Continua il viaggio di Marco Cassini negli Stati Uniti per i 100 anni di Lawrence Ferlinghetti. Pubblichiamo oggi un nuovo episodio del suo diario.
[clicca qui per leggere l’episodio precedente]
Sei
martedì 26 marzo, ore 18.00
«Pronto?»
«Ciao Lawrence, auguri!»
«Hey, Marco, come stai? So che sei al San Remo, qui vicino casa mia».
«Sì, sono venuto qua perché so che è un posto che ti piace, me lo consigliasti tu la prima volta che sono venuto a San Francisco molti anni fa…»
«È vicinissimo a casa mia. Ma mi dispiace, non posso proprio passare a trovarti, sono molto malato».
«Figurati, in caso sarei passato io. Eppure la tua voce è squillante, ti sento di buon umore!»
«Sì ma non sto per niente bene. Non ho potuto andare a nessuno degli eventi in mio onore che ci sono stati in questi giorni».
«Eh lo so, io sono stato a tutti, e sia Nancy sia Elaine e tutti gli altri a City Lights mi avevano già informato che non avresti potuto partecipare. Ma sono stati bellissimi ugualmente».
«Grazie».
«No grazie a te, Lawrence. Anzi, ti ho chiamato perché volevo ringraziarti di avermi dato l’opportunità di pubblicare un altro tuo libro, per me è stato molto importante essere ancora il tuo editore italiano, dopo tanti anni. Ormai sono più di vent’anni che pubblico i tuoi libri ma era passato parecchio tempo dall’ultimo. So che Mauro ti ha letto la mia nota…»
«Sì, è molto bella, grazie!»
«Ci tenevo che la leggessi prima di mandarla in stampa perché volevo essere sicuro di aver scritto qualcosa che ti piacesse».
«Sì mi è piaciuta molto, hai raccontato molte cose».
«Molte cose che abbiamo fatto insieme, sì. Domani riparto per l’Italia, quindi speravo di riuscire a salutarti prima di partire. Posso provare a chiamarti domattina e se stai meglio passare a farti un saluto».
«Non credo proprio che sarà possibile, sto molto male».
«Mi dispiace sentirtelo dire, ma ti sento davvero bene. E tutti ti avranno raccontato che è stata una bellissima festa. Sono felice di esserci stato, grazie».
«Grazie a te, Marco, ciao!»
«Ciao, Lawrence, buon compleanno».
Sette
Ci sono le cose belle che finiscono quando meno te lo aspetti e quelle che sai fin dall’inizio che finiranno. Se le prime ti lasciano incredulo, devastato, le seconde riescono a volte a coglierti comunque di sorpresa. Sapevo benissimo che oggi avrei affrontato l’ultima giornata di questo viaggio. Eppure mi sono svegliato come se fosse un dispiacere inaudito, come se dovessi aspettarmi un bonus, un regalo, un extra time. Per certi versi è arrivato, perché mentre me ne andavo verso il Caffè Trieste (e devo dire che per tutto il tragitto sono stato occhieggiato dalle vetrine, dai tavolini, dalle insegne, dalle vetrinette di pastry di altri bar ma la mia fedeltà è granitica e non mi sono lasciato tentare) mi è arrivato un sms della compagnia aerea che mi avvisava del ritardo di due ore del mio volo in partenza da San Francisco verso Los Angeles. Questo complica un po’ le cose e ha complicato un po’ anche la mia colazione perché queste due ore di ritardo mettono seriamente a repentaglio la possibilità da parte mia di riuscire a prendere il volo da Los Angeles a Fiumicino. Ma, se devo interpretarla come una chance di un extra time, be’ allora se perderò quella coincidenza di tempo in più ce ne sarà un bel po’. Ho fatto le telefonate necessarie ma ovviamente le compagnie (Alitalia che ha emesso i biglietti e Delta che opera i voli) si sono rimbalzate specularmente la responsabilità. Non sono riuscito a capire cosa sarà di me, del mio volo, del mio bagaglio, ma ho capito di aver conquistato un paio d’ore di San Francisco in più. E poi se perdo il secondo volo, si vedrà.
