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Argentina: quando la periferia è il centro

Andrea Valdés Editoria, Società, SUR

Pubblichiamo oggi un’intervista di Andrea Valdés, giornalista spagnola di recente trasferitasi in Argentina per esplorarne il panorama letterario, allo scrittore e editore Damián Tabarovsky. Il pezzo è uscito su El estado mental, con la collaborazione di Laie, che ringraziamo.

di Andrea Valdés
traduzione di Alessandra Callà

Nella mia biblioteca personale la letteratura spagnola non corrisponde all’Equatore. Rimane piuttosto appartata e all’altezza delle caviglie, è decentrata proprio come l’Argentina nella cartina rimasta appesa per anni alla parete di fronte. Ovviamente non penso che in Spagna non ci siano grandi scrittori, perché dovrei essere molto sciocca o molto sorda per mandare a quel paese Clarín, Unamuno, Lorca, o Cela. Per non parlare di quelli ancora in ballo, tra cui c’è Juan Benet, che ho nominato poco e male, mettendo l’accento sulla prima E come Beckett. E Javier Marías, che dopo tanti articoli di opinione, mi ha reso immune ai suoi racconti. È vero anche che Enrique Vila-Matas è riuscito a darmi qualche speranza, che mi sono buttata molte volte su Belén Gopegui e non me ne pento e che seguo Javier Pérez Andújar su Facebook. Ma di tutto ciò cosa mi resta? Forse Tempo di silenzio per avermi imposto i suoi odori, un romanzetto di Julián Ayesta che ha un titolo sdolcinato, Helena o il mare dell’estate, e vari libri di Josep Pla, che io leggo come un autore universale e per questo commetto l’irriverenza di includerlo in tutte le tradizioni, oltre il bene e il male. Pla ha lo stesso effetto del Don Chisciotte, che ho divorato appena un anno fa e che mi ha lasciato senza parole.

Detto ciò, chi avrebbe mai sperato che un saggio sulla produzione letteraria argentina tra gli anni Ottanta e i Duemila mi avrebbe aiutato a comprendere il mio mite entusiasmo nei confronti di quello che si è pubblicato negli ultimi vent’anni nel mio paese. Il saggio in questione si chiama Literatura de izquierda ed è di Damián Tabarovsky, autore di numerosi romanzi e editore per Mardulce. In Spagna è stato pubblicato da Periférica, ma ci sono state anche un’edizione messicana e una cilena. È sorprendente che la sua diagnosi fosse perfettamente applicabile ad altri contesti, anche se nel suo paese più di uno ha interpretato questo saggio come il capriccio di un tipo che si mette ancora con le magliette tarocche dei Ramones e che riduce il suo campo di lettura a 100 metri quadrati, cioè la distanza che lo separava da Aira, Fogwill e Libertella, quando erano tutti vicini. Critiche a parte, io penso che in molti frammenti Tabarovsky osi chiamare le cose con il loro nome.

Spiegandolo in modo molto schematico, in Literatura de izquierda si descrivono tre grandi filoni. Per primo ci sarebbe quello della letteratura che aspira a normalizzarsi e a raggiungere il grande pubblico, di cui farebbero parte da Ernesto Sábato a Cortázar e buona parte del catalogo della casa editrice Planeta. Poi si passa al secondo filone, quello dell’avanguardia accademica: «In un momento ben preciso mi sono detto stai attento, attento perché mentre passi il tempo a criticare il mainstream ecco che viene fuori un’altra cosa che a priori è molto seducente perché è intertestuale, ingloba Bachtin, le tecniche del romanzo, lo stato paranoico… è quella letteratura commentata dai professori universitari e che gode del suo prestigio, perché qui il percorso universitario di Lettere non si è sviluppato come in Spagna, dove non è arrivato alla polis. Qui ha avuto influenze dalle istituzioni, dai giornali, ecc». Mi conferma che un esempio di questo secondo filone potrebbe essere Ricardo Piglia «che fa un cocktail di tutto questo per costruire romanzi molto ben riusciti, che sembrano quasi prodotti pastorizzati». Infine c’è la terza divisione, quella che va per conto suo e che Tabarovsky chiama letteratura di sinistra. Questo filone è stato inaugurato negli anni Settanta con autori come Manuel Puig, Juan José Saer o Copi e ha portato l’eredità della French Theory nel campo della finzione letteraria, generando poetiche irriverenti e molto singolari. Per entrare ancor più nel merito, chiedo a Tabarovsky di definirmela, senza fare nomi.

