woman silence

Le amicizie femminili e il sessismo letterario online

Gila Lyons BIGSUR, Scrittura, Società

«Come mai la scrittura in prima persona viene considerata un’attività femminile, e perciò pittoresca e insignificante come il lavoro a maglia e il ricamo?» Un intervento di Gila Lyons, pubblicato originariamente su The Rumpus. Ringraziamo l’autrice.

di Gila Lyons
traduzione di Chiara Baffa

Ho letto «I’m having a friendship affair» [«Ho una storia di amicizia», n.d.t.], il recente articolo del New York Magazine in cui l’autrice Kim Brooks descrive la sua sofferenza per la fine di un’amicizia femminile, proprio pochi giorni dopo che una delle mie amiche più strette, che chiameremo Hannah, aveva smesso di parlarmi. Quando, dopo tre anni di amicizia molto intima e due mesi di improvviso e misterioso silenzio glaciale, avevo insistito con Hannah perché mi spiegasse cosa stava succedendo, mi aveva seccamente comunicato la fine della nostra amicizia. Per la precisione, le sue parole erano state: «Ho bisogno di un’amica, ma è un bisogno che posso andare a soddisfare da un’altra parte». Me le ricordo a memoria perché mi era sembrato un modo bizzarro e veramente poco umano di dirlo, molto lontano dal nostro solito modo rilassato e affettuoso di comunicare.

Il pezzo di Brooks, il cui sottotitolo era «Intensamente ossessiva, profondamente importante, occasionalmente dannosa, una minaccia per il matrimonio: l’intimità platonica e lievemente patologica che può crearsi tra due donne», è girato tra centinaia di gruppetti di amiche per tutto il paese – a me è stato inviato da parecchi giri femminili diversi fra loro. Ha toccato delle corde vive e pulsanti eppure poco discusse ed esplorate; le donne l’hanno subito inoltrato ad amiche, madri, sorelle, figlie, immedesimandosi nel modo in cui venivano raccontate l’intensità dell’amicizia femminile e la devastazione provocata dalla sua scomparsa.

Avrei voluto scrivere una replica che andasse a esaminare e sbrogliare i miei sentimenti in seguito alla mia prima esperienza di morte improvvisa di un’amicizia, e che cercasse di indagare, antropologicamente, i meccanismi che portano donne intelligenti, emotivamente mature, a stringere amicizie che somigliano a rapporti di coppia, e quello che succede quando queste amicizie finiscono.

Poi ho letto i commenti:

queasyrider
Poverina, ti sei fatta la bua?… Adesso fai la bambina grande e vai a badare ai figli che avresti già dovuto avere.

chulacabra
Disturbo borderline di personalità.

papadaki
ecco la risposta alla mia domanda: «come sarebbe lena dunham se non fregasse niente a nessuno di quello che ha da dire?»

charlenecolbert
L’autrice è squilibrata, e pure la sua «amica». Questa è malattia mentale.

7Mary4
Mi sembrano problemi/angosce da bianca coi soldi. Ripigliati e comincia a comportarti da adulta. Tuo marito dev’essere un santo.

salad454
@7Mary4 sicuramente avrà un’altra.

Alcuni commenti offrivano incoraggiamento, critiche costruttive e utili feedback, ma una buona percentuale era simile a quelli qui sopra – meschini, aggressivi, tutti infrangevano la regola principe di ogni laboratorio di scrittura: criticare il pezzo, non l’autore. So che internet non è un laboratorio di scrittura. E so che le persone usano la sezione commenti di articoli e video per dare voce ai pensieri più carichi d’odio e intolleranza che la loro mente possa concepire. Ma quei commenti mettevano perfettamente in luce ciò che molte autrici già sanno: spesso le donne vengono brutalmente insultate e umiliate perché scrivono della loro vita privata, molto più delle loro controparti maschili; è una manifestazione del sessismo che ancora perdura nell’ambiente letterario, così come nel resto del mondo.

Il messaggio è: Stai al tuo posto. Decidiamo noi cosa è importante e cosa no, cosa è un piagnisteo e cosa invece ha un valore. Nel campo dei personal essays, dominato dalla presenza femminile, la ferocia degli attacchi, provenienti da persone di entrambi i sessi, rappresenta un tentativo di controllare quello che dicono le donne, di mettere a tacere o spaventare o far vergognare le donne che vogliono scrivere e condividere la propria storia.

Latoya Peterson, editor di Fusion, ha detto al Guardian:

Gli uomini scrivono continuamente articoli di questo genere. Solo che non vengono visti sotto la stessa luce, non vengono messi in un angolo. Un uomo che scrive della sua dipendenza dalla droga o delle sue notti dissolute tra lenzuola sudate è considerato perfettamente normale. Interessante. Letterario. Tom Chiarella ha scritto su Esquire di essere stato sessualmente molestato da un insegnante – ma il pezzo non è stato catalogato come robaccia confessionale. Gli è stata data la considerazione che meritava. Per qualche ragione, le vite degli uomini sono per loro natura argomenti più seri rispetto a quelle delle donne.

