Cominciamo a pubblicare oggi (seguiranno altre quattro “puntate”) un capitolo del volume «All’inseguimento dell’ultima utopia. La letteratura ispanoamericana in Italia e la creazione del mito dell’America latina», di Stefano Tedeschi (Edizioni Nuova Cultura, 2005). Il sottotitolo, per quanto esplicito, non può riassumere la ricchezza di contenuti di questa approfondita indagine, che a partire dalla ricezione in Italia di autori come Pablo Neruda, Borges e García Márquez, passando atttraverso i poeti e i saggisti – e senza limitarsi ai testi, ma prendendo in considerazione anche le immagini di copertina, i risvolti, le recensioni, ecc. – getta luce, con il conforto dei dati statistici, sui successi di critica e di pubblico di certi autori e sul silenzio calato su altri. Lo studio inoltre prende in considerazione eventi come la dittatura argentina, le Olimpiadi e i Mondiali di calcio in Messico del 1968 e poi di nuovo nel 1986, per ricostruire la visione complessiva che ci siamo fatti di quel subcontinente. Uno dei temi centrali del libro, e non poteva esssere diversamente, è il fenomeno del boom degli anni ’60 e ’70. E proprio di questo ci occuperemo. Infatti il capitolo di cui iniziamo la pubblicazione si intitola «Il Boom: fu vera gloria?». Abbiamo cassato le note a piè di pagina e qualche breve passo per facilitare la letttura, chi volesse approfondire dovrà procurarsi il libro. Ringraziamo l’autore, Stefano Tedeschi, dell’Università La Sapienza di Roma.
Intorno a Cent’Anni di Solitudine si costruisce anche in Italia quello che la pubblicistica prima e poi la critica hanno chiamato il boom della letteratura latinoamericana. La definizione nasce evidentemente in ambito non letterario, e attiene più al successo commerciale dei libri che ad una loro puntuale valutazione critica, ma dal nostro angolo di visuale proprio la sua imprecisione, il suo carattere approssimativo ci permette di misurare quali furono virtù e difetti della comprensione in Italia di quella nuova ondata di narratori. Il fenomeno non è peraltro solo italiano, ed anche la stessa definizione veniva d’oltreoceano, dove era stata usata fin da metà degli anni sessanta per segnalare il notevole incremento nelle vendite di alcuni autori che iniziavano a comporre un gruppo eterogeneo di scrittori di riferimento: in Messico e in Argentina i successi editoriali di Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa precedono quello di García Márquez e in qualche modo già segnano il cammino da percorrere.
Nel nostro paese, come si è osservato, il detonatore dell’esplosione è costituito dal romanzo dello scrittore colombiano, e da qui si dovrà partire. Alcune rivisitazioni successive hanno messo in dubbio l’effettiva consistenza del cosiddetto boom, o comunque la sua effettiva importanza (da ricordare, in particolare, Viaggio letterario in America Latina, di F. Varanini, e l’Introduzione a Racconti fantastici del Sudamerica, di L. D’Arcangelo), e si dovrà in effetti prima di tutto ricostruirne la reale consistenza quantitativa, per poi passare ad una più puntuale ricostruzione qualitativa. I freddi numeri delle statistiche non permettono di avere dubbi sulla reale fondatezza della definizione di boom: in sette anni, dal 1968 al 1975, si pubblicano in Italia 140 nuovi titoli di autori ispanoamericani, ai quali si aggiungono le numerose riproposte di titoli già apparsi in precedenza, tanto che il pubblico italiano ha a sua disposizione nel 1973-74 il doppio dei libri rispetto al 1967, con una notevole varietà di generi.
Inoltre molti di essi vengono ristampati a più riprese nel corso di questi anni e altri autori raggiungono importanti risultati di vendita, caso García Márquez a parte (di lui si vendono bene anche le raccolte di racconti giovanili, in attesa del nuovo romanzo che però apre un periodo diverso): Manuel Puig viene proposto nel “Club del Libro”, forma di vendita per corrispondenza alla quale accedono solo titoli considerati “sicuri”, sui diritti di Vargas Llosa continua la guerra editoriale iniziata con La città e i cani, autori degli anni quaranta e cinquanta vengono riscoperti e riproposti come novità assolute. Un tale accavallarsi di edizioni provoca un effetto valanga che Ángel Rama ha descritto in modo assai convincente:
El lector común, poco avezado en referencias bibliográficas ni ducho en ordenamientos generacionales, se vio en presencia de una prodigiosa y repentina floración de creadores, la cual parecía tan nutrida como inextinguible. De hecho no estaba presenciando una producción exclusivamente nueva, sino la acumulación en sólo un decenio, de la producción de casi cuarenta años que hasta la fecha sólo era conocida de la élite culta. Se sumaron dos factores: la producción era tan mayor y aun se volvió intensa por esta misma demanda, y además resultaba abultada por la reposición de los títulos anteriores de los escritores, que volvían al mercado.
