Pubblichiamo un saggio di Colin Dickey su Joan Didion, di cui negli Stati Uniti è da poco uscita la biografia The Last Love Song: A Biography of Joan Didion, a cura di Tracy Daugherty. Il saggio è apparso originariamente sulla Los Angeles Review of Books; ringraziamo l’autore.
di Colin Dickey
traduzione di Sara Reggiani
Nella sua recensione di Girl in a Band di Kim Gordon, Jason Diamond sembra rispecchiare il pensiero di molti quando dichiara che «Girl in a Band conferma che l’autrice è la Didion della generazione X: sempre fredda e vagamente distaccata, cresciuta sotto gli stessi, dorati cieli californiani di Joan Didion ma abbastanza saggia da sapere che sotto la superficie si cela ben altro». Un’affermazione importante, ma per quanto esageratamente generoso nei confronti della Gordon, all’epoca mi parve un giudizio alquanto svilente del valore e della statura della Didion.
La definizione «sempre fredda e vagamente distaccata» ha minacciato di diventare il marchio della scrittrice, in particolar modo negli ultimi anni. Nell’autunno della propria vita la Didion è diventata un’icona di stile, un’ottuagenaria it girl: antologie su antologie hanno riflettuto sul suo celebre saggio «Bei tempi addio»; è stata scelta come testimonial da Céline («Che forza che Céline l’abbia scelta per la sua nuova campagna!», ha affermato entusiasta la stessa Gordon in un’intervista al New York Times. «Voglio quegli occhiali»), mentre la rivista on line Literary Hub vende ora borse di tela con la sua fotografia stampata sopra. La monumentale biografia di Tracy Daugherty, The Last Love Song, potrebbe passare per l’ennesimo risultato di tale tendenza: fa leva sulla sua «reputazione di artista che tastava il polso al presente» e di scaltra osservatrice di massicci rivolgimenti generazionali, e in copertina riporta la stessa fotografia di Julian Wasser impiegata per le borse di tela di Literary Hub. Questa è, si direbbe, l’apoteosi di Santa Joan, patrona dell’imperturbabilità.
La lunghissima biografia di Daugherty ci restituisce un quadro completo, vibrante di Joan Didion, la scrittrice che nel 1969 espresse con onestà le proprie opinioni sul divorzio e che, quasi quarant’anni dopo, con pari onestà descrisse l’esperienza del lutto. Il libro segue le vicende della ragazzina cresciuta nel nord della California che si divertiva a «giocare alla spedizione Donner», e più tardi della giovane donna, fresca di laurea a Berkeley, che rinunciò a una promettente carriera accademica per tentare di sfondare come giornalista a New York (quando si candidò per un posto a Vogue, una domanda del questionario che compilò recitava: «Quali lingue parla?» La risposta di Joan Didion fu: «L’inglese medio»). Daugherty ci offre un resoconto del suo matrimonio con John Gregory Dunne infarcendolo di riferimenti alla Donna che visse due volte. E ci restituisce il ritratto di una scrittrice che, pur con tutta la sicurezza della sua prosa, riferì dei fatti di Watts dai sedili posteriori di un’auto, terrorizzata com’era di finire nei guai.
Daugherty dichiara sin da subito l’intenzione di non indulgere in «pettegolezzi», e The Last Love Song è, in gran parte, piacevolmente scevro di dicerie o facili conclusioni. Daugherty sceglie anche di non andare a cercare chissà quale mirabolante teoria psicologica per svelare la struttura nascosta sotto la superficie della figura della scrittrice; non c’è alcun tentativo pseudofreudiano di spiegarne l’opera attraverso passati traumi mai comprovati. Daugherty si tiene dunque alla larga da territori che autori più pigri hanno spesso calpestato. Ci offre invece una «biografia letteraria come storia culturale», un compromesso tra la scrittura della Didion e la sua percezione dello spirito del tempo. Per Daugherty l’opera della Didion «non si limita a fornirci solo informazioni o a sviarci su aspetti della sua persona; riporta la scrittrice sulla pagina, riproducendone i ritmi mentali ed emotivi. Qualsiasi dissertazione seria su di lei dovrebbe prefiggersi di fare lo stesso». Nel suo libro ci sono molti fatti risaputi sul matrimonio, sulla figlia Quintana Roo Dunne, sulla vita a Sacramento, a New York, a Los Angeles, e ancora a New York. Ex amanti ed ex amici trovano tutti un ruolo. Ma questo non deve trarci in inganno: il principale interesse di Daugherty è rivolto all’opera, alla scrittura della Didion.