Mentre cerco di riconquistare il tempo prima ritrovato e poi di nuovo perduto, durante le mie telefonate e le musichette di attesa, intorno a me il bar si è riempito come mai in tutti i giorni precedenti, con molte facce nuove, parecchie facce note (il settore settuagenari è popolatissimo, è tornato anche Augias/Updike ma non c’è traccia della mamma di Julie/Giulia, il tavolo mosaicato è stato occupato posto dopo posto da persone che apparentemente non si conoscevano ma ora stanno commentando animatamente qualche notizia del quotidiano aperto davanti a uno di loro. Ho provato ad avventurarmi verso territori sconosciuti nella vetrinetta delle brioches ma mal me ne incolse (chi lascia la strada vecchia…) e questo cornetto alla mandorla ha quell’avangusto di sapone di Marsiglia che per me ha quasi tutto ciò che è fatto con la pasta di mandorla (credevo la presenza di mandorle si limitasse allo strato superficiale di scagliette abbrustolitine). Finalmente, l’ultimo giorno, mi riconoscono (la differenza appena percettibile fra good morning sir e how are you today sir) e il barista come mi vede arrivare mi dice subito, prima che debba chiedergliela, la password del wifi, che cambia ogni giorno. Dopo due morsi devo rinunciare a farmi rovinare quest’ultima colazione dal sapore di Marsiglia e appena l’udito si è liberato dall’invadente voce di Bocelli, decido di fare una seconda fila al bancone e prendere un saccottino al cioccolato. Ieri il programma per i festeggiamenti del centenario prevedeva l’ultimo incontro, la presentazione alle 19 del libro The People vs Ferlinghetti, il motivo per aver preso un volo di ritorno oggi. (C’è un volo di uccelli che attraversa adesso con precisione geometrica la diagonale esatta di tutta la vetrina che prende l’intera parete frontale del bar, e poi ricompare per un rapido momento in alto, nelle finestre in cima alla parete laterale – alla mia destra oggi, dal momento che ho riconquistato il mio angolo – fra i due piccoli murales rettangolari che raffigurano Piazza Unità d’Italia e Canale di Ponterosso, poco più su nella parete della panca e della foto del famoso attore Burt Lancaster.)
Finita la telefonata con Lawrence (tre minuti e trentatré secondi, dice il registro delle chiamate sul mio cellulare) ieri mi ero messo subito a trascriverla per non dimenticare nemmeno una parola, dato che sarebbero state le uniche che ci saremmo detti in questo viaggio, e forse (il pensiero non è facile da verbalizzare ma ovviamente mi ha ben più che soltanto sfiorato) le ultime scambiate con lui per sempre. Credo di averla riportata fedelmente, e nel rileggerla sono stato indeciso se essere felice della telefonata o triste per non riuscire a incontrare Lawrence. Terminata la trascrizione, per riscuotermi un po’ mi sono messo a preparare la valigia: primo strato (e secondo e terzo) i libri comprati in viaggio (rispetto ai miei standard abituali, che prevedono il riempimento di una valigia in più portata vuota ad hoc, ero convinto di essermi decisamente limitato stavolta ma ho contato comunque un totale di ventidue acquisti) poi i vestiti, le bozze, e quello strano mix del viaggiatore aperto a più opzioni: cappello di lana e costume da bagno. Ho risistemato la valigia nell’armadio, mi sono messo la camicia blu monoprix e mi sono avviato verso City Lights: manca qualche minuto alle sette, ma da qui alla libreria sono pochi isolati. A mezzo block dal San Remo in direzione Columbus Avenue mi squilla il cellulare, è una telefonata su whatsapp, per fortuna non mi sono allontanato un passo di più altrimenti il wifi dell’hotel non mi avrebbe raggiunto. È Mauro, l’assistente di Lawrence. Torno indietro e mi siedo nel divanetto all’ingresso del San Remo. Ma devo fare una pausa per dirvi di questa canzone che arriva adesso dal juke box. È una canzone che conosco benissimo e posso canticchiare tra me e me, ma solo mugugnando la melodia perché non conosco una sola parola del testo, pur avendola sentita centinaia di volte. Chiedendo scusa a Krukowski, invece di limitarmi a guardare analogicamente il numero della canzone sul juke box decido di attivare Shazam perché la canzone sta per finire e temo di non arrivare in tempo a scoprire titolo e nome della band senza un aiuto digitale. E così scopro che la canzone è «Under