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Ultima conversazione, un estratto dalla postfazione di Nicola Lagioia

Nicola Lagioia Autori, SUR

Nell’Ultima conversazione Roberto Bolaño si racconta in una collezione di interviste realizzate nell’arco di cinque anni; l’infanzia in Cile, l’adolescenza in Messico, l’Europa da uomo maturo, i primi tentativi di scrittura, le letture, le influenze e le amicizie.
Pubblichiamo oggi un estratto da «Uno scrittore per il ventunesimo», la postfazione di Nicola Lagioia al libro. 

di Nicola Lagioia

Onorati i «padri della patria» con quel particolare tipo di tributo che in mano a Bolaño diventa un’arma per disfarsene («libri come Nessuno scrive al colonnello sono semplicemente perfetti»), i compagni di viaggio dello scrittore cileno diventano altri. Innanzitutto Julio Cortázar, che non a caso – nonostante la differenza d’età – l’autore di 2666 percepisce come un «fratello maggiore», e i cui sentieri tracciati attraverso gli ipertesti profetici di Rayuela acquistano retroattivamente ancora più vigore proprio grazie a libri come I detective selvaggi e 2666. («Mi commuovono i giovani di acciaio che leggono Cortázar», dirà nell’ultima intervista a Mónica Maristain.) Un altro fratello maggiore potrebbe essere il desaparecido Héctor Oesterheld, il geniale inventore dell’Eternauta finito vittima della dittatura argentina (scomparso manu militari nel 1977 così come i ragazzi delle generazioni successive – Arturo Belano, Ulises Lima e i loro compagni – si perderanno da sé in un continente popolato ormai di spettri, rendendo tra le altre cose, nelle parole del suo autore, I detective selvaggi «una lettera d’amore e un saluto alla mia generazione, a quelli che hanno scelto la militanza e la lotta e che hanno dato quel poco che avevano e quel molto che avevano, la giovinezza, a una causa che per noi era la più generosa del mondo. L’intera America Latina è seminata con le ossa di questi giovani dimenticati»). Poi c’è il fantasma di un personaggio letterario: il console Firmin, alter ego di Malcolm Lowry. Il debito nei confronti di Sotto il vulcano è dichiarato sin dall’epigrafe dei Detective selvaggi («Lei vuole la salvezza del Messico? Vuole che Cristo sia il nostro re?» «No») e, citazione a parte, mette semmai ancora più in evidenza come i due più grandi romanzi sul Messico degli ultimi sessant’anni siano stati scritti da non messicani. Un altro fratello maggiore è Juan Carlos Onetti, mentre il gemello non sopravvissuto al parto della notorietà è appunto Mario Santiago (poeta messicano e migliore amico di Bolaño, per colmo di tristissima ironia morto nel 1998, proprio l’anno d’uscita dei Detective selvaggi). Per ciò che riguarda il molto venerato Jorge Luis Borges, l’argentino è per Bolaño più un padre dichiarato che reale (i ricalchi delle mise en abyme prese dall’Aleph o da Finzioni sono la parte più debole e meno matura della produzione di Bolaño, la sola veramente epigonale, almeno fino a quando il cileno non imparerà a considerare Borges la propria stella distante, un astro a cui guardare con ammirazione e sotto il quale magari scaldarsi un po’ evitando di avvicinarsi troppo), mentre un nonno piuttosto credibile, sebbene più giovane di Borges, potrebbe essere il José Lezama Lima di Paradiso. Queste ascendenze, oltre che ricostruire soltanto parzialmente la generosa ricerca di sintonia e polemica condotta da Bolaño all’interno dell’America Latina, evidenziano anche quale sia l’altro continente con cui gli è piaciuto intrattenere i rapporti più intensi (l’Europa, verso cui Borges e Cortázar e Lezama Lima lanciano continuamente ponti) e quale sia quello con cui invece ne ha intrattenuti meno (gli Stati Uniti del ventesimo secolo).

