglior saggio (e la parola non rende giustizia) sulla poetica che sia mai stato scritto in America. Questo libro riduce tutti gli altri lavori paralleli a mere monografie. Le ho già detto che questa lettera è dettata dall’entusiasmo, quindi non si allarmi se mi permetto simili classificazioni. Credo profondamente in ciò che dico, e non è da me sminuire qualcosa di cui sono fermamente convinto.
(Un’altra cosa che ho apprezzato molto: gli «episodi» legati all’opera o al senso dell’opera di alcuni poeti. Mi riferisco a Eliot, a Pound, a Whitman e soprattutto alle pagine sul surrealismo, che sono estremamente appropriate ed esatte.)
Potrei dirle molte altre cose, ma questa lettera non è una recensione né pretende altro se non ringraziarla per il suo libro, che sono certo inciderà profondamente sul pensiero e sulla sensibilità di ogni lettore che si rispetti. Scriverò a tutti i miei amici argentini di leggerlo. So che due o tre di loro andranno su tutte le furie una volta arrivati a «La rivelazione poetica» – per ragioni di ordine teologico. Tuttavia, le considero persone intelligenti, quindi è possibile che anche a loro faccia bene la lettura del suo libro.
Grazie, Octavio, per avermi mandato la sua opera. Mi scriva quando può, mi racconti i suoi piani e se pensa di fare un salto a Parigi. Delle persone che conosce posso dirle che vedo spesso Sergio, che sta dipingendo come un vero leone (un leone zodiacale, magnifico). Ho perso di vista Serrano Plaja.[3] Abbiamo così poco da dirci… Credo che a fine ottobre andrò in India con l’Unesco. Mia moglie e io ne approfitteremo per fermarci un mese e mezzo e visitare tutto il possibile nel poco tempo che abbiamo. Degli amici messicani (che conosco solo via lettera, per le loro attività o per le cose eccellenti che scrivono) ho già una sorta di nostalgia futura, vale a dire che mi mancano senza che li abbia mai conosciuti personalmente. Alludo a Fuentes, ad Arreola, agli Alatorre. Se ha occasione di vedere Emma Susana Speratti, le dica che mi deve una lettera e che sono un creditore implacabile (almeno come quelli di Balzac). Un’ultima cosa: a pagina 53 del suo libro, dice che «L’operazione poetica non è diversa da un incantesimo… e il comportamento del poeta è molto simile a quello di un mago». Non ha poi approfondito questo concetto, perché le interessava di più precisare le differenze tra magia e poesia. Per quanto mi riguarda, trovo la questione molto affascinante, e nel numero 7 de La Torre (Università di Puerto Rico) ho scritto alcune «Note per una poetica» in cui tratto proprio questo argomento. Glielo segnalo perché forse potrebbe interessarle.
Mia moglie non la conosce ma già la considera un caro amico. E io le mando tutto il mio affetto e un forte abbraccio,
Julio Cortázar
Ecco il mio indirizzo: 24 bis rue Pierre Leroux, Parigi 7.
[1] Riferimento a La Poésie pure di Henri Brémond (tradotto da Cortázar per le edizioni Argos, Buenos Aires 1947), che conteneva il saggio di Robert de Souza «Un Débat sur la poésie».
[2] Allusione alla sua recensione di Libertad bajo palabra, Sur, n. 182, dicembre 1949.
[3] Arturo Serrano Plaja (1909-1979) fu uno scrittore e poeta spagnolo, appartenente alla cosiddetta Generazione del ’36.
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