La biografia letteraria come storia culturale ha di certo i suoi lati negativi e ci sono passaggi, in questo imponente volume, che di tanto in tanto si trascinano con stanchezza – in particolar modo quando l’autore è obbligato ad affidarsi a consunti stereotipi degli anni Sessanta e Settanta per contestualizzare la vita dell’autrice. Mentre ripercorriamo le vicende legate alla famiglia Manson, a Patty Hearst e Jim Jones, il libro rischia di diventare l’ennesimo catalogo di baby boomers e relativi successi (o disastri). Va detto, a discolpa di Daugherty, che tali personaggi sono stati inclusi perché la Didion aveva scritto o aveva intenzione di scrivere di tutti loro. Non potendo contare sul suo contributo o su quello delle due persone a lei più vicine (il marito e la figlia, morti rispettivamente nel 2003 e nel 2005), Daugherty ha fatto del suo meglio. Vero è che molte delle persone che ha intervistato non parlavano con la scrittrice da anni e anni. Non ha avuto altra scelta che appellarsi allo spirito del tempo per compensare la mancanza di testimonianze dirette.
Tuttavia si denota una più incombente tensione, quella fra il genere stesso della biografia e il suo soggetto – o, forse, fra il desiderio di Daugherty di produrre un certo tipo di biografia e il preciso rifiuto del suo soggetto di assumersi il ruolo che Daugherty aveva in mente di darle. «La figura dello “scrittore” non mi attrae», dichiara la voce narrante di The Last Thing He Wanted della Didion: che dietro tale affermazione si celi o meno la Didion stessa, è evidente che Daugherty fosse comunque interessato alla sua figura e a produrre una biografia che definisse la Didion una Scrittrice con la S maiuscola. I dettagli biografici sono forniti in primo luogo in relazione alla sua opera, e la sua carriera risulta fin dalla prima infanzia una sorta di profezia che si auto-avvera – come quando, ad esempio, la madre viene presentata come la sua «prima lettrice», e le epigrafi nel cimitero vicino alla sua casa d’infanzia vengono descritte come lezioni di narrazione condensata.
Penalizzato dalla mancata partecipazione di Joan Didion, il libro di Daugherty sembra destinato a fallire. Facendo affidamento principalmente sulle opere pubblicate, rischia di prendere i dettagli autobiografici sparsi qua e là nei vari libri – ciascuno dei quali era stato utilizzato per l’ottenimento di uno specifico effetto – e slegarli dal loro contesto originale, dando vita a una sorta di cronologia rimasticata. Un dettaglio tratto da The White Album allora è affiancato a un aneddoto di Blue Nights semplicemente perché entrambi i libri narrano della sua vita alla fine degli anni Sessanta, senza avere quasi nient’altro in comune. Considerando che la scrittrice aveva già reso noto un gran numero di informazioni personali senza offrire alcun riassunto olistico della propria vita, la questione più pressante riguardo a The Last Song si riduce a questo: era un progetto valido? Il compito del biografo è cucire insieme gli eventi disparati, casuali e caotici di una vita per formare un racconto coerente, ed è precisamente da questo genere di finzione che l’opera della Didion, credo a buon diritto, ha preso le distanze.