È opinione non isolata che, mentre I detective selvaggi «chiuderebbero» mirabilmente qualcosa di già noto (un certo modo di coniugare romanzo di formazione, picaresco e on the road), 2666 rappresenterebbe, al contrario, una misteriosa e ancora non del tutto sondabile apertura verso territori inesplorati. Mi trovo d’accordo sul fatto che Bolaño sia un riapritore di giochi, che rappresenti cioè, malgrado vi abbia sostato per soli tre anni, il primo vero grande scrittore del ventunesimo secolo. Credo tuttavia che l’«apertura» verso qualcosa di diverso, di nuovo, di finalmente rivitalizzante per il mondo letterario giunto pieno di ansie sull’orlo estremo del Novecento, cominci non solo prima di 2666 ma anche prima dei Detective selvaggi, come minimo da quei magnetici piccoli ambigui affascinanti manufatti che sono i racconti di Chiamate telefoniche. Se c’è qualcosa che attraverso questi libri Bolaño riesce invece a chiudere (crudelmente, inesorabilmente; non sappiamo nel futuro ma di certo per l’intero lunghissimo decennio che ci separa dall’11 settembre newyorkese) è il robusto predominio che la letteratura statunitense fin de siècle era riuscita legittimamente a esercitare. Tra il 1990 e il 2001 negli Stati Uniti vengono pubblicati libri magnifici come Il teatro di Sabbath, Underworld, Pastorale americana, Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Infinite Jest, L. A. Confidential, La macchia umana… A seguire, però, c’è un imprevisto crollo creativo trattenuto (e forse ancor più fragoroso per questo) su un altissimo e per certi versi inutile livello medio grazie alla rete di protezione intessuta dalle trascorse lezioni di maestri quali Roth, McCarthy, Pynchon, DeLillo.

È proprio da questo vuoto improvviso che i più attardati di noi hanno cominciato a sentire l’eco (e la novità) che i libri di Bolaño stavano in realtà irradiando già da qualche anno, e che lo stavano portando a primeggiare grazie anche al fatto di muoversi proprio nei territori sui quali la narrativa nordamericana iniziava a mostrarsi più debole.

La prima freccia all’arco di Bolaño, da questo punto di vista, è il suo autentico cosmopolitismo. In Nord America, la generazione di Philip Roth è fino ad ora l’ultima a essersi presa l’impegno (e soprattutto ad aver provato un genuino desiderio) di confrontarsi con culture che non fossero la propria. L’intervista di Roth a Primo Levi del 1986 è forse l’ultimo grande omaggio di uno scrittore statunitense verso un collega straniero che non abbia fatto di tutto per ottenere attenzione sull’altra sponda dell’oceano. È pur vero che alcuni dei rapporti più fecondi con le altre culture gli Stati Uniti li hanno intrattenuti per molto tempo in casa propria, grazie al fatto di essere stati la destinazione degli immigrati e degli esuli di mezzo mondo (per fermarci solo alla letteratura e al cinema basti pensare all’arrivo di Nabokov, all’influsso della cultura ebraica e di quella italiana, da Bellow a Coppola a Scorsese, da Henry Roth prima di Philip agli squarci italoamericani di Underworld, alla lezione di Billy Wilder che a sua volta aveva imparato da Lubitsch, per non parlare della lost generation a Parigi e di chi, arrivato in Europa infilato in una divisa militare, trova nel buco nero della seconda guerra mondiale – Salinger, Kurt Vonnegut a Dresda – l’intrico con cui iniziare a fare i conti appena tornati a casa). A partire dai nati dopo la guerra, però, assimilata sempre più rapidamente la diversità culturale nei tessuti della Star-Spangled Banner – e diventati sempre più stanziali gli intellettuali statunitensi (con alcune magnifiche eccezioni quali quella di William Vollmann), poco disposti a visitare altri paesi per ragioni diverse da quelle semituristiche offerte da una fellowship o da un premio letterario – questo gioco di contaminazioni si fa sempre più debole. Inizia l’era di scrittori dotatissimi i quali, al momento di risalire ai classici della letteratura non statunitense, sembrano sempre un po’ impacciati o posticci (lo stesso David Foster Wallace quando si mette a disquisire di Franz Kafka), fino a giungere ai primi casi in cui questo isolazionismo grava pesantemente sulla loro produzione, come succede per esempio a Jonathan Franzen, in un certo senso l’Isabel Allende di Western Springs, sconsolante quando confessa la propria ignoranza su tutto ciò che accade nel resto del mondo, ma mai quanto può esserlo l’aver lanciato (con Libertà) il romanzo seriale d’autore, capace di trasporre su carta con enorme successo il meglio delle serie tv, costruendo, grazie all’impiego di fatica e talento notevoli, un’aura intorno al concetto dell’inutile perfetto.