Damián Tabarovsky: È quella letteratura di cui oggi gli editori alle fiere parlano dicendo che è troppo letteraria, come se questo fosse un problema. Quella che discute con altre tradizioni, ma anche con se stessa perché ragione sul linguaggio. E quella che pensa a tutto tranne al lettore, o per meglio dire, alla sociologia del lettore perché per questo ci sono già dei professionisti e c’è già tutta un’industria.

Andrea Valdés: Quello che vedo io è che è molto idiosincratica. In Spagna ci sono scrittori commerciali e altri con grandi ambizioni letterarie, ma dov’è la tradizione eccentrica?

DT: Sicuramente in Spagna c’è un deficit di avanguardie e quello che è stato venduto come tale è il risultato di un’operazione mediatica, ma ciò non significa che le cose si facciano peggio o meglio. La mia impressione è che in Spagna, i grandi innovatori operino a partire dal realismo e che in questo filone ci siano scrittori notevoli come Mercedes Cebrián o Elvira Navarro. Non sono neanche d’accordo con questa idea così diffusa in Argentina secondo cui gli spagnoli non sanno tradurre. Il lavoro di Javier Marías con Ashbery, per esempio, è impeccabile.

AV: Uno che in Spagna è molto rispettato è Roberto Bolaño. Si direbbe che, per noi, è l’ultimo grande autore latinoamericano, ma qui, in Argentina, non mi ho l’impressione che eserciti molto fascino.

DT: Per me Bolaño è l’ultimo rantolo del cosiddetto Boom. Dei suoi libri mi piace solo Stella distante, che è un ottimo romanzo. Il resto della sua opera non mi interessa più di tanto. Negli Stati Uniti è lo stereotipo dello scrittore marginale latinoamericano. Se non è un realista magico, bisognerà pur inventare qualcosa… E si inventano Bolaño. Non credo che avesse nulla a che fare con questo. E poi è morto molto giovane, pur senza drogarsi né bere. Intendo dire che non so cos’abbia di marginale, né lui, né la sua scrittura.

AV: Ai critici piacciono quelle 400 pagine di omicidi che si leggono come un mal di denti e, agli altri, credo ci ecciti sapere che per tanto tempo ha fatto il guardiano in un camping. L’idea del poeta senza una lira che perde i concorsi ha qualcosa di attraente.

DT: Va bene, era povero. Il problema è che la quasi totalità dei latinoamericani è povera. Eduardo Ainbinder, che è un magnifico poeta, lavorava in un chiosco. In Francia io il primo anno facevo l’attacchino. Se fossi stato Vila-Matas lo avrei fatto sapere… «Oh, ho vissuto nell’appartamento di Duras… attaccando cartelloni». Qual è il punto? Il latinoamericano va in Europa per via accademica o per qualche opportunità lavorativa o come immigrato. Qui tutti facciamo i guardiani nei campeggi. Nessuno vive con un unico stipendio. È la condizione dell’intellettuale latinoamericano. Forse la nostra specificità è che dagli anni Cinquanta in Argentina ha iniziato a configurarsi qualcosa di simile a una classe media, non come in Brasile che è come Belindia (per un terzo Belgio e il resto India) o in Cile, dove c’è questa propensione per cui ogni famiglia ricca a un certo punto fa un figlio scemo o gay che decide di diventare scrittore o artista. Lo spiega Jorge Edwards in El inútil de la familia. Bolaño non è un Edwards. È uno scrittore povero. Cosa che lì non è tanto frequente. Questo è sicuro. L’Argentina, invece, è un paese plebeo e lo era prima del peronismo, per questo molta della letteratura argentina si scriveva sui giornali. Borges, senza andare troppo lontano, lavorava per la Revista Multicolor che era un giornale sensazionalista su cui apparivano recensioni molto sofisticate di Coleridge…

AV: Per proseguire su questo, hai scritto La literatura de izquierda negli anni Novanta. Mi piacerebbe sapere come lo continueresti adesso, nel 2016.

