Nel 1827 Goethe fu uno dei primi intellettuali a riflettere sul concetto di Weltliteratur, letteratura mondiale. Attualizzando questa teoria si può notare come assuma sfumature differenti e quanto i maggiori premi letterari sembrino influenzare la produzione internazionale stabilendo implicitamente linee comuni e tradendo il testamento dello scrittore tedesco.
L’articolo è originariamente apparso su El Boomeran(g) e viene qui riprodotto per gentile concessione dell’autore.
di Pedro Ángel Palou
traduzione di Laura Talamona
Quando si può parlare di letteratura mondiale? O meglio, a partire da dove?
Non credo si possa partire dalla produzione ma piuttosto da condizioni di ricezione simili del testo letterario. In tal senso è rilevante che Pascale Casanova si mascheri dietro il suo discorso e, dalla comodità dell’eurocentrismo, parli di condizioni oggettive di universalità (portando il frivolo esempio del Nobel, un meccanismo di consacrazione e non di produzione estetica) e non riconosca, tra le altre cose, che uno scrittore che ne legge un altro, la maggior parte delle volte in traduzione, non legga come chiunque altro. Uno scrittore legge gli altri alla luce della propria opera (come fanno Rulfo con Hamsum e Jorge Amado con Gorki) e la rimodella in maniera permanente. Però, forse, la miopia maggiore consiste nel pensare alla tradizione come unica, sola, omogenea. È curioso che uno scrittore dell’Europa periferica, Milan Kundera, da parecchi anni si sia trasferito nel centro Europa, a Parigi, e rifletta sul tema con particolare acume nel suo ultimo libro, Il sipario.
Che sia nazionalista o cosmopolita,» afferma senza imbarazzo il romanziere «che abbia radici o non ne abbia, un europeo è profondamente influenzato dal rapporto con la sua patria; […] accanto alle grandi nazioni ci sono in Europa piccole nazioni, molte delle quali, nel corso degli ultimi due secoli, hanno ottenuto (o ritrovato) l’indipendenza politica. […] ho formulato il mio ideale europeo in questo modo: il massimo di diversità nel minimo spazio.[1]
Il ragionamento è impeccabile: tutti i Paesi europei condividono lo stesso destino ma ognuno lo vive in maniera differente in base alle specifiche esperienze. È per questo motivo, dice, che la storia dell’arte europea sembra una corsa a staffetta. Si tratta di una metafora curiosa che contraddice il semplicismo di Casanova o, se si vuole, di certi slogan tipici delle dittature: una, grande, libera. Infine, trovo senza dubbio interessante una breve tesi di Kundera, il quale afferma che: «Ciò che distingue le piccole nazioni dalle grandi non è solo il criterio quantitativo del loro numero di abitanti; è qualcosa di più profondo: per le piccole nazioni il fatto di esistere non è un’ovvia certezza, ma sempre una domanda, una scommessa, un rischio; sono sulla difensiva nei confronti della Storia, questa forza che le sovrasta, che non le prende in considerazione, che non si accorge nemmeno di loro».[2]
I polacchi sono numerosi quanto gli spagnoli, sostiene Kundera, ma i secondi appartengono a una potenza coloniale la cui esistenza non è mai stata minacciata mentre la Storia ha insegnato ai polacchi ciò che significa non esistere, trovarsi nel braccio della morte. Se Gombrowicks fosse stato spagnolo, sarebbe diventato mondiale? Nulla di più impossibile.
E poi Kundera giunge al punto centrale: il testamento goethiano, una Weltliteratur, viene tradito. È sufficiente aprire un’antologia, un libro di storia: si verificano sempre delle sovrapposizioni, una storia delle letterature al plurale. L’autore ceco afferma che si può guardare alla realtà da una prospettiva locale, quella del micro contesto o leggerla a partire dalla prospettiva del macro contesto, quello universale. Dichiara inoltre che sia possibile afferrare il contributo di un grande romanzo solo attraverso la sua traduzione poiché è possibile apprezzare l’arte solo a distanza. Si tratta dello stesso pensiero di Bourdieu, secondo cui il traduttore è colui che legge nella maniera più simile a come leggerebbero i posteri. Però non mi si fraintenda: stiamo parlando in ogni caso di letture, ricezioni, non della produzione letteraria.
Ripetiamolo: oggi più che mai, la letteratura mondiale è una conseguenza della lettura, una conseguenza – oggi più che mai – del mercato.