L’aumento delle vendite comporta naturalmente un mutamento significativo nella geografia editoriale delle opere tradotte: alle già impegnate Feltrinelli ed Einaudi, che continuano a fare la parte del leone, si aggiungono anche case editrici importanti come Bompiani, Mondadori, Garzanti, editori fino ad allora interessati prevalentemente alla saggistica, quali Il Saggiatore o La Nuova Italia, piccoli editori che tentano di cavalcare l’onda del successo, editori politici che si affacciano alla narrativa (Editori Riuniti) o nuove sigle editoriali, come quella di Franco Maria Ricci che mette in piedi un ambizioso e straordinario progetto legato al nome di Borges. L’accelerazione editoriale comporta ovviamente il coinvolgimento di un maggior numero di addetti ai lavori, dal campo della traduzione a quello della cura dei testi, dalle recensioni alle considerazioni critiche e tutto ciò restituisce al pubblico la netta impressione di trovarsi di fronte ad un impetuoso movimento intellettuale, tanto più sorprendente in quanto giunto da luoghi fino a quel momento decisamente sottovalutati.
La strategia degli editori italiani maggiormente coinvolti ricalcava quella delle case editrici argentine e messicane che avevano dato il via al fenomeno, poi sostenute da un editore spagnolo, quel Carlos Barral che aveva portato in Europa gli autori più importanti della nuova generazione. La preoccupazione di tutti era quella di creare un solido gruppo di narratori che potesse fornire il materiale necessario ad una operazione di catalogo: non si trattava di scoprire il singolo autore, o l’opera di genio, ma di fornire al pubblico europeo l’immagine di un intero continente che sembrava risvegliarsi alla creatività letteraria, e di costruire attorno ad essa una durevole proposta culturale.
La questione centrale risultava dunque quella della selezione degli autori, ed in effetti una delle domande che gli stessi scrittori si ponevano in quegli anni era: chi appartiene al boom? Le risposte furono variegate, a volte anche molto polemiche, e non chiarirono bene i confini di un fenomeno che era troppo legato a motivazioni commerciali per poter sopportare analisi severe. Anche Ángel Rama si pone la stessa domanda, con intenzioni evidentemente critiche, e alla fine conclude che i responsabili editoriali consideravano come protagonisti del boom un numero molto limitato di autori:
Teniendo en cuenta estos textos, puede hacerse comprensibile que yo haya satirizado al boom definiéndolo como el club más exclusivista que haya conocido la historia cultural de América Latina, un club que tiende a aferrarse al principio intangible de sólo cinco sillones y ni uno más, para salvaguardar su vocación elitista. De ellos, cuatro son, como en las academias, “en propiedad”: los correspondientes a Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Mario Vargas Llosa y Gabriel García Márquez. El quinto queda libre para su otorgamiento: lo han recibido desde Carpentier a Donoso, desde Lezama Lima a Guimarães Rosa.
Anche tenendo in conto l’intenzione critica di Rama, rimane comunque stabilita una graduatoria, o perlomeno un gruppo di autori che agli occhi dei lettori europei costituivano un insieme riconoscibile. A partire dalle loro opere si forma un vero e proprio canone della letteratura ispanoamericana, sostenuto anche dalle riflessioni che loro stessi si preoccupano di portare avanti, in numerosi libri e articoli di giornali e riviste. Il boom non ha avuto dunque solo un effetto quantitativo, ma anche notevoli conseguenze sul piano qualitativo, funzionando come primario momento di selezione, al quale ci si riferirà poi ogni qualvolta la letteratura ispanoamericana tornerà in auge: non per niente nella seconda metà degli anni novanta saranno recuperati proprio quei romanzi pubblicati negli anni sessanta, ricollocati e ripresi in una visione non poi così cambiata.
Le parole di Rama segnalano con evidenza il dominio di quattro nomi principali, ai quali se ne aggiungono numerosi altri, anche se “in seconda fila”, come diceva Carlos Barral, e tale situazione sembra essere comune a tutto il mercato europeo. In realtà osservando le cose più da vicino il panorama tende a presentare differenze nazionali abbastanza interessanti. In Italia ad esempio quella lista funziona fino a un certo punto: escludendo i casi di García Márquez, di cui si è già parlato, e di Borges, che costituisce un problema a parte, una immaginaria classifica di traduzioni e ristampe vede emergere nomi che non sempre vengono inclusi nel catalogo del boom, anche per ragioni cronologiche.