DT: Direi che la novità oggi non è rappresentata tanto dagli autori quanto dal concetto stesso di editoria, che non è più lo stesso rispetto a cinquant’anni fa, che fa sì che emergano tutta una serie di voci nuove.

AV: Potresti essere più preciso?

DT: Tornando un po’ indietro: negli anni Novanta, che è il momento del neoliberalismo in Argentina, molte case editrici chiudono. Sudamericana viene comprata da Random House. Emecé, dove pubblicavano Borges e Bioy Casares viene comprata da Planeta. Ti parlo di case editrici con settant’anni di storia, non nate il giorno prima. Per ultima arriva Alfaguara. In questo contesto nascono Beatriz Viterbo e Adriana Hidalgo, due editori indipendenti. Un paio d’anni più tardi, con la crisi del 2001, una seconda ondata segue questa linea di pubblicazioni indipendenti e professionalizzate. I libri escono con i tempi giusti, si traducono autori consacrati, premi Goncourt, Pulitzer… e si scoprono nuove voci. Molte case editrici sono presenti alle fiere di settore, rischiano con il catalogo e fanno poche concessioni. Ti parlo della vecchia Interzona, Eterna Cadencia, Entropía, Caja Negra e un po’ più tardi Mardulce o La Bestia Equilátera… fino ad arrivare ai giorni nostri, con l’ondata delle case editrici cosiddette “autogestite”, ovvero Mansalva, Blatt & Ríos, Eloísa Cartonera, Milena Caserola… I loro fondatori affiancano il lavoro editoriale con altri lavori, pubblicano a prezzi bassi, vendono nelle librerie e organizzano molti eventi.

AV: Mi sembra di capire che vi aiutate abbastanza e vi scambiate perfino degli autori.

DT: Abbiamo in comune due eredità: da una parte c’è il nuovo cinema argentino, di quando persone come Lucrecia Martel, Fernando Trapero o Stagnaro y Caetano che andavano in strada a girare con pochi soldi e molte ambizioni, e facevano film di qualità. Dall’altra, la scena poetica degli anni Novanta. Mentre le case editrici si assorbivano tra di loro, i poeti si dedicavano all’autopubblicazione e, davvero con due lire, hanno dato vita a un vero e proprio circuito. Inscenavano rappresentazioni poetiche, muovendosi come in una guerra di guerriglie. Oggi qui, domani là, fino a quando improvvisamente a una lettura si presentavano 150 persone. Una notte chiudeva una casa editrice e la successiva ne apriva un’altra. È vero che per quanto riguarda la poesia il percorso è stato ed è più testimone o simile alla pratica controculturale. C’è qualcosa di effimero che le case editrici di narrativa non hanno, perché la volontà è quella di inserirsi nel mercato e rimanerci. Non si pubblica per épater les bourgeois, come accadeva negli anni Sessanta. Per questo, dopo esserci trovati uno spazio, la domanda successiva è: possiamo fabbricare nuovi lettori? Ne abbiamo bisogno per andare avanti.

AV: Vorrei credere di sì, ma forse bisognerebbe parlare degli autori che pubblicate.