Questo non significa però che la stessa Didion, nelle opere per cui è meglio conosciuta, non adotti un simile genere di sentimento universalizzante. «Buona parte di ciascun giorno vissuto a Los Angeles lo si passa a guidare, in solitudine, per strade prive di significato per il guidatore», così si apre uno dei tanti saggi su quella che per decenni l’autrice ha considerato la sua città. È questo genere di atteggiamento a rendere la sua opera tanto coinvolgente: ci si lascia trasportare dalla sua sicurezza, dal suo modo di unire eventi disparati e caotici in resoconti coerenti che non lasciano spazio ad ambiguità o contestazione. Si tratta in sostanza di una caricatura, ma comunicata con tale maestria e convinzione da essere recepita come vangelo.
***
Ho trascorso gran parte della vita in California, principalmente a San Jose e a Los Angeles, e nonostante l’ammirazione che nutro per le abilità descrittive della Didion, mi sono sempre meravigliato della sua totale incapacità di descrivere la vita di chiunque io conosca. Queste ampie, quasi mitologiche dissertazioni sul luogo, si percepiscono quasi sempre, per quanto ben intenzionate, come tentativi di cancellare lo stile di vita di coloro che non rientrano negli schemi. L’amore per il dettaglio della Didion è un mezzo per dare vigore e peso alle sue affermazioni, ma per uno come me che ha vissuto quindici anni a Los Angeles, il suo ritratto della vita a Malibù negli anni Sessanta vale quanto quello della vita sulla luna (descrive piuttosto bene i venti di Santa Ana, ma non la perdonerò mai per aver tagliato l’ultima frase della descrizione di Chandler, quando lo cita nel «Taccuino di Los Angeles»: non era solo l’ultima frase, ma quella più importante, quella intorno a cui ruotava tutto lo scherzo. Ma del resto con la Didion nulla è uno scherzo, tutto è serio. Altra ragione per cui le sue descrizioni di Los Angeles suonano sempre sbagliate).
Molto di ciò che dice su Los Angeles non pare un’accurata descrizione della città, quanto piuttosto un mezzo per espiare il grave peccato commesso abbandonando New York e, allo stesso tempo, un perpetuo tentativo di lasciarsi aperta una porta per un eventuale ritorno. Il suo vero pubblico non è Los Angeles, né l’America nel suo complesso, ma il mondo editoriale newyorkese (per Joan Didion, allora come adesso, lo spazio tra le due coste non esiste. Così totale è la sua attenzione sulla California e su New York che in Miami la Florida appare aliena – e pericolosa – quanto il paese di Boca Grande di sua invenzione). Ma la convinzione stessa con cui scrive per questo pubblico, la precisa qualità che rende le sue affermazioni tanto efficaci, è anche ciò che estrania dal testo chiunque non si identifichi immediatamente con il suo punto di vista.
Naturalmente è possibile che sia io a non capire, o che non sia destinato a farlo. Nel suo elogio di Joan Didion, Caitlin Flanagan ha sollevato un’importante questione che riguarda non soltanto le sue due più note raccolte di saggi, Verso Betlemme e The White Album, ma anche la specificità del suo pubblico di lettori:
Se ami a tal punto Joan Didion da affermare che ha cambiato il tuo modo di pensare – e sono tanti a poterlo dire – i libri responsabili di questo sono esclusivamente quei due. […] E per amare davvero Joan Didion – per perdere la testa per cose come il profumo del gelsomino e la lista di viaggio che conserva accanto alla valigia – devi essere femmina.
Giudizio opinabile, naturalmente, ma la Flanagan non si sbaglia troppo proclamando che di questi tempi la reputazione di Joan Didion si basa quasi interamente su quelle due opere – oltre al romanzo scritto nello stesso periodo, Prendila così, e ai libri più recenti sul lutto, L’anno del pensiero magico e Blue Nights (sebbene la Flanagan stessa ritenga che Blue Nights sia la dimostrazione che anche la Didion abbia, alla fine, ceduto al passare del tempo).