Nello stesso articolo del Guardian si intervistavano vari editor di testate che pubblicano saggi autobiografici, ed Emily McCombs, ex caporedattrice di xoJane, diceva:

Non sapete quante volte mi sono trovata davanti all’atteggiamento per cui, se in questi pezzi si raccontano le vite delle donne, allora per qualche motivo sono superficiali, sciocchi o irrilevanti. Le vite delle donne – le nostre storie – non sono irrilevanti. Spesso riflettono la massima femminista per cui il personale è politico […] «Troppe confidenze», «mettere in piazza gli affari propri» e «confessioni da blogger» sono tutte espressioni condiscendenti e sprezzanti. Nessuno usa questo vocabolario quando sono gli uomini a scrivere di sé stessi.

Pensate a Le ceneri di Angela, Un vero bugiardo, Un’altra notte di cazzate in questo schifo di città, Correndo con le forbici in mano – tutti questi memoir non sono stati liquidati come futili e ombelicali, cosa che invece succede a scritti simili firmati da autrici. Scandagliare nelle profondità delle emozioni è stato a lungo considerato un lavoro da donne. La psicoanalisi, tuttavia, antenata di questo tipo di introspezione, è iniziata con Freud e fino a poco tempo fa è stata praticata soprattutto da uomini. Allora come mai la scrittura in prima persona viene considerata un’attività femminile, e perciò pittoresca e insignificante come il lavoro a maglia e il ricamo?

Secondo Doree Shafrir, editor di BuzzFeed, la convinzione che i pezzi in prima persona siano scritti per la maggioranza da donne è errata, ed è da attribuire alla «democratizzazione delle voci operata da internet – che permette ad alcuni autori, in particolare alle donne e agli scrittori di colore, di accedere a delle piattaforme e a un pubblico che prima gli erano preclusi, e di raccontare le proprie storie – che ha messo una certa ansia ad alcune sentinelle della cultura». In altre parole, uomini e donne producono la stessa quantità di materiale autobiografico, ma ne vediamo di più scritto da donne perché viene pubblicato solo adesso che le possibilità che offre la rete hanno messo tutti nelle stesse condizioni.

Il pezzo che Jessa Crispin ha pubblicato l’anno scorso su The Boston Review, «How Not to be Elizabeth Gilbert» [«Come non essere Elizabeth Gilbert», n.d.t.] ha avuto molta risonanza. Nell’articolo, l’autrice si scaglia contro Elizabeth Gilbert e Cheryl Strayed, accusandole di ricadere nei soliti luoghi comuni dell’introspezione femminile invece di concentrarsi su avventure nel mondo esterno. Crispin ritiene i loro romanzi «regressivi, più che trasgressivi», e scrive: «Ci aspettiamo ancora che gli uomini ci raccontino quello che fanno e che le donne ci raccontino quello che provano». Il pezzo è piuttosto inconsistente, se si considera che l’autrice attacca queste donne perché non corrispondono alla sua idea di brave croniste di viaggio, mentre i loro libri sono dei memoir, incentrati su ben precisi luoghi geografici, certo, ma pur sempre memoir nella loro essenza; il punto per quelle autrici era esplorare i propri sentimenti – l’ambientazione serviva solo a giustificare i loro percorsi interiori. Oltretutto, ci sono innumerevoli uomini che scrivono testi introspettivi e miriadi di donne che non scrivono di loro stesse o delle loro relazioni.

Crispin conclude: «Il nostro sesso può diventare una veloce leva di marketing, un modo per allontanare la nostra scrittura dalla ingombrante influenza maschile. Ma ha anche l’effetto di segregarci. Se non potessi essere né Chatwin né Gilbert, allora chi potrei essere?» Sembra una domanda gratuita, basata su una falsa dicotomia. Quando Jessa Crispin sostiene: «Qualsiasi scrittore di viaggio che devia dai ruoli sessuali tradizionali rischia di essere sottovalutato», sarò anche ingenua, ma mi viene da rispondere: «Scrivi un libro così bello da non poter essere ignorato, così universalmente vero da non avere connotazioni di genere». Lo stesso vale per le autrici di personal essays; se esaminiamo adeguatamente noi e il nostro lavoro, insegneremo ai nostri lettori qualcosa di loro stessi, cosa vuol dire essere umani in questo mondo, e la gente vorrà leggere questi libri, non importa se l’autore è un uomo o una donna o una persona che non si riconosce nelle etichette di genere.

In quanto saggista che spesso scrive attingendo alla sua esperienza personale e che sta lavorando su un memoir, sono fermamente convinta che per una donna raccontare le propria storia sia un gesto femminista. Ma anche io sono colpevole di alzare gli occhi al cielo o passare oltre quando vedo un pezzo scritto da una donna su un disordine alimentare, sul rapporto con il corpo e la bellezza, sull’aborto, tutti temi decisamente femminili. È vero, si scrive tantissimo di queste cose, eppure si scrive altrettanto frequentemente di amore, tradimento, gelosia, famiglia, e di fronte a quegli argomenti non mi si appanna la vista. Perché? Sessismo o realismo? Misoginia o obiettività? Senso del decoro o prigioni mentali?