DT: Credo che sia una scena molto diversificata, da cui si ricaverebbe a fatica un’estetica dominante. Forse si potrebbe dire che c’è una corrente vitalista e un’altra più intellettuale. In quella vitalista gli autori scrivono di quello che gli succede, quello che Deleuze chiamava la letteratura di mamma e papà. C’è qualcosa di ironico e neopop. Persino naïf. Questa corrente comprende la generazione degli anni Ottanta, quella del realismo sporco e della droga, perché ogni paese ha avuto il suo Ray Loriga e il suo Rodrigo Fresán. Il ribelle di turno che crede ancora di fare qualcosa di nuovo… Questa linea, curiosamente, è molto vicina a quella di César Aira ed è la linea del malinteso.

AV: Cosa vuoi dire?

DT: Ho un gran rispetto per Aira come intellettuale e come lettore, ma non pubblico i suoi seguaci perché li ha fatti uscire di testa. Non penso sia colpa sua, anche se adesso si dedica a fare il finto tonto con quelli che definisce «romanzetti in punta di penna», ha questo atteggiamento per cui fa pensare che scrivere sia una cosa da nulla, quando in realtà lui è una persona di grande erudizione.

AV: Si vede chiaramente nel suo monumentale Diccionario de autores latinoamericanos.

DT: Quel dizionario è un’opera d’arte. Per me, Aira non è uno scrittore ma qualcuno che sta componendo un’opera di più di cento titoli, una specie di Balzac o di commedia umana attraversata dalle avanguardie e dalla tradizione argentina, in cui ogni romanzo è un capitolo di questa grande opera, che è un’opera profondamente concettuale, senza un centro vero e proprio. È come un Joseph Beuys applicato alla narrativa. La narrativa finora non si sarebbe mai immaginata come concettuale, ma con Aira ogni singolo romanzo è quasi irrilevante in sé e per sé. Parliamo di come si inserisce in questo corpus, che è estremamente coerente. È dal suo primo romanzo che Aira parla di Duchamp e sono quarant’anni che lo fa. Ora è nella fase, chiamiamola ironica, e si impegna a scrivere storie con titoli come Yo era una chica moderna (Io ero una ragazza moderna). Da buon avanguardista non distingue tra la cultura bassa e quella alta, il romanzo ben concluso ecc. Purtroppo è pieno di piccoli Aira che si lanciano a scrivere Io sono indie senza aver capito niente.

AV: Fabián Casas ci invita a leggerlo con l’antidoto, immagino che tu stia parlando di questo. E poi?

DT: Un’altra eredità verso cui provo un sentimento ambiguo, ma che mi sembra più interessante è quella di Fogwill. Fogwill è stato un realista, ma un realista molto perturbante, che scriveva senza peli sulla lingua quello che pensava la società. Diciamo che è stato una specie di anarchico di destra che ha iniziato a essere letto dai sociologi, non come sociologo, la sua materia, anche se faceva il pubblicista, ma piuttosto come narratore. Questa scuola è più produttiva. Hernán Vanoli alla fine non ce l’ha fatta, ma Gustavo Ferreyra è un buon esempio.

AV: Ma oltre all’eredità concreta di uno scrittore, credi che esista una nuova letteratura di sinistra?

DT: Credo che ci siano autori che continuano a litigare con il linguaggio, anche se sono molto eterogenei. C’è Selva Almada, che rilegge chiaramente Flannery O’Connor e la tradizione meridionale argentina; Hernán Ronsino, che potrebbe essere un continuatore di Juan José Saer o Rodolfo Walsh, o Ariana Harwicz, una scrittrice più viscerale, un incrocio tra Nathalie Sarraute e Osvaldo Lamborghini. E infine Pablo Katchadjian. In ¿Qué hacer? porta Aira a un livello ulteriore. Questi quattro autori mi interessano molto. Tutti hanno pensato al problema della frase, che per me è la cosa più importante. Un romanzo non è politico solo se cita Franco, Videla o i desaparecidos. Per me si vede da come si scrive, nella sintassi, nel decidere quale parola segue la precedente ed elabora il significato. Usare galleggiante o flottante non è una decisione innocua. Quello che rende la letteratura politica è la domanda posta dalla frase. Lì è dove lo scrittore se la gioca davvero.

© Andrea Valdés, 2016. Tutti i diritti riservati.

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