Il 31 gennaio del 2010 moriva Tomás Eloy Martinez. Lo ricordiamo oggi pubblicando un suo pezzo sulle origini e la natura del giornalismo in America Latina, una delle forme di scrittura che più gli stava a cuore. Il brano è stato pubblicato su La Gaceta di Tucumán, che ringraziamo.
di Tomás Eloy Martínez
traduzione di Ilaria Baratta
Il giornalismo è stato per me un lungo apprendistato che continua tuttora. Fin da quando ero molto piccolo ho sentito il bisogno di farmi raccontare storie. Le immaginavo, ma credevo di non essere in grado di scriverle. Ciò che conoscevo del mondo sfociava in un delta di domande su cui navigavo nel tentativo di capire sempre di più. Niente saziava la mia capacità di stupirmi né la mia perseveranza nell’indagare. A sedici anni cominciai a studiare Lettere, ma il mondo che cercavo di vedere era molto più grande delle letture accademiche. Nel giornalismo, al contrario, si lottava per Stalingrado, si soccombeva ai tre milioni di gradi centigradi di Hiroshima, si mettevano in discussione Faulkner e Bertrand Russell, si scoprivano Borges e l’Ortega y Gasset che era passato da Buenos Aires sentenziando che l’Argentina, il mio paese, viveva in una situazione di stallo, uno stallo interminabile aggrappato a un futuro che si intravedeva ma che non giungeva mai. Scoraggiato dai greci e dai latini che mi affibbiavano in facoltà, decisi di aprire una parentesi e mi proposi per un posto da reporter per La Gaceta, il quotidiano della mia città natale, Tucumán. Ebbi la fortuna di essere assunto come correttore di bozze: ciò mi permise di condividere le giornate di lavoro con filosofi e storici allontanati dalla loro cattedra a causa del pensiero unico del peronismo governante. In questa prima accademia ricevetti lezioni inestimabili di riflessione e indagine sulla realtà.
Più tardi, quando mi commissionarono le prime cronache, mi imbattei nei meccanismi della piramide inversa e nell’obbligo di fornire una versione piatta, quasi statistica dei fatti. L’immaginazione era proibita. Non si accettava che la verità fosse tanto vasta quanto gli esseri che vi si immergevano, e che nelle acque di quel fiume tutto cambiasse luce a ogni istante, e che le parole, nonostante fossero le stesse, non dicessero mai la stessa cosa. Potei tornare così alla mia originaria passione.
Poiché informare con semplicità e allineare i fatti con ordine militare significava per me impoverirli e screditarli, decisi di narrarli. Mi aggrappai a una tradizione che in America Latina esisteva già da quasi un secolo e che trovava le sue origini negli scritti che José Martí inviava da New York a La Nación di Buenos Aires e a La Opinión Nacional di Caracas, nei raccapriccianti rapporti di Canudos che Euclides da Cunha raccolse in Os Sertões e negli scrittori testimoni della rivoluzione messicana. Questa tradizione si rifletteva inoltre nei reportage politici di César Vallejo, nelle recensioni di film e libri che Jorge Luis Borges pubblicò su Crítica e su El Hogar, e nei cablogrammi deliranti che Juan Carlos Onetti scriveva per l’agenzia Reuters. Se ciò che volevo era narrare la realtà con immaginazione, proprio lì, in quella lunga tradizione, si trovava la risposta.
Mi accorsi dunque che tutti, veramente tutti i grandi scrittori dell’America Latina erano stati per un periodo giornalisti. E al contrario: quasi tutti i grandi giornalisti erano diventati, prima o poi, grandi scrittori. Quella fecondazione reciproca divenne possibile perché, per i veri scrittori, il giornalismo non fu mai un mero modo per guadagnarsi da vivere ma un ricorso provvidenziale per migliorare la vita. Per ognuna delle loro cronache, anche per quelle che nacquero nella fretta a causa della vicinanza dell’ora di chiusura, i maestri della letteratura latinoamericana si impegnarono a fondo, come per il loro libro più decisivo. Sapevano che se avessero tradito la loro parola anche nel più anonimo dei comunicati stampa avrebbero tradito il meglio di sé stessi. Un uomo non può dividersi tra il poeta che cerca l’espressione giusta dalle nove a mezzanotte e il gazzettiere indolente che lascia cadere le parole sulle scrivanie di redazione come se fossero chicchi di mais.
Il giornalista non è un agente passivo che osserva la realtà e la comunica; non è un semplice mezzo di trasmissione tra le fonti e il lettore ma è, prima di tutto, una voce che aiuta a riflettere sulla realtà, a riconoscere le emozioni e le tensioni segrete della realtà, a comprendere la causa, il fine e la modalità delle cose con lo stupore di chi le sta vedendo per la prima volta.
È possibile seguire queste parole d’ordine solo quando, davanti al foglio bianco, il giornalista continua a ripetersi: «Ciò che scrivo è ciò che sono, e se non sono fedele a me stesso, non posso essere fedele ai miei lettori». Solo da questa fedeltà nasce la verità, anche se dalla verità nascono rischi.
Una delle forze segrete del vero giornalismo è la sua capacità di rafforzarsi di fronte alle avversità, di eludere le censure e gli impedimenti, di cantarne quattro, di non farsi corrompere e non farsi sottomettere anche quando tutti intorno stanno in silenzio, si sottomettono e si corrompono.
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