Dopo García Márquez troviamo infatti, per numero di traduzioni (4) e di ristampe Mario Vargas Llosa, e fin qui niente di strano, ma accanto a lui si pone Juan Carlos Onetti, di cui si traducono i romanzi degli anni cinquanta, e poi, con tre traduzioni ciascuno, Manuel Puig, José Donoso, Adolfo Bioy Casares e Julio Cortázar. Alcuni editori minori puntano ancora sul realismo degli anni trenta – quaranta (Asturias (3), Caballero Calderón, Otero Silva, Arlt (2)), mentre altri si rivolgono alla narrativa della Onda messicana (Sainz, José Agustín, Elizondo) o alla letteratura cubana (Barnet (2), Norberto Fuentes, Arenas). Sulla scia di Borges e di Bioy Casares la Einaudi pubblica anche Silvina Ocampo e Felisberto Hernández, mentre su un versante opposto si scopre l’indigenismo di Arguedas e si inizia a pubblicare la saga andina di Manuel Scorza (2). Come si può osservare quello che colpisce è l’estrema dispersione delle scelte, segno di una confusione diffusa, quasi che la fretta di inseguire il successo letterario del momento impedisse di elaborare un progetto coerente, o di presentare in maniera corretta autori anche molto distanti tra loro. Nella valanga alcuni vengono travolti, e tra essi risalta l’assenza del nome di Carlos Fuentes: di fatto dopo Cambio di pelle del 1967, un pesante insuccesso dal punto di vista delle vendite, non viene più tradotto niente dello scrittore messicano, e solo La morte di Artemio Cruz conoscerà qualche ristampa nel periodo di cui ci occupiamo. Il legame di Fuentes con Valerio Riva, e la rottura tra questi e Feltrinelli, pesa evidentemente in maniera negativa sulla diffusione dei suoi testi, ulteriormente aggravata poi dopo il 1971 dalla presa di posizione sul “caso Padilla” e dal distanziamento dalla Rivoluzione Cubana. Oltre a Fuentes spiccano le assenze di autori come Roa Bastos e Ribeyro, che arriveranno in Italia più tardi, e saranno assorbiti dal buco nero del “post-boom”, o come Bryce Echenique, che si vedrà pubblicato il suo romanzo pesantemente tagliato in traduzione, o ancora come Arreola, Viñas, Revueltas, Yáñez, Samuel Feijoo, per citare in ordine sparso solo qualche nome, mentre scompaiono Sarduy e Carpentier (lo ritroveremo solo anni più tardi) e naturalmente manca tutto l’universo femminile, tanto da giustificare le riserve di Rosario Ferré sul boom come fenomeno esclusivamente maschile.
L’operazione editoriale del boom latinoamericano in Italia rivela dunque le sue fragili fondamenta, legate da una parte a una volontà solo commerciale di sfruttare una denominazione di origine geografica che è diventata improvvisamente di moda, e dall’altra a motivazioni che traggono le loro radici più in Italia che nel continente americano, come la scelta rivoluzionaria pro-cubana della Feltrinelli o la ricerca nel campo del fantastico che Italo Calvino persegue in Einaudi: quel canone messo insieme così alla rinfusa condizionerà però a lungo la conoscenza della letteratura ispanoamericana, e verrà soppiantato alla fine solo da una visione ancora meno completa, e complessa, di quella realtà. In una certa misura lo avevano già intuito i commentatori più attenti, come Mario Luzi in un articolo del 1971 per il Corriere della Sera:
Nel caso non l’abbia già fatto, il lettore di queste note dovrà abituarsi a certe frequenze piuttosto fitte, a certi nomi ricorrenti senza troppa parsimonia. Non è beninteso, questione di monotonia o di povertà di ricambi: si tratta invece del precisarsi di alcune personalità prevalenti di cui l’informazione ricerca avidamente i titoli rimasti in ombra, gli antefatti, le aggiunte. È un lavoro di rifinitura e di approfondimento che in parte riscatta l’industria editoriale dall’indiscriminata proposta di oggetti da consumare. D’accordo, viene nella scia di un successo ottenuto e nella prospettiva di un altro possibile, ma che altro potremmo chiedere ? È già molto tenere una linea, organizzare un nucleo in cui si possa riconoscere un’indicazione critica non casuale.
Leggi la seconda parte qui.
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