Per molti lettori tutto il resto – il periodo centrale, quello che va all’incirca dal 1977 al 2001 – ha più o meno cessato di esistere. Come direbbe la Flanagan, la Joan Didion giovane e chic, appoggiata languidamente a una Corvette, quella che tradisce New York per Malibù, è improvvisamente riemersa, come dopo un periodo di ibernazione criogenica, nei panni di una moglie e madre in lutto, che racconta la morte del marito e della figlia mettendo a nudo ogni dettaglio con bruciante onestà.
Secondo questa concezione diffusa, Joan Didion è tutto fuorché una scrittrice politica, sebbene metà dei suoi libri parli esplicitamente di politica. Ce ne vuole per dimenticare che abbia scritto Diglielo da parte mia, Salvador, Miami, Democracy, The Last Thing He Wanted, Political Fictions e Fixed Ideas: America Since 9/11, eppure sembriamo volerla ricordare solo come una scrittrice i cui principali punti di forza sono l’essere chic e la bravura nel descrivere la stagione degli incendi nel sud della California, oltre che l’esperienza finale del lutto.
***
È evidente che io non sia femmina, perché non mi sono innamorato della Didion grazie a Verso Betlemme, né per via di The White Album – per quanto adori entrambi i libri e il primo lo abbia insegnato a scuola per anni – bensì grazie al suo romanzo del 1977, Diglielo da parte mia, che lessi a ventidue anni, durante il mio primo anno di dottorato, quando mi trasferii nel sud della California. Mi sono innamorato di questo libro perché parla di un fallimento del linguaggio, dell’impossibilità di narrare, di conoscere ogni cosa, di rappresentare. Il romanzo si apre con una grande sicurezza narrativa che, tuttavia, viene bruscamente a mancare nelle pagine finali, rammentandoci, per citare le parole della narratrice Grace Strasser-Mendana, «l’equivoca natura persino dell’evidenza più empirica».
Questo è uno dei nodi più importanti nell’opera della Didion. Lo si trova, ad esempio, nel suo magistrale Salvador (un’opera paragonabile a Dispacci di Michael Herr e La prima guerra del football di Ryszard Kapuściński quanto a capacità di rappresentare la brutalità e insieme l’assurdità della guerra), che si apre con l’osservazione che atterrare all’aeroporto di San Salvador «è come piombare dritti in uno stato in cui nessun terreno è solido, nessuna profondità di campo affidabile, nessuna percezione così definita da non potersi dissolvere nel proprio opposto». Lo si trova nella scrittura politica di Miami, After Henry e Political Fictions, e nei romanzi Democracy e The Last Thing He Wanted, con i loro sempre mutevoli paesaggi infarciti di dicerie, pseudonimi e confusi scambi di pistole, denaro e vite.
Ma nei suoi scritti più amati, dove con sicurezza si rivolge a intere generazioni e città, questa ambiguità non si trova di frequente. Come scrive Joan Didion stessa, in un saggio del 1990 sul caso della jogger aggredita a Central Park, mettendo apparentemente in discussione molto di ciò che aveva scritto altrove:
L’imposizione di una narrazione sentimentale, o falsa, sulla disperata e spesso casuale esperienza che costituisce la vita in una città o in un paese implica, necessariamente, che molto di ciò che avviene in quella città o in quel paese verrà reso in maniera meramente illustrativa, una serie di sketch o performance.
Questa affermazione suona come un feroce rimprovero all’autrice di Verso Betlemme da parte di un’autrice più saggia, la quale comprende (molto meglio di quanto la più giovane versione di sé abbia mai fatto) che gli scrittori tradiscono sempre qualcuno.