La cultura di Bolaño, al contrario, è talmente sterminata (e così chiaramente il risultato di un desiderio appagato di continuo, e in piena libertà) da pesare nei suoi libri quanto un taglio di zavorra su una mongolfiera. Da Petronio a Pascal a Voltaire a Cervantes a Valéry a Tito Livio a Sterne a Kafka a Perec a Zanzotto a Montale a Blake a Pasolini a Villon a Sanguineti a Ungaretti a Majakovskij al «finocchione» Chlebnikov (indimenticabile, in bocca a Ernesto San Epifanio nei Detective, la distinzione dei poeti – dediti a un genere prevalentemente omosessuale – nelle correnti di finocchioni, finocchie, finocchietti, pazze, busoni, velate, ninfi e fileni), Bolaño sembra trovarsi completamente a proprio agio scendendo e risalendo a piacimento lungo la scala della cultura occidentale. In certi casi smembra e nasconde e utilizza al proprio fine ciò che ha letto o visto in modo così sentito e personale da renderlo quasi irrintracciabile – in «Giorni del 1978», per esempio, un dolentissimo racconto contenuto in Puttane assassine, due esuli cileni in Spagna dopo il golpe di Pinochet (uno dei due ha appena tentato il suicidio e sembra posseduto mesmericamente dal proprio malessere) si raccontano, forse a mo’ di esorcismo, la trama di un film «bellissimo» che solo la molta memoria e il molto amore del lettore riescono incidentalmente a inchiodare a un titolo e a un autore: Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij. In un passo della celebre intervista con la Maristain, Bolaño citerà Vittorio Gassman. Nei Dispiaceri del vero poliziotto Rosa Amalfitano spedisce a un suo lontano spasimante una cartolina con sopra raffigurata una vignetta di Tamburini e Liberatore. Per non parlare di quali insospettate latitudini sia capace di lambire la cultura (inter)nazionalpopolare dello scrittore cileno. In «Joanna Silvestri», uno struggente racconto ambientato nel mondo del porno e contenuto in Chiamate telefoniche, una pornostar che assiste un semidistrutto king of porn «Jack» Holmes, ormai stanco e malato di Aids, attraversa in automobile le strade di Los Angeles e osserva il cielo pensando a Nicola Di Bari. E allora ti domandi: come fa Roberto Bolaño a conoscere persino Nicola Di Bari?

Questa di Los Angeles è una delle rare incursioni in Nord America concesse a un racconto di Bolaño. Non che il cileno snobbi gli Stati Uniti. Anzi, si è detto più di una volta debitore di Melville e di Twain («I detective selvaggi ha senz’altro un debito verso Mark Twain. Belano e Lima non sono altro che una trasposizione di Huckleberry Finn e Tom Sawyer. È un romanzo che scorre secondo un moto costante, che è il Mississippi. Insomma, il mio debito verso Twain è enorme, anche perché è un autore che amo e leggo moltissimo. Ho letto molto anche Melville, e mi affascina. In effetti, per civetteria, preferirei credere di essere più in debito verso Melville che verso Twain, ma sfortunatamente penso di dovere di più a Mark Twain»; la stessa Marcela Valdes scrive in questo volume che I detective selvaggi – «romanzo sull’amicizia e l’avventura» – sarebbe l’Huckleberry Finn di Bolaño, mentre 2666 si rivelerebbe a proprio modo una «caccia alla balena bianca») e legge gli scrittori nordamericani, apprezzandoli, fino alla generazione di Hemingway e di Faulkner e, soltanto interessandosene, fino a Bellow e Updike. Poi il suo interesse crolla. Più che ostilità o disprezzo verso le correnti del realismo e del postmodernismo statunitensi nella loro fase matura, quella di Bolaño (il quale, negli anni Novanta, si sta apprestando a scrivere i suoi capolavori) mi sembra soprattutto diffidenza.