Non dobbiamo dimenticare che il provincialismo dei grandi è dannoso quanto quello dei piccoli. Vorrei ora menzionare un’altra scrittrice radicalmente periferica, la romanziera croata Dubravka Ugrešić. Nel suo libro, Vietato leggere,[3] ha scritto forse la miglior difesa dello scrittore moderno davanti al mercato (non solo riportandone la disgregazione visibile durante la fiera di Londra, dove l’attrice Joan Collins era la scrittrice più importante dell’anno, ma arrivando persino a recuperare la libertà sovrana della scrittura che deriva dalla cultura locale). A suo parere, uno scrittore che si preoccupa del contesto nel quale scrive dovrebbe tacere; in caso contrario, sarebbe come separare un ramo dall’albero che lo sostiene. E per un uccello appoggiarsi a un ramo tanto debole sarebbe pericoloso. Si riconosce l’abilità di un artigiano solo attraverso i suoi strumenti. E poi scocca la freccia: gli scrittori dei paesi dell’Est erano così isolati rispetto al mercato e alle sue tendenze che hanno potuto scrivere le loro opere con una libertà che l’Occidente non conosce più. Nella loro camera, di notte, isolati da ogni estetica imperante, quasi in contrasto con una realtà che li ignora, gli scrittori croati – l’autrice ripete la provenienza geografica – hanno potuto creare opere proprie. E continua: gli scrittori che appartengono a una cultura letteraria orientata al mercato sono solamente creatori di contenuti.
Potremmo proseguire con questo discorso. La letteratura mondiale produce temi e modi reiterati di affrontarli, contenuti universali; la forma estetica rimane fuori dalla discussione. Può rinnovarsi profondamente e a lungo solo a partire dalle periferie (come sapeva molto bene Borges e descrisse nel suo saggio «Lo scrittore argentino e la tradizione»[4]). Ciò è dovuto al fatto che si tratta di forme scoperte con il lavoro di bottega e gli occhi strabici di cui parla Piglia: qua e là. Da nessuna parte. Ugrešić dichiara che il peggior fallimento per uno scrittore dell’Est che incontra il mercato occidentale consiste nel riconoscere la totale mancanza di criteri estetici. I criteri di valutazione letteraria erano la quotidianità di uno scrittore dell’Est, non le apparizioni da Oprah; rappresentavano il suo capitale e ora questi scopre che «non vale un cazzo». In quel mondo distante dalle logiche commerciali non esistevano una buona e una cattiva letteratura; piuttosto, letteratura o spazzatura, conclude. Tuttavia la merda è accessibile a tutti, paradosso finale del mercato che Casanova e Moretti sembrano ignorare. Non si tratta di opporsi al globale con la tirannia manipolatrice del locale; si tratta, ancora una volta, di produrre nuove forme. Il romanzo è, a partire da Cervantes, l’arte della resistenza, della periferia. E il romanzo è esattamente il genere che più serve ai detentori del potere letterario per creare quella specie di prodotto dal sapore e dalla forma sempre uguale, estraneo alla diversità. Non importa che sia illeggibile; sono gli stessi lettori ad affermarlo: «So che è una porcheria, però mi piace» dicono in coro. A volte sarebbe bello tornare alla fitta selva del reale da cui si scrivono i veri romanzi.
Resistere al mercato oggi significa resistere alla cosiddetta letteratura mondiale, in esilio. E non bisogna dimenticare la meravigliosa frase di Edward Said: «L’esilio è un permanente stato di gelosia[5]».
[1] Milan Kundera, Il sipario, trad. it. Rizzante Massimo, Adelphi, Milano, 2005, p.43. [n.d.t]
[2] Op. cit. p.45 [n.d.t]
[3] Dubravka Ugrešić, Vietato leggere, trad. it. Djoković Milena, Nottetempo, Roma, 2005. [n.d.t]
[4] Saggio contenuto in Borges Jorge Luis, Discussione, trad. it. Lorenzini Lucia, Adelphi, Milano, 2002. [n.d.t]
[5] Said Edward, Nel segno dell’esilio, trad. it. Guareschi Massimiliano, Rahola Federico, Feltrinelli, Milano, 2008. [n.d.t]
© Pedro Ángel Palou, 2016. Tutti i diritti riservati.
Pedro Àngel Palou è nato nel 1966 a Puebla. È stato commesso, arbitro di calcio, cuoco, funzionario pubblico, dirigente di una scuola superiore e presentatore televisivo. Attualmente abita vicino a Boston, dove scrive e insegna a tempo pieno presso la Tufts University. È un membro del Sistema Nacional de Creadores messicano. Le sue opere hanno ottenuto grande successo sia tra i lettori sia tra i critici e sono stati tradotti in francese, italiano e portoghese. Ha vinto il premio Xavier Villaurrutia e ha concorso come finalista per il Romulo Gallegos e il Planeta-Casamérica, partecipando a quest’ultimo con il romanzo Il denaro del diavolo. La sua trilogia storica su Zapata, Morelos e Cuauhtémoc e i suoi romanzi su Porfirio Díaz, Pobre Patria mía, e Pancho Villa, No me dejen morir así (non ancora tradotti in italiano), formano già una parte importante del rinascimento del romanzo storico messicano.
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