È molto più difficile vedere questa Didion sotto una luce romantica rispetto alla giovane innocente che fuma una sigaretta nei ritratti di Julian Wasser. Sarà per questo che i lettori tendono a sorvolare sulla sua opera politica, sebbene vada anche detto che il personaggio della scrittrice qui è molto più difficile da definire. I suoi scritti politici degli anni Ottanta e Novanta sono potenti proprio perché non riassumono e non glissano mai su niente. La Didion si rifiuta di accettare non solo la linea imposta dal partito, ma il fatto stesso che ne esista una, che esista un linguaggio progressista, conservatore, liberale da poter stendere sopra la caotica realtà del mondo.
È vero che nei primi anni del nuovo millennio Joan Didion è emersa come acuta oppositrice della doppiezza retorica dell’amministrazione Bush, criticando il linguaggio evasivo che utilizzava gli accadimenti dell’11 settembre per giustificare l’invasione dell’Iraq. Ma non aveva, nemmeno allora, un atteggiamento da partigiana radicale – nutriva altrettanto sdegno nei confronti dei democratici e della loro politica di corto respiro; tuttavia siamo lontani dal tenore delle sue prime opere, quando preferiva Goldwater a Reagan e Nixon perché «troppo liberali». Si prenda, ad esempio, l’iconico saggio «Verso Betlemme»: i due paragrafi di apertura sono tra i più squisiti mai scritti nella storia della forma, una magistrale lezione sul mestiere in sé e per sé; ma mi ostino a dimenticare che la restante parte di quel saggio si basa su convinzioni conservatrici – quelle di una maestra che si lamenta, ancora una volta, che gli alunni non si applicano (l’avesse scritto oggi, non avrebbe inveito contro gli hippy, ma contro i videogiochi violenti o gli sms a sfondo sessuale). Per non parlare poi della sua feroce denuncia del femminismo in The White Album, che ora appare a dir poco imbarazzante.
***
La capacità di Daugherty di analizzare questa evoluzione è di per sé notevole: tratta le contraddizioni del personaggio non tanto come fasi di passaggio verso una visione del mondo «corretta» o «definitiva», ma come momenti di una vita accompagnata da contraddizioni, appunto. Nei suoi primi libri Joan Didion parlava degli hippy, dei Doors, delle Black Panthers, di Manson come di sintomi di un declino culturale; negli anni successivi scriveva di Saigon, del Nicaragua e delle grandi convention di partito. In ultima analisi, però, sembrava vedere tutto – dalla Weather Underground a Reagan e a Clinton – come parte di un’unica entità, infatuata dell’ideologia e della retorica piuttosto che di qualunque cosa si avvicini a una parvenza di impegno etico. Come scrive Daugherty: «Agli occhi della Didion la politica era essenzialmente un accordo militare globale». In Diglielo da parte mia il giovane radicale Marin Douglas afferma: «Il fatto che la nostra organizzazione sia di natura rivoluzionaria si deve soprattutto al fatto che tutta la nostra attività è definita come rivoluzionaria». Si ha l’impressione che questa tautologia, in tutta la sua solenne insensatezza, nel suo urlo e nel suo furore, sia secondo Joan Didion rappresentativa di quasi tutte le forme di retorica politica.
Gli scrittori che emulano i saggi canonici della Didion ignorano questo aspetto della sua scrittura, a loro rischio e pericolo. Ripercorrendo i suoi romanzi politici, si riscontra un tonificante livello di ambiguità, il rifiuto di autorizzare i tipici strumenti della finzione letteraria – narrazione, caratterizzazione, linguaggio figurativo – a fornire un qualche fondamento di significato in un paesaggio in balia della confusione e dell’inganno. Come scrive Daugherty a proposito di questi libri:
Ciò che la Didion cercava di dimostrare era essenzialmente che il moderno scrittore americano non può più ritenere che gli strumenti o i metodi tradizionali siano una sorta di chiave: la nostra politica nazionale ha compromesso il linguaggio in maniera irreversibile. […] Democracy riflette sulle parole, sul diffuso cattivo utilizzo che ne facciamo nel nostro eloquio pubblico. Il romanzo è un intenso, straziato ed esitante tentativo di salvare le parole e ridonare loro «integrità».