Se il Sud America è stato il manicomio d’Europa quanto gli Stati Uniti ne sono stati la fabbrica, forse, per raccontare il mondo alle soglie del ventunesimo secolo, un manicomio è molto più utile (oltre che più interessante) di una fabbrica. È come se a un certo punto Bolaño avesse intuito che insistere troppo sul romanzo sociale (che forse tocca il suo ultimo apice nel parallelo Bill Clinton-Silk Coleman della Macchia umana) o continuare a raccontare il mondo attraverso la scomposizione sempre più accurata degli oggetti di consumo e relative ricadute sui comportamenti umani (il David Foster Wallace estremo e geniale di Brevi interviste con uomini schifosi o La ragazza dai capelli strani) fosse un gioco che, raggiunta la vetta a sé connaturata, rischiava subito dopo di non avere più molto da dire.

A questo si può forse aggiungere il fatto che la crisi (non solo economica) che sta scuotendo l’Occidente, più che con solidi per quanto calunniati professori universitari come Silk Coleman, più che con geniali per quanto problematici studenti del college incastonati nel futuro prossimo del neo-neoliberismo (l’Hal Incandenza di David Foster Wallace), ci porta a empatizzare con dei veri outsider, dei perdenti fatti e finiti come sono molti personaggi di Bolaño. Abbiamo probabilmente l’impressione, cioè, che questi ultimi riescano a capirci meglio di quanto possa fare uno Svedese uscito da Pastorale americana, il quale, per quanto si trovi ad avere la vita distrutta, è comunque un integrato quale noi rischiamo di non essere più.

Perché è vero, tante sono le novità che sconvolgono il pianeta nel passaggio da un secolo all’altro, dalla crisi delle democrazie a quella economica, dall’esplosione di internet e dei social network ai fantasmi della finanziarizzazione globale, dall’allargamento della forbice tra ricchi e poveri all’oligarchizzazione dei centri decisionali, ma pensare che questi siano dei grandi misteri di per sé e non gli accidenti attraverso i quali l’eterno mistero del mondo si trova a venire rimescolato per l’ennesima volta rischierebbe di rivelarsi un terribile errore. Così, da un certo momento in poi, avere ad esempio la pretesa di raccontare una storia d’amore attraverso la descrizione dei flussi telematici che intercorrono tra l’invio e la ricezione delle mail dei protagonisti, potrebbe voler dire fare il gioco del nemico. Forse bisogna cambiare ancora una volta strategia. Roberto Bolaño, da questo punto di vista, ha avuto il merito di convertire la fredda e ubiqua immaterialità del mondo globalizzato in una calda vicenda di uomini e donne, ragazze e ragazzi le cui sconfitte, i cui deragliamenti, la cui dispersione e sparizione sotto il rullo compressore della Storia non impediscono loro di intraprendere e anzi di credere in un autentico – autentico perché, finalmente, pur nell’era del fake che gioca continuamente alle tre carte col suo opposto, non ha più nulla di apocrifo – viaggio esistenziale e addirittura spirituale. In questo modo, restituisce a loro (e a noi che leggiamo) una piena dignità.

E ancora, a proposito di rovesciamenti di strategia: si pensi a come i tantissimi personaggi che popolano romanzi come 2666 o I detective selvaggi non siano più legati tra di loro da rapporti familiari o genealogici (come avveniva nei romanzi di Faulkner o di García Márquez) né da oggetti materiali (la pallina da baseball di Underworld) o di consumo (il film di James Incandenza in Infinite Jest) ma, nell’epoca di internet (non perché l’ambientazione delle loro storie necessariamente vi appartenga, ma perché vi appartiene il tempo in cui sono state scritte), sembrano essi stessi dei cervelli misteriosamente interconnessi tra di loro; c’è quasi l’impressione certe volte che si mandino continuamente messaggi usando delle proprie e fino a quel punto ben occultate facoltà telepatiche, in barba ai sistemi «ufficiali»; come se insomma – in maniera antitetica alla paranoia pynchoniana dell’Incanto del lotto 49 – avessero brevettato la propria personale forma di Trystero.