the Boardwalk» dei Drifters, e sono certo che non sono moltissimi quelli che senza andare a questo link potrebbero dire solo dal titolo e dal nome della band di aver capito di che canzone si tratta (mentre, appena si aprirà Youtube, la reazione – subito dopo il fastidio per lo spot pubblicitario – sono pronto a scommetterci sarà un «Ah certo»). La canzone è del 1964, incidentalmente l’anno in cui Ferlinghetti pubblica Routines e John Barth è al lavoro a Giles ragazzo-capra, quel romanzo così grosso da potergli permettere di coronare il sogno di un libro in cui l’editore possa stampare il suo nome sul dorso in orizzontale anziché in verticale (ma gli piace vincere facile anche perché nome e cognome sono in tutto solo due sillabe). E di cosa parla la canzone? Be’ è una canzone d’amore e ovviamente è ambientata in un posto con un luna park in riva al mare, un po’ come fosse, che so, Ocean City, o Coney Island. E insomma dopo questo breve stacco musicale eccoci di nuovo in studio, o meglio ancora sul divanetto del San Remo, dove la telefonata con Mauro è molto lunga e articolata, lui è un re dello storytelling quindi mica arriva subito al sodo, mi riproduce 1:1 quello che è successo subito dopo la mia chiacchierata con Lawrence, incluse le pause, i silenzi, le facce buffe, gli spezzoni di dialogo e una serie di considerazioni a latere. E la conclusione, molti minuti dopo, è che insomma in fondo Lawrence è dispiaciuto (o Mauro lo ha indotto a riconoscere di esserlo…) che io sia venuto fino a San Francisco dall’Italia per il suo compleanno e che non siamo riusciti a vederci, e così ha chiesto a Mauro di richiamarmi per provare a fissare un incontro. «Sono in macchina a un isolato dal San Remo», conclude, «se sei pronto passo a prenderti e andiamo da lui». Il resto è una visita, tanti abbracci affettuosi, ci rivediamo dopo sei anni, e quasi un quarto di secolo dalla prima volta che ci siamo incontrati. Anche stavolta non c’era bisogno di foto, di registrazioni, di souvenir, il cellulare è rimasto sempre in tasca, era una visita analogica. E anche se questo potrà sembrare un anticlimax per un diario che ho deciso di rendere pubblico, non credo abbia senso scriverne. Così come la foto che Mauro ha scattato a me e Lawrence l’ho condivisa solo con alcuni amici in forma privata e non ha senso metterla qui. E non ha senso dire che ricordi abbiamo tirato fuori con lui, di che libri abbiamo parlato, di cosa abbiamo riso e così via.
La canzone che arriva dal juke box per i titoli di coda di questo diario è perfetta, la conosco benissimo e la mugugno con tutte le intonazioni e le pause giuste e anche di questa non so il titolo, il compositore, chi la canta. So solo che è la colonna sonora di una commedia romantica americana, l’unica sensazione che ho chiara in questo momento non sono la trama e gli attori, ma un filtro technicolor. Ma anche ora preferisco che il telefono resti in tasca, non mi va di usare Shazam, me la canticchierò in testa tutto il giorno e per qualche giorno ancora fino a che non mi arriverà l’illuminazione, e ci troverò oppure no degli altri riferimenti, quegli imprevisti e pazzeschi collegamenti da serendipity che producono le accelerazioni dei sensi e dei pensieri che sono uno dei più efficaci combustibili per la mia immaginazione. O forse prima di uscire per l’ultima volta dal Caffè Trieste il juke box manderà un’altra canzone che si sovrapporrà a questa cancellandola o spostandola in un angolino della corteccia cerebrale fino a che una porta o una finestra aperta creeranno una corrente che la rimetterà in moto, come quel sacchetto di plastica bianco che l’altro giorno roteava meravigliosamente ai piedi di un albero, e ai miei, un retake della scena di American Beauty, ma molto più bella perché era sì american ed era sì beauty ma era mia, era solo per me che sono rimasto a fissarla estatico per qualche minuto, mi sono guardato intorno per vedere se c’erano altri spettatori, ero solo e mi sono appoggiato al cofano di una macchina per godermi lo spettacolo. Poi si è abbassato, come in un inchino finale, ed è tornato a essere un sacchetto di plastica bianco ai piedi di un albero, in una sera di marzo a San Francisco.
© Marco Cassini, 2019. Tutti i diritti riservati.
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