Una tale convinzione non è più in voga nell’era post-postmoderna in cui viviamo, dove il realismo narrativo è tornato a regnare sovrano e le parole e il simbolismo sono nuovamente considerati sicuri e stabili. Ma l’aver riportato in primo piano questi romanzi in un certo qual modo dimenticati costituisce una delle maggiori e inaspettate fonti di piacere di The Last Love Song. Potrà forse sembrare un tantino esagerato dichiarare, come fa Daugherty, che «Democracy è una delle più raffinate conquiste della letteratura americana del ventesimo secolo», ma è di certo un gran bel romanzo, oltre che un’opera importante per i tempi in cui viviamo.
Ed è questo il brillante trucco che Daugherty utilizza in The Last Love Song. Intrecciando la vita e l’opera della Didion in un racconto coerente e compatto, riesce nell’intento di resuscitare il suo periodo centrale – ovvero proprio quella parte della sua opera che più apertamente oppone resistenza alla coerenza e alla compattezza. Il paradosso risiede nel fatto che, non permettendoci di saltare direttamente da The White Album a L’anno del pensiero magico, Daugherty dimostra che la migliore scrittura di Joan Didion è quella che più vogliamo dimenticare – quella difficile, rozza – la scrittura che smentisce i nostri facili preconcetti, ricordandoci così che Joan Didion come icona di stile è di gran lunga meno interessante, e meno durevole, della Didion sopraffina scrittrice politica.
***
Leggere The Last Love Song accanto all’intera opera della Didion porta all’attenzione una fondamentale contraddizione interna alla scrittrice. In lei convivono due scrittrici diverse: una che sguazza nell’ambiguità e l’altra che si affida alla chiarezza espositiva. Il biografo che tenti di riunirle in un’unica figura letteraria sembra destinato a sottovalutare almeno una se non entrambe le tendenze. Se non fosse che la tendenza della Didion verso il gesto plateale, definitivo non è mai così definitiva e convinta quanto sembra.
I suoi primi saggi su Los Angeles cominciarono ad apparire verso la metà degli anni Sessanta, ma Joan Didion scrisse della città per tutto il tempo in cui vi abitò, e anche più tardi le rivolse un nuovo saluto. I saggi californiani in After Henry, pubblicati oltre vent’anni dopo quelli di Verso Betlemme, sembrerebbero quasi ridondanti, se non fosse che suggeriscono quasi una coazione a ripetere, come se l’autrice continuasse a sbagliare e fosse costretta a ritornare sui propri passi. Come afferma in Where I Was From:
Tuttavia la California è rimasta per me in un certo qual modo impenetrabile, un enigma snervante, come lo è per tanti di noi che provengono da lì. La manipoliamo, la correggiamo e rivediamo, cerchiamo invano di definire il nostro rapporto con lei e il suo rapporto con il resto del paese.
La sua sicurezza è dunque fuorviante. Manipolava continuamente il pensiero, correggendolo e rivedendolo, e rivisitando sempre gli stessi temi centrali, mai del tutto paga.
L’opera di Daugherty in definitiva è un successo proprio in virtù della capacità dell’autore di vedere Joan Didion non tanto come un’icona immutabile di stile, ma come una persona le cui idee e la cui scrittura cambiavano costantemente, radicalmente. Fondendo biografia e bibliografia, The Last Love Song ci mostra la vita di una scrittrice non sotto forma di bildungsroman, con un cammino inesorabile verso una conclusione prefissata, ma come processo dinamico e in perpetua evoluzione, il cui svolgersi spesso interseca solo marginalmente e accidentalmente la scrittrice stessa.
© Colin Dickey, 2015. Tutti i diritti riservati.
Colin Dickey è autore di Cranioklepty: Grave Robbing and the Search for Genius e di Afterlives of the Saints: Stories from the Ends of Faith.
Condividi