Proprio inserita in questa strategia, la vocazione cosmopolita, globale, delle storie di Bolaño si dimostra capace di rompere gli steccati autarchici a stelle e strisce e, contemporaneamente, di ignorare i più inutili e fastidiosi scampoli di arroganza eurocentrica o di folklore latinoamericano, lasciando gli infiniti rivoli che le compongono liberi di scorrere (o meglio, di scatenarsi) da un continente all’altro – da Città del Messico a Milano, a Parigi, a Londra, alle spiagge californiane, a Tijuana – in assoluta naturalezza, giocando in modo finalmente spiazzante persino con gli elementi del mondo globalizzato (una Coca-Cola bevuta a Milano ha, nei romanzi di Bolaño, un sapore completamente diverso da una Coca-Cola bevuta nel deserto del Sonora, eppure l’identità di marchio crea un impalpabile, oscuro, inquietante, affascinante legame tra i due contesti). L’incredibile sensazione finale è simile a quella di chi – come l’Artaud strafatto di peyote in Messico non a caso amato da Bolaño – dopo aver assunto un fungo allucinogeno ha l’impressione che persino gli ultimi ritrovati tecnologici (ieri la radio o la tv, oggi un iPhone o un laptop) abbiano qualcosa di ancestrale se non addirittura di pre-preistorico, appartenendo – prima ancora che alle multinazionali che credono di averli concepiti – alla materia antichissima dell’universo, come del resto ogni cosa e, proprio come qualunque altra cosa, siano portatori di un mistero che va oltre un’invenzione tecnologica, o una ricerca di mercato, o una battaglia sindacale. Una vita anteriore e successiva alla vita come crediamo di conoscerla: forse il «cimitero del 2666» di cui, citando Amuleto, parla ancora Marcela Valdes in apertura di questo volume.

Se infine le storie di Bolaño si perdono tra mille rivoli intrecciandosi continuamente all’interno dello stesso libro e addirittura tra un libro e l’altro (è possibile che il padre del Lalo Cura di 2666 sia l’Ulises Lima o al limite l’Arturo Belano dei Detective selvaggi, come gli indizi disseminati tra i due romanzi sembrano suggerire? Bolaño lascia aperta la questione con tanta sapienza che il dilemma sembra sopravvivergli in via inquietantemente autonoma), tutte le strade portano in realtà (o solo idealmente, a seconda dei libri) verso un unico grande punto – un luogo infero, oscuro e tuttavia accecante – e cioè il deserto del Sonora e il confinante agglomerato urbano di Santa Teresa, versione letteraria di Ciudad Juárez, attualmente uno dei luoghi più violenti e pericolosi del pianeta, scelta da Bolaño insieme al deserto come abisso di perdizione e insieme oasi iniziatica: è qui che i suoi personaggi si imbattono nel proprio personale Minotauro, ne vengono salvati e divorati insieme; un luogo probabilmente parallelo, Santa Teresa, alla città azteca di Quauhnahuac che ospita la perdizione-redenzione proprio del console Firmin.

Non è infine ozioso ricordare ciò che vedremmo oggi se solo, fuor di letteratura, ci appostassimo un intero weekend sul confine nordoccidentale tra Stati Uniti e Messico.

Il venerdì mattina osserveremmo enormi lunghissime carovane di automobili e pick-up scassati provenienti da Dávila, da Villegas, da San Luis, che cigolano lentissimamente a pochi centimetri gli uni dagli altri, si fermano ai complicati controlli doganali, e poi muovono in direzione San Diego: sono i messicani, e vanno verso il lavoro. Ma a partire da venerdì pomeriggio, e per tutto il sabato, delle eleganti pulitissime automobili con cambio automatico iniziano a sfrecciare in direzione opposta senza nessuno che le fermi: sono i giovani statunitensi, ragazzi e ragazze di diciotto, venti, venticinque anni che fuggono dal benessere sempre più precario, dagli psicofarmaci, dalla competizione sfrenata e dal terrore di fallire, diretti verso gli scheletri danzanti di Tijuana, verso un luogo dove finalmente avranno (se solo lo vorranno) la libertà di perdersi, di inabissarsi, di scomparire – nella segreta speranza di non tornare più; o di riemergere in un luogo che non sia il funzionale loculo aziendale dove il loro futuro è tumulato da prima ancora che finiscano il college. Ovvio che Ulises Lima, Arturo Belano e Benno von Arcimboldi diventino, in un contesto del genere, il Virgilio da cui vorremmo essere accompagnati per il nostro viaggio al centro della Terra.

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