Come scrittrice, divido il mio tempo tra personal essays e giornalismo, e, quando lavoro a un pezzo autobiografico, mi domando costantamente se il tema di cui parlo merita l’energia e il tempo che sto impiegando. Paragonati all’emergenza dei profughi siriani, al cambiamento climatico, alle continue carestie e ai genocidi, i problemi che affronto nella mia vita privata sembrano sciocchezze prive di significato e gravità. Spesso abbandono gli articoli a sfondo personale per raccontare di persone e progetti che cercano di rendere il mondo un posto più giusto ed equo in cui vivere. Ma comportandomi così sto forse dando più valore al mondo e all’influenza esterna, territorio tipicamente maschile, che a quello dell’interiorità e della riflessione su di sé, tradizionalmente di dominio femminile? Da un lato, la sofferenza umana è universale, che sia inflitta dalla siccità, da una carestia o da un divorzio.

Dall’altro lato, siamo onesti.

Faccio parte dello 0,2% di abitanti più agiati del pianeta. Sono bianca e istruita, cresciuta in un’amorevole famiglia della borghesia medio-alta. In quanto donna ed ebrea, so qualcosina di cosa si prova a essere emarginata, ma non più di tanto. Sono incredibilmente riconoscente per i miei privilegi, e ogni giorno cerco di usarli per aiutare le persone che non hanno avuto le mie stesse opportunità. Non credo che essere privilegiata voglia dire che quello che penso e provo non abbia importanza, oppure che io non abbia il diritto di indagare ciò che conta per me. Posso immaginare che i commenti a questo articolo verteranno su quanto sia capriccioso, ombelicale e superfluo. Sono certa che alcuni porteranno degli argomenti validi. E mi sembra giusto. Ma mi sembrano giuste anche l’espressione e l’esplorazione del sé, purché non intralcino altre forme di scrittura.

La mia speranza è che riusciamo tutti a fare il lavoro che siamo chiamati a fare senza screditare nessuno e senza sentire il bisogno di giudicare l’attività altrui in base al sesso. È esasperante che comiche e attrici si sentano chiedere, per la centesima volta, «Ma le donne sanno far ridere?» oppure «È un buon momento per essere una donna a Hollywood?», invece di vedersi rivolgere domande concrete sul loro mestiere e sulla loro attività. Nessuno chiede a un maschio se è un buon momento per essere un uomo a Hollywood, o per fare lo scrittore, il comico, l’amministratore delegato, l’astronauta, perché si dà per scontato che si trovino già al posto che gli compete.

Ho trovato deludente che, nonostante campagne come Ask Her More, anche quest’anno alle donne sul tappeto rosso dei Golden Globe Awards sia stato chiesto chi avesse disegnato il loro vestito e i loro gioielli, mentre ai loro co-protagonisti maschi venivano rivolte domande sulle loro opinioni e sulla loro carriera. Agli uomini si facevano i complimenti per i ruoli interpretati, alle donne per la loro bellezza.

Avevo in mente una bella immagine per l’articolo che intendevo scrivere sulle amicizie femminili. Nel mio soggiorno c’era una pianta vecchia e ingombrante, su cui durante i mesi in cui Hannah aveva smesso di parlarmi erano pian piano comparse delle macchie di muffa bianca, prima sulle foglie, poi lungo il tronco. In poco tempo, le foglie erano diventate marroni e avvizzite. Giorno dopo giorno, mentre Hannah manteneva il suo caparbio silenzio, le foglie cadevano a terra, e giorno dopo giorno andavo a gettarle in giardino. Alla fine, della pianta non era rimasto molto a parte uno spesso tronchetto ammuffito. Quando è morta mi sono sentita sollevata. Come la nostra amicizia, era diventata troppo grande per il vaso in cui era stata piantata, e avrebbe richiesto più tempo ed energia di quanto entrambe eravamo preparate a investire per farla tornare in salute.

Il giorno in cui Hannah mi ha detto che non era più mia amica, ho preso il grande vaso di ceramica, l’ho portato in giardino e ho rovesciato a terra tutto il suo contenuto. Era una buona metafora, e poteva venirne fuori un bell’articolo. Mi sarebbe piaciuto capire meglio cosa pensavo, provavo e sapevo riguardo ad Hannah, a me stessa, e alle amicizie femminili più intime. E invece, come le attrici di Hollywood che devono difendere il loro posto sul tappeto rosso per la cinquantesima volta, ho scritto questo pezzo qui.

© Gila Lyons, 2016. Tutti i diritti riservati.

Gila Lyons è autrice di articoli e saggi apparsi su Salon, Vox, GOOD Magazine, BUST Magazine, The Rumpus, The Millions, The Morning News, Ploughshares, Brevity, Tablet. Ha conseguito un master in literary nonfiction alla Columbia University, insegna scrittura e letteratura al Bunker Hill College, ed è attualmente al lavoro su un memoir che racconta di come, ricercando una cura «naturale» per l’ansia, si possa precipitare nel ventre molle del movimento salutista olistico. I link alle opere pubblicate si possono trovare all’indirizzo www.gilalyons.com. Il suo account Twitter è @gilalyons.

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